L’OMICIDIO SIMBOLICO DELLA SORELLANZA da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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L’OMICIDIO SIMBOLICO DELLA SORELLANZA da IL MANIFESTO

L’omicidio simbolico della sorellanza

HABEMUS CORPUS. L’omicidio di Giulia Tramontano ci ha mostrato due opposti. Da una parte c’è l’abisso della stupida crudeltà di un maschio, dall’altra la forza femminile

Mariangela Mianiti  06/06/2023

L’omicidio di Giulia Tramontano ci ha mostrato due opposti. Da una parte c’è l’abisso della stupida crudeltà di un maschio così lontano dal senso della vita, della relazione, dell’empatia da aver ucciso la compagna che portava in grembo suo figlio con la più banale delle motivazioni da lui stesso così raccontata: «Ero stressato per la doppia relazione con un’altra».
Non è stato un delitto per sete di possesso, come succede nella maggior parte dei femminicidi, ma un delitto commesso per fastidio, come se Giulia fosse stata per Alessandro Impagnatiello, l’omicida, una mosca da scacciare e non pensarci più. È difficile immaginare qualcosa di più arido, miserando, banale.
Dall’altra parte c’è la forza femminile che in questa vicenda ha più volti. Ci sono quelli della madre e della sorella della vittima che fin dall’inizio hanno temuto il peggio e fatto di tutto per trovare Giulia e allertare le forze dell’ordine. Poi c’è la PM Letizia Mannella che ha coordinato le indagini con la determinazione di chi sa che cosa e dove cercare, risolvendo il caso nel giro di poche ore. Sono, queste, figure che rientrano in uno schema prevedibile, nel senso che la madre, la sorella e la magistrata hanno fatto ciò che ci si aspetta da una madre, una sorella e una magistrata.

MA E’ UN’ALTRA la protagonista che emerge anche simbolicamente da questa vicenda con un ruolo dirompente. E quella che un tempo si sarebbe chiamata «l’altra», intendendo la rivale in amore, l’amante, colei che contende la relazione. È lei, la 23enne collega di Impagnatiello con cui aveva avuto una relazione, compresa una gravidanza interrotta, a capire che lui le mente, manipola, che la sta usando, che per mesi le ha raccontato una realtà parallela. È lei che vuole andare a vedere fino in fondo come stanno le cose. È lei che cerca Giulia per raccontarle e farsi raccontare la realtà dei fatti. È lei che si allarma quando, dopo l’incontro con Giulia, la chiama e, non trovandola, telefona a lui, non si fida delle sue rassicurazioni, sente che qualcosa è successo, il giorno dopo cerca la sorella di Giulia, le dice che cosa è accaduto e da lì innesca l’allarme.
Le due giovani donne, vedendosi per la prima volta, si sono abbracciate. Hanno riconosciuto l’una nell’altra una sodale, non una rivale, non una da insultare o con cui competere. Non hanno litigato per stabilire una supremazia sul maschio, ché di quel maschio imbroglione e inconsistente non sapevano più che farsene, né l’una né l’altra, ma l’hanno messo da parte, gli hanno metaforicamente sputato sopra, come si meritava, girando le spalle al suo castello di menzogne autoreferenziali.

È QUESTA solidarietà femminile, questa sorellanza emotiva la parte bella di questa vicenda finita malissimo. Una solidarietà di cui purtroppo Giulia e suo figlio non potranno mai più profittare, e questo è un delitto simbolico nel delitto di fatto. Giulia è stata uccisa nel corpo, nella ricchezza delle sue relazioni famigliari, nel futuro di madre e in quello di sorella simbolica di un’altra donna.
Se mettiamo a confronto questi due mondi, quello dell’uomo che uccide senza neanche rendersi conto delle conseguenze del suo gesto, che uccide per miseranda incapacità di amare qualcos’altro al di fuori del proprio ego, e quello di due donne che si riconoscono e si sostengono, vediamo l’abissale differenza che fa la differenza dell’essere donna, che non è mica un regalo piovuto dall’alto, ma una consapevolezza costruita con una pratica femminile e femminista. Giulia ne aveva appena provato la bellezza. Purtroppo, tornata a casa, ha trovato quel lui.

“Nuovi discorsi” che non sappiamo ascoltare

IN UNA PAROLA. La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Alberto Leiss  06/06/2023

Ho letto il libro di Andrea Graziosi Occidenti e modernità (Il Mulino, 2023) che si propone di “vedere” meglio “un mondo nuovo” dopo il trauma della pandemia e dentro quello della guerra. Il testo termina cercando di indicare propositi politici “ragionevoli” (nel perimetro di una cultura liberaldemocratica di cui mi pare non si colga a fondo la crisi, comune a tutto il “progressismo”) soprattutto per un ruolo dell’Europa che è in gravi difficoltà, e confessando che si tratterebbe anche di «trovare nuovi discorsi che chi scrive non riesce a vedere».

Mi ha colpito che un saggio molto concentrato sui grandi problemi posti ai paesi occidentali “avanzati”, come il nostro, dalle tendenze demografiche – meno figli, meno giovani, sempre più anziani bisognosi di sopravvivere e curarsi – nomini sì il fatto che ciò dipende da scelte che fanno soprattutto le donne. E si accorga che tra i movimenti politici alle nostre spalle (dalla Rivoluzione francese alle lotte di classe ispirate da Marx, ai nazionalismi ottocenteschi e novecenteschi) tutti basati su “soggetti collettivi” più o meno mitizzati, sta anche la «rilevantissima eccezione delle donne, mobilitatesi seguendo un modello originale». Ma poi si cercherebbe invano qualche riferimento più approfondito a questo “modello”, al “nuovo discorso” che il femminismo ha prodotto, esercitando una critica radicale proprio di quelle idee di “soggetto” che hanno fondato la politica maschile sino a oggi.

Ci pensavo partecipando sabato e domenica alla Libreria delle donne di Milano al convegno organizzato dalle “Città vicine” e da “Identità e differenza” per «riflettere sulla pratica politica delle relazioni di differenza tra donne e uomini nelle questioni più pressanti del nostro presente». Tema arduo, ma ancora più difficile discutendone sotto l’impressione degli orrendi femminicidi di Giulia Tramontano, che aspettava un bambino, e della poliziotta Pierpaola Romano. E mentre la guerra in Ucraina diventa ogni giorno più sanguinosa e inquietante.

C’è un sacrosanto moto di rivolta e di insopportazione delle donne contro il ripetersi – seriale: maschi assassini perché non sopportano di essere lasciati o “intralciati” dalle loro compagne, amanti, mogli – della violenza. E quello che facciamo noi uomini è manifestamente ancora troppo poco, troppo inefficace, troppo invisibile quando c’è.

Questo contesto drammatico però ha reso più vero il confronto, partito dalla spinta positiva delle amiche che hanno voluto l’incontro, con l’obiettivo di ritrovare, reinventare una pratica politica comune. Che ha avuto momenti di scambio importanti in passato, ma che è diventata negli anni più recenti più discontinua e difficile. C’è stato – come ha detto Anna di Salvo – un «punto di arresto». Come uscirne?

La discussione ha oscillato tra sentimenti di “disperazione” per come sta andando il mondo e di “speranza” per le energie, soprattutto femminili, come in Iran, che non si rassegnano. Tra il senso di impotenza di fronte alla guerra, e il desiderio di una pace che dalla logica della guerra prescinda totalmente. Una dimensione, prima di tutto, del come viviamo le relazioni con altre, altri. Che può già ora essere significata dall’esperienza artistica?
Tornerò su questa discussione.

La risposta degli uomini presenti ha riguardato le iniziative pacifiste, contro le armi, a sostegno dei maschi che in Russia e in Ucraina rifiutano di combattere, e l’idea – ne ha parlato Marco Cazzaniga – di organizzare incontri pubblici ricorrenti in cui raccontare e approfondire la ricerca di una politica comune, capace di esercitare il conflitto senza negare l’altra, l’altro come nemico.

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