L’OFFENSIVA AUTORITARIA DEI COSTITUENTI SENZA POPOLO da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’OFFENSIVA AUTORITARIA DEI COSTITUENTI SENZA POPOLO da IL MANIFESTO e IL FATTO

L’offensiva autoritaria dei costituenti senza popolo

Commenti Per creare una prospettiva di progresso non serve la difesa retorica della costituzione. Solo la pretesa dell’attuazione dei suoi principi può indicare la strada del cambiamento

Gaetano Azzariti  04/12/2024

È giunto il tempo di guardare in fondo alla crisi e porci la domanda più radicale: stiamo assistendo a un’evoluzione o a una rottura del sistema? Le trasformazioni che stiamo vivendo sono da ricondurre entro un ordinario sviluppo storico? Oppure siamo giunti ad una fase di superamento della nostra tradizione democratica occidentale?

Guardando all’Italia, alla nostra piccola provincia, c’è da domandarsi se la ricerca affannosa di un nuovo principio di legittimazione dei poteri, qual è l’elezione del Capo, nella deformata ipotesi del premierato; la volontà di una nuova distribuzione dei poteri tra enti territoriali, nella visione rozzamente appropriativa assunta dall’autonomia differenziata per come ci è stata sin qui prospettata; l’intento perseguito della separazione dell’ordine della magistratura, accompagnata da una riorganizzazione approssimata e vendicativa degli organi di governo del potere giudiziario; la stessa legislazione ordinaria sempre più attratta dalle ragioni securitarie e d’ordine e sempre meno propensa a garantire i diritti fondamentali e a definire politiche sociali solidali ed inclusive, tutti questi elementi sono il frutto della libera determinazione di un indirizzo politico che riflette gli odierni equilibri parlamentari ovvero rappresentano i pilastri su cui si sta edificando una nuova Repubblica autoritaria?

Ciò che, in ogni caso, non può affermarsi è che si tratta solo di un tentativo isolato – più o meno eversivo – di una destra al governo. Intanto perché se alziamo lo sguardo per osservare appena fuori dai nostri confini è evidente la fine degli equilibri planetari e dei principi di diritto internazionale stabiliti al termine della Seconda guerra mondiale. È entro questa incertezza planetaria che si colloca il caso italiano.

LIMITANDOCI a guardare al nostro Paese, dovremmo essere consapevoli che da tempo si assiste all’affannosa ricerca di un nuovo principio, che si tenta di affermare procedendo lungo un doppio binario: quello – spesso sconfitto – delle riforme testuali esplicite e quello – incontenibile – che punta ad imporsi in via di fatto (modifiche non scritte, atti inusuali, rotture di prassi). Con modalità non previste dall’ordinamento vigente e che tendenzialmente operano contra constitutionem, la quale non può mai legittimare la propria dissoluzione.

In questo quadro ci si può chiedere se ci si trovi di fronte al riemergere di un nuovo potere costituente. Può darsi, ma con un’avvertenza decisiva: esso si sta affermando in uno spazio temporale lungo, senza alcuna apparente soluzione di continuità, ma erodendo in modo graduale i connotati più propri del costituzionalismo vigente. Inoltre, quel che vale a caratterizzare questo nuovo «potere costituente dilatato» è che esso appare privo di un soggetto rivoluzionario che lo impone. Per meglio dire, non espressione di moltitudini ribelli, ma frutto di un cambiamento promosso dall’alto, senza una strategia unitaria. Come direbbe Gramsci, espressione di una classe dominante e non più dirigente.

In questa situazione caotica ci si può limitare a rilevare che si sta assistendo all’instaurazione di fatto di un nuovo ordinamento costituzionale, contrassegnata, rispetto alle esperienze del passato, essenzialmente da una più lunga – interminabile – fase di transizione.

Se questa è la situazione, ci troviamo dinanzi ad un classico dilemma, che interroga l’intera società quando domina l’extasis (quei periodi in cui prevale «lo stare fuori di sé»). C’è da chiedersi a quale ordine giuridico prestare fedeltà?

Ce la potremmo cavare affermando che essendo il potere costituente sempre illegittimo non si può che rimanere fedeli al vecchio regime, almeno sin tanto che questo non viene travolto e lo scettro della legalità non passa di mano. Ma non è questo un argomento decisivo: oltre la legalità c’è la questione della legittimità. E la transizione infinita non rende semplice separare nettamente l’una dall’altra, i fatti instaurativi assumono le forme giuridiche più diverse, costituente e costituito sembrano convivere.

IN UNA SIMILE SITUAZIONE di interregno diventa decisiva la capacità delle diverse forze sociali di affermare una specifica egemonia contro il dominio dei poteri sregolati. È nelle faglie dei mutamenti storici che il «pensiero critico» diventa determinante per contrastare il «pensiero dominante». C’è da chiedersi se, in questa situazione, la lotta per la costituzione democratica possa essere lo strumento per la costruzione di una nuova egemonia. Lo è stato storicamente, lo può essere anche oggi?

Se l’obiettivo è creare una nuova prospettiva di progresso non serve a granché il richiamo retorico alla costituzione più bella del mondo, non vale neppure limitarsi a difenderla. È solo la pretesa dell’attuazione dei suoi principi che può valere ad indicare la strada del cambiamento, che può dare slancio ad una nuova strategia politica e sociale, mobilitare le forze per porre in essere quella rivoluzione che ci è stata promessa e che non siamo riusciti ancora a realizzare.

Oggi, la domanda da porsi in ultima istanza è se sia possibile contrapporre ad un potere costituente eversivo ed autoritario la rivendicazione di un potere costituito sinora rimasto inattuato. Proviamo a ribaltare Sieyès: se il popolo dei subalterni oggi è nulla e vuole diventare tutto ha sola una via, non quella del potere costituente regressivo, ma, in questa fase, quella di un uso rivoluzionario del potere costituito.

Da ultimo, è vero che per questo non basta una costituzione, ma è necessario che essa sia sostenuta anche da un «movimento reale», ovvero da un popolo consapevole e cosciente che si oppone all’ideologia e al flusso dominante per inserirsi nelle pieghe del presente. Di questo popolo si sono perse le tracce. Si tratta allora di andare alla sua ricerca con la lanterna della costituzione che può rinvenire il popolo e al tempo stesso indicare la rotta per provare a trovare la strada che conduce a un futuro diverso da quello annunciato. In passato è successo, perché non ancora?

Paletti

Massimo Villone  4 Dicembre 2024

Con apprezzabile rapidità la Corte costituzionale ha depositato la sentenza 192 sulla legge 86/2024 (Calderoli). È una pronuncia complessa e una valutazione approfondita sarà indispensabile. Ma qualche riflessione immediata è possibile.
La sentenza ci consegna un quadro dell’autonomia differenziata (Ad) profondamente diverso da quello assunto dalla legge 86/2024. Una parte assai rilevante anche nella prospettiva degli sviluppi futuri è in specie quella iniziale (considerato in diritto, punti 3 e 4). La Corte risponde al quesito di fondo: qual è la lettura dell’art. 116.3 sull’Ad coerente con l’assetto costituzionale generale. Il punto di partenza è che non esiste alcun “popolo” regionale, e che l’Ad “deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata”. Da questa premessa vengono conseguenze di rilievo. Spetta solo al Parlamento comporre la complessità sociale e il pluralismo istituzionale. La diversità e la competizione tra territori non possono minare la solidarietà, l’unità e l’eguaglianza, e devono dare luogo a un regionalismo non conflittuale, ma cooperativo. Unità e indivisibilità della Repubblica si compongono con la maggiore autonomia attraverso il principio di sussidiarietà, e con lo spostamento di specifiche funzioni – non di materie – verso il basso, ma anche verso l’alto. E “ogni processo di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., dovrà tendere a realizzare un punto di equilibrio tra eguaglianza e differenze”.

Nella lettura dell’art. 116.3 disegnata dalla Corte vanno in specie sottolineati due punti. Il primo è che, trattandosi di una deroga alla ordinaria ripartizione delle funzioni, ”va giustificata e motivata con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico e altro) in cui avviene la devoluzione”. Richiede altresì una idonea approfondita istruttoria. Questo pone la parola fine allo shopping nel supermercato delle competenze assunto dalla legge 86/2024. Non più trasferimento indiscriminato di funzioni a richiesta della Regione sulla base dell’indimostrato e indimostrabile assunto di una maggiore convenienza o efficienza. Un secondo punto si mostra poi decisivo. La Corte avverte che vi sono materie in cui il trasferimento di funzioni non appare facilmente giustificabile. Una devoluzione dovrebbe avere una solida motivazione e sarebbe soggetta a “uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale”, che ovviamente la Corte riserva a se stessa.
Le materie sono elencate: commercio con l’estero e con gli stati membri dell’Ue; tutela dell’ambiente; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, unitamente alla presenza di un’Autorità indipendente; porti e aeroporti civili e grandi reti di trasporto e navigazione; professioni, in specie ordinistiche; ordinamento della comunicazione, in specie per le comunicazioni elettroniche e internet; norme generali sull’istruzione. Su quest’ultimo punto, in specie, la Corte segnala che non sarebbe “giustificabile una differenziazione che riguardi la configurazione generale dei cicli di istruzione e i programmi di base, stante l’intima connessione di questi aspetti con il mantenimento dell’identità nazionale”.

La Corte coglie i punti nodali del dibattito sorto intorno all’Ad, emersi in dottrina, nelle audizioni parlamentari, nel confronto politico. Ne ho ripetutamente trattato, anche su queste pagine, e la proposta di ricorsi in via principale da me avanzata ha prodotto un risultato particolarmente significativo. Si pone ora la domanda dell’impatto sulla procedura referendaria in atto, che vedrà in tempi brevi la decisione sui quesiti dell’Ufficio centrale per il referendum della Corte di cassazione. Va fatta una distinzione. Le dichiarazioni di incostituzionalità si sovrappongono in parte al quesito parziale presentato dalle regioni, che tocca gli articoli 1.2, 4.1 e 4.2 della legge 86/2024. Ma la pronuncia è manipolativa, e sostituisce il testo dettato dalla Corte a quello originario. Quindi la legge sopravvive nel testo modificato. Qui probabilmente la Cassazione dovrà valutare se il quesito si trasferisce sul nuovo testo, o deve considerarsi superato dalla sentenza. Diversamente, per il quesito totalmente abrogativo. La valutazione della Cassazione deve farsi qui e ora, su quel che risulta dalla sentenza, e non su quello che potrà derivare dalla futura attuazione o da eventuali adeguamenti legislativi. Vale che la legge come tale sopravvive, ed è per parte significativa vigente. La volontà “politica” espressa da 1.291.000 elettrici ed elettori di cancellarla nella sua interezza, quindi non perde il suo oggetto. Il quesito referendario totalmente abrogativo rimane. Avanti tutta.

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