L’OCCIDENTE È IN GUERRA, IL DISSENSO ORA SI UNISCA. E INVECE… da IL FATTO e IL MANIFESTO
L’occidente è in guerra, il dissenso ora si unisca
Elena Basile 6 Dicembre 2024
Ho letto il 29 novembre sul Fatto Quotidiano l’articolo “Ue malata di guerra da Angela a Sahra” di Gad Lerner, che in un suo libro recente mi ha regalato una pagina di insulti, arrivando persino a considerarmi “untuosa”. Poiché i conflitti personali sono lontani dal mio interesse e, anche se non esito a chiamare per nome i tanti “public opinionmaker” da Mieli a Panebianco a Mauro, l’intenzione è di confliggere con le loro idee e non certo con loro come persone che poco conosco. Leben in ideen (“vivere nel mondo delle idee”), come affermava il filosofo tedesco Humboldt, fa bene all’anima.
Riprendo quindi l’articolo di Lerner senza alcuna acrimonia, sottolineando come esso riesca a mettere il “dito nella piaga” e stimoli una riflessione che dovrebbe stare a cuore all’intellighentia e a tutti coloro che vorrebbero contrastare la deriva irrazionale, bellicistica dell’Europa. Le élite neoliberali, neoliberiste e filoatlantiche riescono attraverso i moderati e il centro-sinistra a raggiungere la maggior parte dei consensi. Sono forti di una tradizione che dalla rivoluzione francese in poi, detiene il patrimonio dei valori universalistici, la parte bella del nostro Occidente che si è tuttavia affiancata alla sua barbarie. L’insieme di partiti e movimenti che costituiscono l’area del dissenso, sono particolarmente frammentati, annaspano, non riuscendo a condividere una cultura altrettanto forte e nobile. Il contrasto alla guerra in nome di una politica che riporti al centro la persona, votata quindi ai beni comuni materiali e spirituali delle masse, dalla sanità all’istruzione , alla ricerca e innovazione, alla reale libertà di espressione contro il monopolio dell’audience mainstream, al senso di comunità e di partecipazione democratica attraverso i corpi intermedi, è portato avanti da movimenti e partiti in maggioranza volti al passato, ai valori di nazione sovrana, tradizione, autorità, conservatorismo culturale. Viene quindi rispolverata la tradizione di destra, anche come reazione all’estremismo libertario, al suo rifiuto delle distinzioni di genere, all’utilizzo del neutro nelle scuole e all’obbrobrio dei cambiamenti di sesso per i minori.
In molte occasioni mi è capitato di invitare pubblicamente i vari movimenti del dissenso all’unità, evitando i distinguo identitari, in quanto il potere che oggi accomuna l’estrema e la destra moderata nonché il centro-sinistra (di fatto la Democrazia cristiana del Pd, in cui la componente di sinistra mi sembra assai esigua) può trovare un argine solo in un’opposizione unitaria. Mentre scrivo si svolge a Roma una manifestazione dei lavoratori, in grado di riunire Cgil e Uil e sindacati di base, movimenti per il disarmo, la politica dal Pd a Rifondazione, e ne sono felice. È essenziale il contrasto alla guerra in nome della giustizia sociale, di politiche statali che limitino la belva sfrenata del mercato capitalista, degli interessi delle oligarchie della finanza. Questa è la strada.
È necessaria tuttavia una riflessione che ci aiuti a rafforzare il patrimonio culturale e ideologico del dissenso. La modernità, i diritti umani, la libertà individuale, il multilateralismo, l’internazionalismo che sconfigge il gretto orizzonte nazionale, fanno parte dei nostri geni. Non vanno rinnegati per anacronistici ritorni a comunità rurali, alle piccole patrie. Non si può buttare il bambino con l’acqua sporca. Il nostro orizzonte è tragicamente europeo. Il problema è come cambiare questa Unione europea, espressione burocratica delle élite guerrafondaie e riesumare il sogno socialdemocratico, le convergenze tra i popoli in nome di un bene comune, tra creditori e debitori, per i diritti umani senza doppi standard, per una migrazione integrata, per il commercio ed il mercato regolamentati, per aree regionali coese, per l’ uguaglianza di genere e la protezione delle minoranze omosessuali e transgender, non per la retorica aberrante odierna contro l’identità sessuale.
Molti movimenti, nella loro purezza politica, vorrebbero un’Italia fuori dalla Nato e dall’Europa neoliberista, da due organizzazioni che oggi sono complici dello sterminio di una generazione di ucraini e della pulizia etnica dei palestinesi. Capisco la purezza ma siamo costretti alla politica. Enrico Berlinguer dichiarò di voler restare nella Nato non perché temesse l’invasione sovietica, ma per evitare il destino cileno, il colpo di Stato della Cia in Italia. Il sogno di Edgar Morin di un’Europa neutrale, che dialoghi con gli altri poli dell’universo multipolare va perseguito costruendo l’autonomia strategica di una nuova Ue.
E INVECE:
Ue, il commissario alla difesa batte cassa per la Nato
«Se tutti spendessero il 2% del Pil avremmo altri 200 miliardi». Ma Dombrovskis gela l’Italia: «Niente scorporo dal deficit»
Andrea Valdambrini 06/12/2024
La direzione è ormai chiarissima: spendere di più per le armi in Europa. Lo chiedono ai governi europei, con un’operazione a tenaglia, tanto la Nato con il segretario generale Mark Rutte che l’esecutivo Ue, nella persona del neocommissario allo Difesa e allo Spazio, il lituano Andrius Kubilius. Le risorse vanno destinate alla difesa, senza nessuno spazio per sforamenti di conti, deroghe o eccezioni, precisa la Commissione. Sullo scorporo dal deficit delle spese per la difesa puntava invece il governo Meloni, per ottenere margine di investimento per l’industria bellica. L’Italia però destina al capitolo meno dell’1,5%, restando lontana dal 2% preteso dell’Alleanza atlantica, e difficilmente potrebbe fare di più, se vuole rispettare i vincoli del nuovo Patto di stabilità europeo. Ma nei confronti del possibile scorporo, il commissario all’Economia Valdis Dombrovskis ha pronunciato un secco no.
Dobbiamo guardare con attenzione anche alla possibilità di impiegare i fondi non spesi del Pnrr e della politica di CoesioneAndrius Kubilius
LA COMMISSIONE NON HA nessun «piano concreto» per riaprire il dossier della governance economica, «completato solo sei mesi fa», ha chiarito Dombrovskis durante l’audizione davanti alla commissione Affari economici dell’Eurocamera rispondendo a una domanda della Pd Irene Tinagli. Parole che gelano le speranze più volte espresse da Tajani e ribadite ieri da Crosetto. Il traguardo del 2% entro il 2028 è «difficile» da raggiungere, ha detto il ministro della Difesa durante il question time al Senato, «se non si cambiano le regole europee».
Se Roma è in affanno per i conti della difesa ora, figuriamoci che succederà nei prossimi anni. Una previsione di quanto dovranno sborsare i paesi Ue già a partire dai prossimi mesi la fornisce il «ministro» della Difesa. Kubilius è apparso ieri per la prima volta davanti agli eurodeputati della commissione Sicurezza e difesa (Sede). Tra l’altro, Sede, che al momento è di rango minore rispetto alle principali commissioni parlamentari, dovrebbe acquistare un ruolo sempre più importante, acquisendo competenze in materie come esteri, industria ed energia, trasporti e mercato interno. Un segno evidente della crescente centralità della materia bellica, che nel 2025 si potrebbe concretizzare in un nuovo pacchetto legislativo già allo studio da parte di Bruxelles, ovvero lo European defence industry programme (Edip).
LE RISORSE STANZIATE con il Bilancio europeo tuttavia (al momento circa 10 miliardi nell’arco di 7 anni) non sembrano ancora sufficienti per il contrasto alla Russia all’affacciarsi dell’era Trump. «Dobbiamo agire con maggiori risorse per raccogliere i 500 miliardi di euro che ci servono per il prossimo decennio», incalza Kubilius davanti agli eurodeputati. Per questo motivo «ci aspettiamo che la Nato ci chieda presto di aumentare l’obiettivo di spesa militare portandolo al 3% del Pil». Un 1% in più del Pil destinato alla difesa si tradurrebbe in 200 miliardi aggiuntivi l’anno. E a sborsare dovrebbero essere per primi i paesi inadempienti sui contributi all’Alleanza atlantica: non solo l’Italia, ma anche Spagna e Belgio. «Se iniziassero a spendere il 2%, avremmo 60 miliardi aggiuntivi, come ha calcolato Draghi», continua il commissario alla Difesa citando l’ex banchiere centrale autore del report sulla competitività europea.
Spendere in armi, ma per produrre cosa? Per farsi solo un’idea di quello che attende l’Europa, Kubilus delinea la prospettiva di un «big bang» per l’industria bellica. Le esigenze della Nato non sono soltanto onerose, ma anche pressanti. Già l’anno prossimo l’Alleanza atlantica dovrebbe avanzare richieste che Kubilius dettaglia in questo modo: «49 brigate in più, 1500 carri armati e pezzi di artiglieria in più e veicoli corazzati».
Le spese Nato sono un tema che riguarda gli stati nazionali e il fatto che il responsabile Ue sia intervenuto in un campo non di sua diretta competenza indica la convergenza tra le due istituzioni. Poi c’è anche il versante bellico più direttamente Ue. La questione di dove e come reperire le ingenti risorse finanziarie da destinare alle produzioni di armi europee tiene banco ormai da mesi a Bruxelles. Dalle parole di Kubilius torna a fare capolino l’ipotesi di emissioni di debito comune per la difesa («Bene, se lo chiede persino un paese frugale come la Danimarca»). Così come l’ipotesi di utilizzare una parte di fondi europei come benzina per l’Europa armata («I fondi di Coesione devono essere utilizzati anche per l’industria della Difesa così come sono utilizzati in generale per lo sviluppo industriale nelle regioni povere»).
DAL PRIMO GENNAIO la presidenza di turno del Consiglio Ue passerà dall’Ungheria di Viktorn Orbán alla Polonia di Donald Tusk, che mette il sostegno all’Ucraina tra le sue priorità. Un altro segnale che tutto si allinea.
No Comments