L’INVENZIONE DEI “LAZZARONI” E L’APOLOGIA DEL LAVORO SERVILE da IL MANIFESTO
L’invenzione dei «lazzaroni» e l’apologia del lavoro servile
POLITICHE. Cosa c’è dietro la lotta contro il «reddito»
Marco Bascetta 04/11/2023
Cosa c’è davvero in gioco intono al «reddito di cittadinanza» e alla sua penosa storia nel nostro paese? Non una questione di politica economica, di bilancio, di conti. Nemmeno il confronto tra diverse concezioni più o meno ostili all’estensione del Welfare.
Di teoria politica, poi, neanche a parlarne. Ad alimentare la crociata, ormai vittoriosa, contro il reddito di base (i suoi prudentissimi fautori si preoccuparono a suo tempo più delle controindicazioni che dei vantaggi) restano tre fattori: l’ideologia, l’anima corporativa della politica economica della destra e lo storico conflitto tra capitale e lavoro, il quale non riguarda più solo quello salariato nelle fabbriche e negli uffici e neanche, necessariamente, il lavoro riconosciuto e certificato come tale, essendosi trasferito su un ben più vasto terreno.
L’IDEOLOGIA RUOTA, in negativo intorno all’invenzione di innumerevoli lazzaroni e profittatori, nonché al timore di classi popolari inclini alla truffa e al raggiro, da propinare a un’opinione pubblica frustrata e risentita. E, in positivo, intorno alle classiche apologie del lavoro, indipendentemente dalla sua qualità e dalle aspirazioni dei singoli. Affiancate poi dai più suadenti appelli a farsi impresa e sgomitare nell’arena della competitività.
NELLA CULTURA della destra ogni forma di universalismo è da sempre aliena e demoniaca. E così anche il Welfare di impianto socialdemocratico, che un’aspirazione universalistica ad ogni buon conto la incarna. Per la destra il sostegno statale viene preferibilmente indirizzato verso determinate categorie o gruppi sociali, secondo una logica classicamente corporativa. E anche quando ci si rivolge ai poveri o ai lavoratori poveri in generale numerose divisioni e partizioni più o meno esplicite attraversano questa categoria, escludendo per via burocratica situazioni di vera e propria indigenza e includendone altre politicamente appetibili.
QUESTA IMPOSTAZIONE, quella dei bonus, delle regalie una tantum e degli incentivi settoriali, per intenderci, mira a produrre «debiti di riconoscenza» a legare a sé determinati gruppi sociali o categorie professionali per assicurarsene il consenso politico (Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie).
Risulta evidente come il «reddito di cittadinanza», sia pure ben lontano, nella versione nostrana, da qualsiasi dimensione universalistica, per il solo fatto di essere vissuto come un diritto piuttosto che come la magnanima concessione di un potere sovrano, contraddice pienamente la versione assistenzialistica della destra.
Veniamo al terzo fattore, che poi è quello sostanziale e decisivo. I datori di lavoro avversano risolutamente, con l’altrettanto risoluto sostegno dell’attuale governo, qualsiasi misura indebolisca il loro potere di ricatto sul lavoro. In altre parole, qualunque alternativa alle condizioni miserabili imposte dall’offerta è considerata un attentato al sistema delle imprese. Molto esplicitamente fu immediatamente chiarito, a cominciare dai settori a maggior sfruttamento, che il «reddito di cittadinanza» riduceva il bacino di disperati a cui attingere lavoro effimero e indecentemente sottopagato.
L’ATTUALE GUERRA di posizione intorno al salario minimo chiarisce definitivamente che la posta in gioco è la ricattabilità del lavoro e il rifiuto di qualunque strumento legislativo che possa anche minimamente intaccarla. Al culmine dell’improntitudine, il Cnel, ancillare istituto pubblico di ricerca che ha sostenuto gli argomenti governativi contro il salario minimo, offre lavoro gratuito a giovani studiosi e ricercatori. Il lavoro gratuito è, del resto, a fianco di quello precario e sottopagato, il pilastro che sostiene interi settori pubblici e privati, profitti e spending review.
UNA FITTA RETE di attività che il «reddito di cittadinanza» avrebbe dovuto, almeno in parte, sostenere economicamente sottraendole a una condizione molto vicina ai rapporti servili. Ma così sarebbe stato riconosciuto un diritto generale e il potere dei datori, pardon dei padroni, ne avrebbe risentito.
Lessico e genealogia del disprezzo
ITINERARI CRITICI. A proposito del volume «L’odio dei poveri», di Roberto Ciccarelli, da oggi in libreria per Ponte alle Grazie. Definiti «parassiti sociali», «scrocconi» e «furbetti», questa fobia è stata sostenuta anche mediaticamente. Citate due esperienze: a New York nel ’95 contro l’introduzione dell’obbligo di accettare lavori non dignitosi. Nel ’98 in Francia, contro la soppressione dei trasferimenti sociali
Enrica Morlicchio 27/10/2023
L’odio dei poveri di Roberto Ciccarelli, appena pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie (pp. 320, euro 18), prende spunto dall’analisi delle ragioni profonde che hanno riattualizzato i sentimenti negativi verso i poveri, se non apertamente violenti, e sviluppa una vera e propria riflessione filosofica sulla povertà della quale si avvertiva molto la mancanza.
Il libro è organizzato grosso modo in tre blocchi. Nel primo l’autore parte da un «lavoro genealogico» relativo alle parole entrate nel lessico corrente, ne smaschera l’uso «opportunistico e cinico» che si nasconde dietro ai tecnicismi e infine ricostruisce in maniera puntuale i momenti attraverso i quali è stata elaborata l’equazione «povero=criminale».
AD ESEMPIO, l’autore spiega come «Prima si crea la fobia contro i “parassiti sociali”, gli “scrocconi” (scrounger phobia); poi si inventa il caso negativo di un personaggio (le welfare queens negli Stati Uniti; i “furbetti”, i “divanisti”, il “metadone di Stato” e altri nomignoli dell’odio adottati in Italia); in seguito si prepara il campo ideologico delle “riforme che riformano le riforme” e hanno l’obiettivo di perseguire le frodi e gli abusi; allo stesso tempo, crescono le campagne mediatiche pervasive attraverso le quali si impone la gestione dei problemi sociali dal punto di vista giustizialista; infine si legittima la morale dell’imprenditore: ce la fa chi si dà da fare, chi non lo fa è responsabile del proprio fallimento».
Per Ciccarelli questa discesa all’inferno del povero è affiancata da campagne di stampa che hanno agito da «definitori secondari» nella rappresentazione «regressiva e reazionaria» dei poveri e dalla complicità del mondo delle «discipline accademiche in cui fanno carriera gli “esperti”» che considerano i poveri alla stregua di «pacchetti di voti» da spostare da un partito all’altro, consumatori incapaci di compiere scelte razionali o lavoratori con scarse capacità di adattamento: in ogni caso comunque soggetti mancanti di qualcosa. Una critica che ha un suo fondamento se si pensa alle ignobili campagne di stampa che hanno sbattuto in prima pagina titoli del tipo «un esercito di accattoni si avventa sul sussidio».
A metà del libro, e questo è il secondo blocco di cui si accennava, Ciccarelli sposta il suo centro di interesse dal governo dei poveri a quello della formazione e dell’occupazione sviluppando una critica serrata e originale alle politiche di Workfare. Affrontando il tema della riattualizzazione della categoria del «povero abile al lavoro» (in quanto tale «non meritevole» di alcun sostegno pubblico e, anzi, oggetto di condanna morale), l’autore ricorda giustamente come la parola «occupabile» con la quale oggi lo si definisce deriva dall’inglese employability (occupabilità), termine che è stato utilizzato dall’Ocse negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso per indicare il tempo di attesa in vista del conseguimento di una possibile occupazione.
L’OCCUPABILITÀ dunque non era considerata come un attributo del soggetto ma semmai della fluidità del mercato del lavoro al cui interno, nota Ciccarelli, il lavoratore doveva «nel vero senso della parola allenarsi». Nel clima di odio verso i poveri che Ciccarelli ha ricostruito in modo puntuale nella prima parte del libro, la nozione di occupabilità diventa lo strumento per valutare l’adattabilità del povero in età da lavoro a una domanda che non offre occasioni reali di uscita dalla sua condizione spingendolo a scambiare «la propria libertà con una disciplina reputata necessaria per raggiungere un lavoro che non c’è». Ma, e qui è un punto importante, in questo scambio il povero non è del tutto un soggetto passivo. Ciccarelli ricorda due esperienze di resistenza molto simili a quelle analizzate da Cloward e Piven nell’ormai classico Poor People’s Movements nell’ambito delle quali i poveri hanno preso la parola smentendo la previsione di Ruth Lister secondo la quale «proud to be poor» («orgogliosi di essere poveri») non è esattamente lo striscione dietro al quale molti marcerebbero.
LA PRIMA riguarda la protesta dei beneficiari di un sussidio di povertà avvenuta a New York nel 1995 contro l’introduzione dell’obbligo di accettare lavori non dignitosi. «Quello americano – scrive Ciccarelli – è stato un caso importante di auto-organizzazione e di sindacalizzazione realizzato non più su base professionale, né di classe, ma sociale. Ciò ha permesso di acquisire nuovi strumenti: la lotta contro la povertà si è saldata con quella contro la stigmatizzazione, mentre la critica al Workfare spietato è stata congiunta con quella per l’affermazione dei diritti fondamentali della persona». L’altra esperienza citata nel libro è la mobilitazione avvenuta in Francia nel 1998 contro la soppressione dei trasferimenti sociali in alcuni dei dipartimenti più svantaggiati sulla base di criteri di valutazione puramente di ordine morale.
Entrambi questi esempi ci conducono direttamente alla domanda che attraversa la terza parte del volume: come contrastare la «tragica rassegnazione» che pervade i nostri tempi? Per rispondere a questa domanda Ciccarelli lancia il cuore oltre l’ostacolo e passa in rassegna diverse proposte innovative ma dotate di praticabilità, molto vicine all’idea di «utopie reali» di Erik Olin Wright, che un tempo si sarebbero dette riformiste e che oggi vengono considerate radicali: dal reddito di base, del quale l’autore è da tempo sostenitore, alla riduzione dell’orario di lavoro; dalla riduzione della polarizzazione tra famiglie povere di lavoro e famiglie ricche di lavoro (e per questo anche povere e ricche in senso più ampio) alla educazione alla solidarietà e alla cura degli altri contro l’ideologia individualista e del merito neo-liberista; fino a giungere ad una politica dei beni comuni e di coordinamento delle politiche sociali con le politiche macroeconomiche.
NESSUNA di queste proposte presa singolarmente sarebbe sufficiente per risolvere il problema della povertà e contenere l’odio verso i poveri che ne è al contempo causa ed effetto, ma nel loro insieme esse contribuiscono a disegnare un programma politico volto a contrastare i processi di immunizzazione, condanna morale e reificazione di cui i poveri sono oggetto e a rafforzare le condizioni affinché possano esercitare il loro diritto di «voce» ad esempio attraverso la sperimentazione di forme inedite di rappresentanza e autorganizzazione.
E con ciò siamo giunti alla conclusione del libro che è un richiamo all’urgenza dell’azione politica e sociale in luogo del ripiegamento individualista e della lotta di fazioni di poveri contro altre fazioni: «La domanda di giustizia sociale e di riconoscimento della umanità dell’altro è collettiva, il problema è storico. Non c’è un’ora X per iniziare a praticare un progetto di vita, non una vita a progetto». I poveri non possono più attendere.
Reddito di base, una politica di liberazione
FEMMINISMI. Reddito di autodeterminazione e pratiche sociali di cura
Alisa Del Re 04/11/2023
Negli anni Settanta una larga parte del femminismo materialista aveva come parola d’ordine internazionale il «salario per il lavoro domestico» (diventato in seguito «contro il lavoro domestico»). Veniva svelato e messo in primo piano un lavoro gratuito attribuito essenzialmente alle donne e mistificato come lavoro d’amore. Quando questo slogan si materializzava in rivendicazioni precise, come la campagna per gli assegni famigliari o quella per una ridefinizione dei servizi sociali, assumeva i contorni di un attacco rivoluzionario alla spesa pubblica, chiedendone riqualificazioni in funzione del riconoscimento dello sfruttamento del lavoro riproduttivo. Non si parlava ancora di reddito, le richieste si articolavano attorno all’obiettivo operaista del «salario sociale».
In quegli anni in Italia, l’onda montante del femminismo ha dato impulso a forme di lotta atipiche, come l’entrata massiccia delle donne nel lavoro salariato, le battaglie per il divorzio, per la contraccezione sicura, per l’aborto, contemporaneamente a un rifiuto della domesticità del lavoro. Tutto ciò ha comportato un allargamento del processo di esternalizzazione di questo lavoro, sia con l’immissione nelle case di lavoro salariato preso dal mercato, sia con il costante aumento di lavoro – anche se non sufficiente rispetto alle aspettative – nei settori socializzati del lavoro riproduttivo. Il processo di socializzazione di parti di questo lavoro con la costituzione di servizi in quello che abbiamo chiamato Welfare State è stato tradotto in un mercato del lavoro con tutele scarsissime, come se il trasferimento dal privato delle case al pubblico (che nei due casi coinvolge in larga misura una popolazione femminile) comportasse il mantenimento della svalorizzazione di questo lavoro.
Dal punto di vista del rifiuto del lavoro domestico, oggi vediamo un aumento continuo di donne divorziate e separate che segna una rottura della sicurezza del patto riproduttivo. Il 41% delle nascite non avviene in regime matrimoniale e possiamo attribuire solo 1,24 figli a ogni donna cosa che, ovviamente, non garantisce il ricambio generazionale. La famiglia è cambiata perché le donne non hanno più visto in essa un’utilità per sé e con essa la percezione dell’importanza del lavoro riproduttivo gratuito e necessario alla vita.
Contemporaneamente, è iniziato un cammino irreversibile nell’emersione e nella visibilizzazione di lavori poco pagati, gratuiti, precari, con caratteristiche anomale rispetto al lavoro di fabbrica. Verificabili nella lettura delle trasformazioni del capitale che, partendo dal modo di sfruttamento arcaico del lavoro riproduttivo, lo allarga e allargherà a moltissime forme di fare lavoro (e fornire profitto) fino a quelle attuali – più inconsapevoli – degli stili di vita “moderni” quotidiani, molto ben descritti in molte pubblicazioni di Cristina Morini. Tutto ciò assieme all’emergere della consapevolezza, resa più acuta dalla recente pandemia, dell’importanza dei lavori essenziali e della necessità vitale del lavoro riproduttivo. Le analisi sulla complessità del lavoro riproduttivo hanno portato al ridimensionamento dell’obiettivo del salario, mentre si verificava di fatto, sul terreno delle lotte, la sua necessità incomprimibile come hanno provato a dimostrare gli scioperi transnazionali organizzati in questi anni da Non una di Meno.
Ma il lavoro riproduttivo non può essere preso in considerazione come un problema da risolvere solo per le donne. Se venisse caricato, per non so quale magia, sulle spalle degli uomini oppure equamente suddiviso tra i sessi, non cambierebbe nulla della sua funzione necessaria. La riproduzione della vita nella sua interezza e nella sua fragilità è il nucleo centrale della produzione di valore, che non si ha senza lavoro vivo e quindi senza lavoratori vivi, che non si può e non si deve avere con lavoratori interscambiabili, stanchi, irritati, denutriti, ecc.
Anche se pensiamo che la produzione del vivere sia lavoro, esso non può essere salariato proprio perché il salario è misura, mentre il lavoro riproduttivo è incommensurabile in quanto ha a che fare con la vita. È un lavoro necessario che implica relazione, uscita dalla solitudine, riconoscimento: è imprescindibile e irriducibile, anche se invisibilizzato. D’altronde è necessario segnalare che la riproduzione di sé (costituzione di capitale umano) è diventata l’obiettivo del capitale, come ci dimostra l’importanza percentuale del lavoro riproduttivo salariato nei servizi, in particolare in quelli alla persona, rispetto ai lavori produttivi di merci; e infine come il processo di estrazione di plusvalore nell’odierna organizzazione del lavoro si stia spostando dalla fabbrica direttamente nella vita quotidiana delle persone. La sussunzione dei requisiti del lavoro riproduttivo in una specie di femminilizzazione del lavoro fino ad arrivare alla produzione di valore all’interno della vita stessa giustificherebbe di per sé un reddito di base incondizionato, ma non basta: è necessaria un’organizzazione sociale della sopravvivenza, facendo uscire i servizi sociali dalla dipendenza dal lavoro salariato (Workfare) e incentivando servizi di qualità.
La valorizzazione del lavoro riproduttivo vuol dire concretamente costituire un reddito per vivere, un reddito individuale (non famigliare) incondizionato di autodeterminazione, organizzando una vita libera sia dalla gratuità della fatica sia dalla prestazione salariale. Ma perché questo abbia un senso concreto di liberazione è necessario provvedere all’ampliamento delle pratiche sociali di cura tornando al lavoro riproduttivo come centrale fondamento genetico della vita individuale e sociale, senza il quale non ci sarebbe sviluppo o produzione economica.
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