L’IMBROGLIO DELLA TRANSIZIONE da LA FONTE, CONNETTERE.ORG e RIVOLUZIONE
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’IMBROGLIO DELLA TRANSIZIONE da LA FONTE, CONNETTERE.ORG e RIVOLUZIONE

l’imbroglio della transizione

Rossano Pazzagli  02/06/2023

La transizione ecologica non potrà avvenire a modello invariato. Se non si cambia radicalmente il sistema economico domi- nante, essa sarà soltanto un’illusione per molti e un affare per pochi, come già sta avvenendo. Sarebbe stato meglio parlare fin da subito di conversione, anziché di transi- zione. Invece ha prevalso l’idea di una transi- zione alla Cingolani, fatta propria dai governi Draghi e Meloni in una palese continuità di intenti: una visione sostanzialmente industrialista e tecnocratica, ispirata ai princìpi della crescita, della competizione e della finanza, cioè agli stessi fattori che sotto l’egida del capitalismo e del neoliberismo sono stati i principali responsabili della crisi ambientale.

La condizione dell’antropocene è sotto gli occhi di tutti. Siamo assediati dalle disuguaglianze e dai rifiuti, la natura si sta ribellando al dominio umano che si è affermato perlomeno dalla rivoluzione scientifica in poi, reso operante e sempre più esteso dalla rivoluzione industriale, aggravato dalla bomba demografica novecentesca e che adesso si va infrangendo contro il muro del cambiamento climatico e dell’esaurimento delle risorse naturali, alcune delle quali han- no bisogno di tempi geologici per ricostituirsi, mentre noi le abbiamo consumate in te pi storici, quindi molto molto più brevi. Abbiamo privilegiato lo sviluppo di settori produttivi e stili di vita a forte consumo energetico e trasformato quelli che producevano energia (come l’agricoltura) in settori energivori. Adesso si spacciano come novità le cosiddette fonti rinnovabili (il sole, il vento, l’acqua…), trascurando il fatto che nella storia sono sempre state utilizzate, almeno fino al saccheggio capitalistico della natura.

Si predica bene e si razzola male, come di mostra l’assurda vicenda dei rigassificatori, che propongono una fonte fossile come il gas per accompagnare la transizione energetica. Perfino la riutilizzazione delle fonti energetiche rinnovabili sta seguendo la logica del profitto e della speculazione, divenendo così essa stessa uno strumento di ulteriore riduzione delle risorse fondamentali come il suolo, il paesaggio, il cibo, come testimonia lo sterminio dei campi ad opera di imprenditori senza scrupoli che con la connivenza delle istituzioni stanno ferendo a morte tante campagne, già sfinite e provate dalla marginalizzazione dell’agricoltura contadina che per secoli ave- va alimentato le città e tenuto in piedi le colline d’Italia. Da ultimo è arrivato il cosiddetto agri-fotovoltaico, una tecnica che somiglia più a un bluff, alzando solo di qualche metro l’altezza delle distese di pannelli, aumentando l’impatto paesaggistico senza alcuna garanzia per le coltivazioni che dovrebbero crescervi sotto, in suolo senza luce e destinato a perde- re fertilità.

Nella transizione ci può stare di tutto, con il risultato che prevalgono i più forti e i più ricchi. Ci fa sentire tutti responsabili, ma è un inganno, perché non siamo tutti egualmente responsabili; e bisogna comincia- re a distinguere tra il cittadino e la multinazionale, tra la grande finanza e i bisogni quotidiani della gente comune. Non è bastato l’ossimoro (Maurizio Pallante dice l’imbroglio) dello sviluppo sostenibile. Ora ci stiamo impiccando a una transizione ecologi- ca che in realtà è molto economica e poco ecologica, affidata alla tecnologia, senza toccare la filosofia della crescita e dello sviluppo, senza intaccare il modello capitalistico che sta guidando il pianeta verso la catastrofe. Intanto sarebbe bene partire dalle cause della crisi ambientale e ammettere che non siamo tutti colpevoli nella stessa misura, come suggerisce lo storico Marco Armiero nel recente libro L’era degli scarti (Einaudi), e che le soluzioni non posso- no essere solo tecnico-scientifiche, ma filoso- fiche, concernenti cioè la dimensione umanistica della storia, la presa d’atto che non si può continuare sulla via tracciata negli ultimi due secoli. Sarebbe necessario bloccare gli ingranaggi del sistema – resistere e sabotare, dice Armiero – anziché puntellarlo e alimentarlo con il business dell’economia green. Gli “scarti” accumulati dal sistema riguardano i rifiuti, ma anche le persone e i territori. È qui, dalle società e dai territori scartati (dai paesaggi scartati, per riprendere il titolo di un bel libro del territorialista Carmelo Nigrelli edito da Manifestolibri) che si può ripartire per proporre comportamenti e stili di vita alternativi a quelli metropolitani, finanziari e consumistici. La specie umana è al bivio, come ci dice un altro libro recente curato dalla greci- sta Tiziana Drago e dall’urbanista Enzo Scandurra per l’Officina dei saperi (Castelvecchi editore) dal titolo inequivocabile: Cambiamento o catastrofe? Uscire dalla logica distruttiva del capitalismo e dall’antropocentrismo, altrimenti la discarica globale di cui parla Armiero, si trasformerà nell’estinzione, non tanto del pianeta, ma dell’uomo. La questione non è ovviamente locale, ma mondiale. Però le strategie per un orizzonte diverso, più solidale e pulito, possono cominciare dai territori, “a partire da dove ci si trova”, anche da una piccola regione come il Molise. In questo mese di giugno si vota per rinnovare il governo regionale: riuscirà qualcuno dei candidati a tenere alto, in questo territorio scartato, l’obiettivo di sperimentare un nuovo modello sociale, economico e dunque ambientale?

rossano.pazzagli@unimol.it

I conservatori e la transizione ecologica

Federico M. Butera  02/06/2023

Sembra proprio che la destra abbia piena consapevolezza delle cause della crisi ambientale, e quindi sa quali sono le azioni che bisognerebbe intraprendere per combatterla. E infatti non perde occasione di combattere, non la crisi ambientale, ma le azioni per porvi rimedio. Apripista fu Trump che fece di tutto per favorire l’industria dei combustibili fossili, mescolando nazionalismo e negazionismo. Trovandosi in Europa, con cittadini meno ingenui e manovrabili di quelli americani, la destra non osa essere apertamente negazionista, ma fa lo stesso bene il suo mestiere di boicottaggio della transizione ecologica. E non può non farlo, perché i conservatori sanno benissimo che la causa prima del cambiamento climatico e del rischio della sesta estinzione è proprio nel modello culturale ed economico di cui sono portabandiera e che difendono strenuamente. Quel modello che vede l’uomo al di sopra delle leggi che regolano la natura, e una società governata dal principio della crescita senza limiti della ricchezza, del consumismo, della estrazione delle risorse naturali, delle disuguaglianze, il tutto in un contesto di lotta senza quartiere fra lupi affamati.

In questo momento storico c’è un grande pericolo per i lupi vincenti: che siano presi provvedimenti strutturali per affrontare la crisi ambientale, perché si tratta di provvedimenti che inevitabilmente – se efficaci – finiscono per minare alla base il modello economico, sociale e culturale che è l’habitat che permette loro di prosperare.

Ci si mette anche Papa Francesco a preoccuparli, non solo con la Laudato si’, ma ancora in questi giorni con il messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, quando condanna il “consumismo rapace, alimentato da cuori egoisti” e le “politiche economiche che favoriscono per pochi ricchezze scandalose e per molti condizioni di degrado decretano la fine della pace e della giustizia”; e aggiunge che occorre “iniziare una transizione rapida ed equa per porre fine all’era dei combustibili fossili”, e che “è un controsenso consentire la continua esplorazione ed espansione delle infrastrutture per i combustibili fossili”.

I conservatori si sentono accerchiati, e prendono i provvedimenti che ritengono più efficaci per continuare a garantire che tutto resti come prima.

In questo contesto si possono comprendere le posizioni assunte dalla nostra destra negli ultimi mesi in questioni ambientali, il contrattacco in sede europea: l’opposizione al bando delle auto a combustione interna dal 2035; il sostegno ai biocarburanti (che la UE e gli esperti bollano come ambientalmente dannosi); l’opposizione al regolamento europeo che mira a far prevalere il riuso rispetto al riciclo, in linea con i principi dell’economia circolare; l’opposizione alla nuova direttiva sull’efficienza energetica degli edifici, passo essenziale verso la decarbonizzazione al 2050. Tutto questo al fine di boicottare il Green Deal, cioè la transizione ecologica.

Non mancano le azioni e le non-azioni a livello nazionale, contro la transizione energetica. La prima è la non-azione di non eliminare con il necessario vigore le strozzature per lo sviluppo delle rinnovabili; vigore che invece si è trovato per imporre rapidamente i rigassificatori a Piombino e a Ravenna. La seconda azione riguarda il superbonus 110%; invece di migliorarlo, come sarebbe stato opportuno, lo abolisce, bloccando il processo di efficientamento energetico del parco edilizio italiano. In coerenza, in questo, con l’opposizione alla nuova direttiva sugli edifici. La terza azione è l’avvio del piano per fare dell’Italia l’hub europeo per il gas; un piano che implica giganteschi investimenti – da nuove esplorazioni ed estrazioni a impianti di rigassificazione, gasdotti e navi metaniere – che, per avere un ritorno economico, si giustificano solo se il Green Deal fallisce e l’Europa userà ancora gas, e tanto, negli anni che ci separano al 2050, quando il consumo – invece – dovrebbe essere pari a zero. Evidentemente chi ha preso questa decisione ritiene di avere in mano tutte le carte giuste per farlo fallire, questo Green Deal, questa maledetta transizione ecologica che pretende di cambiare le regole del gioco.

Un altro segnale, questa volta implicito, di difesa del sistema che ha devastato e devasta l’ambiente è l’approvazione definitiva del ponte sullo stretto di Messina. Anche in questo caso, come per l’hub europeo del gas, si sta scommettendo sul fallimento del Green Deal. Infatti, uno dei pilastri su cui si fonda la transizione ecologica europea è l’economia circolare, la cui piena realizzazione implica una riduzione delle attività economiche basate sulla produzione di beni usa-e-getta, sia pure riciclabili, e un incremento di quelle destinate alla manutenzione dei prodotti, che dovranno essere sempre più durevoli, riparabili, rigenerabili, e quindi richiederanno di essere sostituiti meno frequentemente. La produzione dei beni di consumo è quindi destinata a diminuire, appunto perché questi beni si consumeranno di meno. Una prospettiva, questa, che favorirebbe automaticamente attività economiche e quindi occupazione al sud, perché la riparazione, lo scambio, il riuso non possono che farsi localmente, mentre la produzione è di solito concentrata in aree industrializzate, per lo più al nord.

Diminuendo la produzione, diminuisce ovviamente anche il flusso di merci che va dal produttore al consumatore. Inoltre queste merci, sottolinea il Green Deal, devono essere trasportate sempre meno su gomma e sempre più su rotaia e via mare. Quindi due forti ragioni per prevedere che da qui al 2050 il trasporto merci su gomma subirà una forte contrazione, anche attraverso lo stretto di Messina.

Pure per il traffico passeggeri su lunga distanza si prevede una forte diminuzione, con meno della metà, rispetto a oggi, del numero delle auto di proprietà, a favore del treno e della nave.

Inutilizzabile il ponte per chi abita a Reggio Calabria o a Messina, perché per imboccarlo da una delle due città si dovrebbero prima fare parecchi chilometri: ci si metterebbe meno col traghetto o con l’Aliscafo, e costerebbe di meno.

Sul ponte, quindi, transiterebbero prevalentemente i treni. Fare il ponte su questa base, per risparmiare 10-15 minuti su un percorso Roma-Palermo che – pure con una ipotetica alta velocità – richiederebbe parecchie ore, certamente non è economico, e nessun soggetto sano di mente penserebbe di finanziarlo.

Quindi non c’è dubbio, la ragione economica per la quale lo si vuol fare si basa sulla convinzione di potere garantire il fallimento del Green Deal, e dunque le merci continueranno a circolare copiose su tir e le vacanze in Sicilia si faranno partendo da Amsterdam o da Milano in macchina, provando l’emozione di attraversare il ponte e poi avere un’eccitante avventura su strade dissestate per raggiungere la meta (la viabilità siciliana è uno sfacelo).

E infine, la ciliegina sulla torta. Che fine ha fatto l’educazione ambientale nelle scuole? Il ministero dell’Istruzione, durante il governo Draghi, aveva dato un forte impulso a questo fondamentale passo verso la transizione ecologica. Erano state istituiti due comitati tecnico-scientifici volti uno alla realizzazione del piano RiGenerazione Scuola e l’altro alla preparazione delle linee guida per l’insegnamento dell’educazione ambientale nelle classi di ogni ordine e grado all’interno del percorso di educazione civica, essendo quelle esistenti alquanto misere e fuorvianti. Alla COP 26 di Glasgow il piano italiano per l’educazione ambientale fu presentato dal ministro Bianchi ed ebbe grande eco nella stampa internazionale, come esempio virtuoso da imitare. Perché si sa, la transizione ecologica è prima di tutto una transizione culturale, e quindi prima di tutto bisogna farla a scuola.

Proprio perché si sa, da quando si è insediato il nuovo governo sul fronte della educazione ambientale tutto tace, e possiamo facilmente prevedere che tutto tacerà.

In fondo la destra fa il suo mestiere, la transizione ecologica deve fallire.

L’inganno della transizione capitalista

Enrico Duranti  28/02/2023

Crescono negli ultimi anni i disastri ecologici che a livello mondiale provocano migliaia di morti, distruzione delle forze produttive e delle infrastrutture, aumento di patologie legate al cambiamento climatico, distruzione della biodiversità, rovina di raccolti agricoli con relative crisi alimentari regionali.

Stando al centro di ricerca EMDAT dell’International Disaster Database, solo nel 2021 i costi causati dagli eventi climatici estremi assommano a 252,1 miliardi di dollari, con 432 disastri naturali nel mondo e oltre 10mila decessi.

Di fronte a questi dati allarmanti, e dopo i ripetuti fallimenti dei vari vertici mondiali per il clima, servirebbe un approccio razionale su scala internazionale. Invece le scelte promosse dai governi sono segnate solo dalla volontà di usare l’etichetta della “transizione energetica” come copertura di politiche protezionistiche volte a tutelare i profitti delle proprie aziende e non il bene generale dell’umanità.

In prima fila ci sono gli Stati Uniti, che hanno approvato in chiave protezionistica l’Inflation Reduction Act (IRA). La manovra prevede lo stanziamento di 370 miliardi di dollari in incentivi per l’acquisto di auto elettriche, oltre a promuovere investimenti in fonti considerate a emissioni zero. Chiave di volta dell’IRA è che gli incentivi sono subordinati al fatto che i prodotti e le tecnologie siano maggioritariamente made in USA, così come le materie prime necessarie. Abbattere le emissioni è importante, abbattere la concorrenza è decisivo…

In Europa è scattato l’allarme perché molte aziende europee troverebbero terreno fertile per delocalizzare negli USA la produzione, a suon di sussidi. È il caso di Enel, che ha deciso di sviluppare negli USA una grandissima fabbrica di voltaico avanzato, oppure di multinazionali come la francese Solvay, la tedesca Basf, la francese Safran, la spagnola Iberdrola, la svedese Northvolt, interessate a trasferire produzione negli USA.

L’Unione Europea cerca di rispondere con il Net-Zero Industry Act, ma non ha la possibilità di mobilitare somme altrettanto ingenti a causa del forte indebitamento pubblico di molti paesi. Si aggiunge poi la scarsità di materie prime energetiche e minerarie a buon prezzo, in particolare le terre rare, utili per le tecnologie green. Di conseguenza all’interno della stessa Europa aumenta lo scontro tra i paesi più forti, Germania e Francia, pronti a impiegare aiuti di Stato, e paesi come l’Italia, che non avendo i margini per allargare la spesa pubblica chiedono che le politiche di sussidi vengano gestite a livello europeo.

Ovviamente è quasi del tutto inutile parlare invece del piano di potenze come Cina e India, o altre potenze emergenti, che hanno già fatto intendere di non voler abbandonare il fossile nel medio termine. La Cina è uno dei più grandi attori nel mercato dell’auto elettrica, ma soprattutto in chiave di esportazione all’estero.

In questo scontro si inserisce la strategia del governo italiano, con lo strombazzato “Piano Mattei”, centrato sulla creazione di un Hub del gas italiano, che cerca di fare concorrenza ai progetti europei. Un piano di devastazione ambientale, come mostrano il nuovo corridoio adriatico del gas e la creazione di stoccaggi sotterranei di CO2, oltre che di nuove politiche coloniali nel Nord Africa per l’estrazione di gas ed eventualmente la futura produzione di idrogeno.

È chiaro che in questa dinamica di scontro internazionale i costi si moltiplicano, l’efficacia si riduce, le tecnologie migliori anziché essere socializzate verranno gelosamente tenute sotto controllo. Peraltro molti degli interventi previsti (dallo stoccaggio della CO2 ai nuovi gasdotti) sono tutt’altro che “puliti”. Gli stessi costi ambientali della transizione energetica (nuove estrazioni, distruzione di massa di vecchi beni di consumo e di produzione, generazione di nuovi cicli inquinanti, ecc.) sono tutt’altro che compresi nei calcoli attuali.

E mentre i governi usano la transizione “green” per farsi la guerra economica, le multinazionali energetiche, oltre a macinare superprofitti per i prezzi dell’energia, cominciano ad invertire i programmi di uscita dal fossile. È il caso della BP che ridurrà il taglio della produzione di idrocarburi entro il 2030 dal 40% al 25%.

La battaglia al cambiamento climatico non potrà essere risolta su basi imperialiste e capitaliste, come invece i potenti della terra ci stanno dicendo. Solo un piano razionale su basi internazionali anticapitaliste e socialiste può realmente bloccare un processo che rischia di portare l’umanità di fronte ad ulteriore povertà, diseguaglianze e barbarie. Un piano, dove la tecnologia sia libera dagli interessi di una minoranza e al servizio dell’intera umanità.

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