LAVORATORI E DONATORI ANONIMI DEI PADRONI da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
16248
post-template-default,single,single-post,postid-16248,single-format-standard,cookies-not-set,stockholm-core-2.4.4,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-9.11,ajax_fade,page_not_loaded,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-7.8,vc_responsive

LAVORATORI E DONATORI ANONIMI DEI PADRONI da IL MANIFESTO e IL FATTO

Lavoratori e donatori anonimi dei padroni

IL CASO ITALIA. L’accumulazione avanza, i profitti si espandono, eppure il «lavoro povero» si ripresenta di continuo, come una macchia incancellabile del capitalismo contemporaneo

Emiliano Brancaccio  16/05/2024

Come su tutte le incresciose tare della moderna società capitalista, anche sul fenomeno dei cosiddetti «lavoratori poveri» la scienza economica offre due interpretazioni antagoniste. La dottrina liberista prevalente considera il caso del lavoro povero come un piccolo bug di sistema, un errore circoscritto e in fin dei conti rimediabile.

La circostanza che i famigerati salari di equilibrio si trovino al di sotto delle soglie minime di sussistenza è ritenuta un’aberrazione del tutto secondaria, che si situa ai margini del processo produttivo e che può essere risolta facilmente, magari con qualche ora in più di straordinario.

La chiave di lettura di Marx è diversa. L’immiserimento operaio, a suo avviso, rappresenta uno dei fondamentali pilastri che reggono il meccanismo capitalistico. Nella visione marxiana, l’accumulazione di ricchezza della classe dominante richiede, per forza di cose, accumulazione di miseria tra le file della classe lavoratrice. In questo senso Marx cita Mandeville: «In una nazione libera in cui non siano consentiti gli schiavi, la ricchezza più sicura consiste in una massa disponibile di poveri laboriosi». Un esercito di indigenti a buon mercato, in altre parole, è condizione necessaria per il funzionamento del sistema.

L’evidenza empirica di questi anni, come sempre più spesso accade, tende a confermare l’eresia marxiana. L’accumulazione avanza, i profitti si espandono, eppure il «lavoro povero» si ripresenta di continuo, come una macchia incancellabile del capitalismo contemporaneo. Qualcuno ha osservato, giustamente, che i lavoratori poveri sono diventati i maggiori filantropi della nostra società: sopportano le privazioni in modo che l’inflazione non cresca troppo e i profitti delle azioni siano sempre più alti. Essere un lavoratore povero significa essere un donatore anonimo, a favore dei padroni.

Nonostante i ripetuti proclami delle istituzioni europee sulla lotta contro il fenomeno del lavoro povero, Eurostat segnala che dal 2008 la percentuale di lavoratori a rischio povertà in Europa è rimasta grosso modo stabile intorno al 6 percento tra i cosiddetti regolari ed è diminuita solo di un risicato punto percentuale, arrivando al 13 percento, fra i temporanei. In Italia le cose sono andate anche peggio: dalle nostre parti la minaccia della povertà resta marcatamente al di sopra delle medie europee e per giunta è aumentata di un punto tra i precari e ancor più tra i regolari, di due punti e mezzo.

Il fatto che in Italia la povertà sia in aumento soprattutto tra i lavoratori regolari mostra che la vecchia tesi dei contratti a tempo indeterminato come fonte di sicurezza economica inizia a risultare desueta. Le riforme del lavoro come il Jobs Act e la crisi del sindacato espongono ormai anche molti “privilegiati” del tempo indeterminato a un tangibile rischio di immiserimento. Quello che i liberisti definivano «apartheid del mercato del lavoro», con i regolari in paradiso e i precari all’inferno, è insomma finito nel peggiore dei modi: adesso tutti possono precipitare verso una infernale penuria.

Ma soprattutto, è interessante notare che ancora una volta l’Italia muove in controtendenza rispetto alle medie europee. Se nel continente la quota di lavoratori poveri resta grosso modo stabile o in lieve diminuzione, da noi sale in misura significativa. È la riprova che nel nostro paese, ancor più che altrove, l’immiserimento del lavoro è diventato il propulsore principale dell’accumulazione. In questo scenario, non deve allora meravigliare l’ultimo dato Istat: la crescita dei working poor non soltanto si registra fra gli addetti alle pulizie o fra i precari del turismo, ma ormai dilaga pure nei gangli principali del sistema industriale, dentro la classe operaia.

Che sul piano dell’evidenza economica esista ormai una nuova «questione operaia» – nell’accezione ampia ma anche nel senso stretto del termine – è dunque avvalorato dai dati. Si tratta di rivendicarla nuovamente, come «questione politica».

Record povertà, salari fermi: Meloni, fine della narrazione

DESTRA ASOCIALE. Il rapporto annuale dell’Istat smentisce la realtà parallela costruita dal governo. Il racconto di un paese in bilico dove aumentano le disuguaglianze dopo 30 anni di politiche complici: 5,7 milioni di persone sono in «povertà assoluta» in Italia: per l’Istat è un record dal 2014 quando in tale condizione erano poco più di 4 milioni

Roberto Ciccarelli  16/05/2024

Record della povertà, salari fermi, crolla il potere di acquisto, cresce il lavoro povero. La realtà parallela che il governo Meloni prova, inutilmente, a costruire da un anno e mezzo ieri è stata smontata dalla pubblicazione del rapporto annuale 2024 dell’Istat. Nel silenzio di quasi tutti gli esponenti dell’esecutivo e della maggioranza, di solito loquaci quando si tratta di equivocare e non capire i dati sull’occupazione, ieri è stato messo nero su bianco che la povertà assoluta ha raggiunto livelli mai visti da dieci anni a questa parte. Cinque milioni e 752 mila persone hanno gravissime difficoltà economiche, sociali, personali e 1,3 milioni di minorenni sono in grave deprivazione materiale e sociale.

DIECI ANNI FA, nel 2014, erano state calcolate poco più di 4 milioni di persone in questa condizione. I dati non colgono ancora in pieno gli effetti della decisione, presa tra maggio e dicembre 2023, dal governo di restringere l’accesso all’«assegno di inclusione» e al «supporto lavoro e formazione» che hanno sostituito il «reddito di cittadinanza». Per questo, l’anno prossimo, i dati saranno peggiori. E sarà tutta farina del sacco di Meloni & Co.

NONOSTANTE IL BUON andamento del «mercato del lavoro» che ha registrato tra il 2022 e il 2023 un aumento dell’1,8% in entrambi gli anni, sono cresciuti contemporaneamente i lavoratori poveri («working poors»), quelli che sono in «povertà relativa», soprattutto nei settori «di punta» di un’economia ormai basata su ristorazione, turismo e servizi poveri. In questa cornice l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è aumentata dal 4,9% nel 2014 al 7,6% del 2023. Non essendo cambiato strutturalmente il mercato del lavoro, e tanto meno il Jobs Act di Renzi e del Pd ( la Cgil si propone di abolire con un referendum), è certo che questa condizione sia cresciuta anche tra chi è stato assunto nell’ultimo anno. In più l’Istat sostiene che è «povero», ad esempio, il 14% degli operai rispetto al 9% registrato nel 2014. Quest’altro numero, tradotto nella realtà, significa che il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. A questo si aggiunge il ricorso al lavoro part-time involontario, le più colpite sono le donne, in particolare quelle più giovani. È un fenomeno macroscopico, soprattutto al Sud. Già nel 2022 era del 57,9 per cento in Italia, il 50,8 in Spagna, il 25,9 in Francia, il 6,1 per cento in Germania.

LA PAROLA DEFINITIVA è stata messa sulle misure caricaturali del governo Meloni contro la super-inflazione. Non occorrerebbe, dato che lo stesso esecutivo se ne è vergognato e non le ha rinnovate. Ma è utile vedere i dati che arrivano fino a dicembre 2023, quando è scaduto il «carrello tricolore anti-inflazione». Il lavoro si è impoverito ulteriormente perché il potere di acquisto dei salari non è stato sostenuto dai dovuti aumenti contrattuali cospicui e tempestivi. I dati sono impressionanti: le retribuzioni contrattuali orarie, nel biennio 2021-2023, sono aumentate del 4,7% mentre l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) del 17,3%. Un abisso. Da ottobre 2023 le retribuzioni sono aumentate, ma solo perché l’inflazione è diminuita. Una tendenza confermata nel primo trimestre del 2024. Ciò ha penalizzato le famiglie più povere, le hanno indotte a intaccare i risparmi e a spendere di più per casa, acqua, elettricità, gas, cibo.

ALTRA QUESTIONE è la produttività del lavoro. In volume, il Prodotto interno lordo (Pil) per ora lavorata in Italia è cresciuto di solo l’1,3 per cento tra 2007 e 2023, contro il 3,6 per cento in Francia, il 10,5 in Germania e il 15,2 per cento in Spagna. «La stagnazione della produttività del lavoro è uno degli elementi che ha caratterizzato il debole andamento del Pil negli ultimi vent’anni e il conseguente allargamento del divario di crescita con le altre principali economie dell’Ue» ha commentato l’Istat. In 15 anni tale divario è aumentato di oltre 10 punti rispetto alla Spagna, 14 alla Francia, 17 alla Germania. Rispetto al 2019 il Pil nominale è cresciuto del 4,2%, più rapidamente delle maggiori economie Ue ma il divario con la crescita di quello reale resta ampia.

NON TUTTO, ovviamente, è farina del sacco del governo Meloni. Ma come gli altri, dal 1991 a oggi, anch’esso è l’espressione organica di una politica di classe che ha imposto la più violenta repressione salariale nei paesi Ocse. Negli ultimi trent’anni i salari reali in Italia sono rimasti fermi con una crescita simbolica dell’1% a fronte del 32,5% registrato in media nell’area Ocse. Considerata il drastico cambio di congiuntura politico-economica, con l’austerità di ritorno e una procedura di infrazione per deficit eccessivo incombente, Meloni & Co. dimostreranno che la loro esistenza dipende dalla conservazione di questo stato di cose. È il marchio di fabbrica del capitalismo straccione italiano. E lo è della politica che, in mancanza di lotte, si conforma ad esso. La storia, in fondo, sta tutta qui.

Rapporto Istat, povertà a “livelli mai toccati da 10 anni” e aumenta tra i lavoratori. L’incidenza più elevata sui minorenni: sono 1,3 milioni

di F. Q. | 15 MAGGIO 2024

Peggiorano gli indicatori di povertà assoluta che hanno raggiunto nel 2023 “livelli mai toccati negli ultimi 10 anni” e, contemporaneamente, crescono i lavoratori poveri con “il reddito, in particolare quello da lavoro dipendente, ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico“. È il quadro presentato dall’Istat nel rapporto annuale 2024. Tra i più poveri ci sono i minorenni1,3 milioni sono in condizioni di povertà assoluta. L’Istituto punta anche i riflettori sul reddito di cittadinanza sottolineando come l’erogazione della misura “ha permesso di uscire dalla povertà a 404 mila famiglie nel 2020, 484 mila nel 2021 e 451 mila nel 2022”. Tutto questo mentre il Pil pro capite nazionale, in termini reali, solo nel 2023 ha recuperato il livello del 2007. Ma rispetto al 2022, il recupero è stato pieno solamente al Nord, mentre il Centro, le Isole e il Sud registrano uno svantaggio, rispettivamente, di 8,77,33,4. Non solo pertanto il Mezzogiorno non migliora ma è il Centro a registrare il più alto peggioramento dei parametri, avvicinandosi ai dati delle regioni del Sud.

Cresce la povertà assoluta – La povertà assoluta ha colpito in Italia il 9,8% degli individui e l’8,5% delle famiglie, per un totale di 2 milioni 235 mila famiglie e di 5 milioni 752 mila individui in povertà. Record in negativo negli ultimi 10 anni. “L’incremento di povertà assoluta ha riguardato principalmente le fasce di popolazione in età lavorativa e i loro figli“, sottolinea l’Istat. Gli indicatori di povertà negli ultimi 10 anni mostrano una “convergenza territoriale tra le ripartizioni, ma verso una situazione di peggioramento”, aggiunge l’Istituto. Nell’arco del decennio considerato, l’incidenza della povertà assoluta a livello familiare è salita dal 6,2 all’8,5 per cento, e quella individuale dal 6,9 al 9,8 per cento. Rispetto al 2014 sono aumentate di 683 mila unità le famiglie in povertà (erano 1 milione e 552 mila) e di circa 1,6 milioni gli individui in povertà (erano 4 milioni e 149 mila). L’incidenza di povertà assoluta familiare è più bassa nel Centro (6,8 per cento) e nel Nord (8,0 per cento sia il Nord-ovest sia il Nord-est), e più alta nel Sud (10,2 per cento) e nelle Isole (10,3 per cento). Lo stesso accade per l’incidenza individuale: 8,0 per cento nel Centro, 8,7 nel Nord-est, 9,2 nel Nord-ovest e 12,1 per cento sia nel Sud sia nelle Isole. Tra il 2014 e il 2023, l’incidenza familiare aumenta molto nel Nord (nel Nord-ovest, dal 4,6 all’8 per cento; nel Nord-est, dal 3,6 all’8 per cento), sale in maniera più moderata nel Centro (dal 5,5 al 6,8 per cento) e nel Sud (dal 9,1 al 10,2 per cento) e rimane pressoché stabile nelle Isole (dal 10,6 al 10,3 per cento). L’incidenza individuale sale nel Nord-ovest dal 5,9 al 9,2 per cento; nel Nord-est da 4,5 a 8,7; nel Centro da 5,7 a 8,0; nel Sud da 8,9 a 12,1 e nelle Isole da 11,8 a 12,1.

L’incidenza più elevata sui minorenni – Nel 2023, 1,3 milioni di minorenni sono in condizioni di povertà assoluta, con un’incidenza del 14 per cento. “Valori più elevati della media nazionale, si rilevano anche per i 18-34enni e i 35-44enni (11,9% e 11,8% rispettivamente). L’incidenza individuale decresce fino al 5,4% dei 65-74enni, il valore più basso, per poi risalire al 7,0% nella fascia di popolazione più anziana, quella degli individui con 75 anni e più“, sottolinea il presidente dell’Istat, Francesco Maria Chelli presentando il Rapporto annuale dell’Istituto. E in Italia diminuiscono sempre più i giovani: oltre tre milioni di giovani in meno in 20 anni. Il Paese registra nel 2023 appena 10,33 milioni di persone tra i 18 e i 34 anni con un calo del 22,9% rispetto al 2022 quando erano 13,39 milioni. Rispetto al picco del 1994, quando rientravano nella fascia i ragazzi del baby boom, il calo è di quasi cinque milioni (-32,3%). Negli ultimi 30 anni c’è stato un incremento speculare delle persone di 65 anni e più cresciute da poco più di 9 milioni nel 1994 a oltre 14 milioni nel 2023 (+54,4%).

Aumentano i lavoratori poveri – Come sottolinea l’Istat il reddito da lavoro ha visto affievolirsi la sua capacità di proteggere individui e famiglie dal disagio economico: tra il 2014 e il 2023 l’incidenza di povertà assoluta individuale tra gli occupati ha avuto un incremento di 2,7 punti percentuali, passando dal 4,9% nel 2014 al 7,6% nel 2023. Per gli operai l’incremento è stato più rapido passando da poco meno del 9% nel 2014 al 14,6% nel 2023. Nel 2023 l’8,2% dei dipendenti era in povertà assoluta a fronte del 5,1% degli indipendenti. L’occupazione, infatti, è aumentata negli ultimi anni ma il potere d’acquisto dei salari lordi dei lavoratori dipendenti è diminuito negli ultimi 10 anni del 4,5%: “Nonostante i miglioramenti osservati sul mercato del lavoro negli ultimi anni, si legge, l’Italia conserva una quota molto elevata di occupati in condizioni di vulnerabilità economica. Tra il 2013 e il 2023 il potere d’acquisto delle retribuzioni lorde in Italia è diminuito del 4,5% mentre nelle altre maggiori economie dell’Ue27 è cresciuto a tassi compresi tra l’1,1% della Francia e il 5,7% della Germania”.

Il ruolo del reddito di cittadinanza – Tutto questo tenendo conto che l’erogazione del Reddito di cittadinanza “ha permesso di uscire dalla povertà a 404 mila famiglie nel 2020, 484 mila nel 2021 e 451 mila nel 2022. Per quanto riguarda gli individui, l’uscita dalla povertà ha riguardato 876 mila persone nel 2020 e oltre un milione nel 2021 e nel 2022″, indica l’Istat nel suo rapporto annuale. Senza il reddito di cittadinanza, spiega l’Istituto, “l’incidenza di povertà assoluta familiare nel 2022 sarebbe stata superiore di 3,8 e 3,9 punti percentuali rispettivamente nel Sud e nelle Isole. Tra le famiglie in affitto, l’incidenza di povertà sarebbe stata 5 punti percentuali superiore. Tra le famiglie con persona di riferimento in cerca di occupazione, l’incidenza avrebbe raggiunto il 36,2% nel 2022, 13,8 punti percentuali in più”. L’erogazione del reddito di cittadinanza ha portato il Poverty gap (cioè l’ammontare di euro necessari per colmare la distanza tra le spese delle famiglie povere e le loro linee di povertà) a una riduzione da 9,1 a 5,2 miliardi nel 2020, da 9,5 a 5,2 miliardi nel 2021, e da 9,8 a 6,2 miliardi nel 2022.

L’impoverimento dei ceti bassi e modio-bassi – Tra il 2014 e il 2023, la spesa equivalente delle famiglie è cresciuta in termini nominali del 14% ma se si depura dalla crescita dei prezzi è diminuita del 5,8%. L’Istat sottolinea che l’impoverimento è stato generalizzato ma, che “il calo è stato più forte per le famiglie dei ceti bassi e medio-bassi, appartenenti al primo e al secondo quinto della distribuzione” con una riduzione rispettivamente del volume degli acquisti dell’8,8% e dell’8,1%. Le famiglie del ceto medio e medio-alto, appartenenti al terzo e quarto quinto, hanno diminuito le loro spese reali in maniera più significativa rispetto alla media nazionale (-6,3% il terzo e -7,3% il quarto) mentre le famiglie più abbienti, appartenenti all’ultimo quinto, hanno contenuto le proprie perdite con un -3,2%. Le distanze in termini reali tra famiglie più e meno abbienti, spiega l’Istat, si sono ampliate in particolare nell’ultimo triennio: con la ripresa inflazionistica, le famiglie con minori capacità di spesa hanno dovuto infatti scontare un aumento dei prezzi più forte rispetto a quelle più benestanti. Ciò è avvenuto in particolare nel corso del 2022, quando l’inflazione è stata molto alta e trainata da energetici e alimentari, beni essenziali che pesano in misura maggiore sulla spesa delle famiglie con maggiori vincoli di bilancio. Rispetto al 2020, le famiglie più povere hanno avuto a fine 2023 un’inflazione specifica del 22,2%, rispetto al 15,1% delle famiglie più benestanti (+17,4% la media complessiva).

Crollato il potere di acquisto dei salari – Nel triennio 2021-2023, sottolinea l’Istat, le retribuzioni contrattuali orarie sono cresciute a un ritmo decisamente inferiore a quello osservato per i prezzi, con una differenza particolarmente marcata nel 2022 (7,6 punti percentuali): tra gennaio 2021 e dicembre 2023 i prezzi al consumo sono complessivamente aumentati del 17,3%, mentre le retribuzioni contrattuali sono cresciute del 4,7%. Dopo un periodo di quasi tre anni, la dinamica tendenziale delle retribuzioni contrattuali è tornata, a ottobre 2023, a superare quella dei prezzi, grazie alla continua decelerazione dell’inflazione. In media di anno, tuttavia, la crescita salariale è risultata ancora inferiore a quella dei prezzi. Le retribuzioni contrattuali orarie nel 2023 sono aumentate del 2,9%, in rafforzamento rispetto al 2022 (1,1%) mentre i prezzi al consumo, seppure in decelerazione, hanno comunque segnato nel 2023 una crescita del 5,9%, che ha determinato un ulteriore arretramento in termini reali delle retribuzioni.

Aumenta il pil ma cresce il divario con la media dell’Ue27 – Il pil pro capite nazionale, in termini reali, solo nel 2023 ha recuperato il livello del 2007. Invece rispetto al 2022, il recupero è stato pieno solamente nelle ripartizioni del Nord, mentre il Centro, le Isole e il Sud registrano uno svantaggio, rispettivamente, di 8,7; 7,3; 3,4 punti percentuali, con un’accentuazione delle disparità. Il differenziale del pil pro capite delle regioni italiane meno sviluppate rispetto alla media dell’Ue27, riflette tassi di occupazione e produttività del lavoro meno elevati. Tra il 2004 e il 2023, il tasso di occupazione 15-64 anni in Italia è cresciuto dal 57,4 per cento al 61,5 per cento, con un aumento di quasi 900.000 occupati nella stessa fascia d’età. Tuttavia, il divario con la media dell’Ue27 è cresciuto da circa 4,4 a 9,8 punti percentuali.

No Comments

Post a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.