L’ANAGRAMMA DI PREMIERATO? “IMPERATORE” da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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L’ANAGRAMMA DI PREMIERATO? “IMPERATORE” da IL FATTO e IL MANIFESTO

Imperatore, anagramma del premierato di Meloni

GIOVANNI VALENTINI  28 MAGGIO 2024

Nella sala-parto del premierato, Giorgia Meloni si comporta come il medico che azzecca la diagnosi e sbaglia la prognosi. Individua la malattia, ma non indica la cura giusta. E così prescrive una terapia inappropriata, anzi pericolosa o addirittura dannosa. A un malato di polmonite, assegna un farmaco anticancro o un ciclo di chemioterapia che può stroncare il paziente. Se il malato è il sistema istituzionale italiano, lei rischia di spedirlo all’altro mondo. Se il malato è la democrazia italiana, lei rischia di decretarne la fine.

Ha senz’altro ragione la premier a dire che il problema principale della nostra vita politica e istituzionale è l’instabilità dei governi: 68 in 76 anni di Repubblica, dal 1943 a oggi, con una media di appena un anno e quattro mesi. E non è certamente la prima a scoprirlo. Quando iniziò negli anni Novanta la stagione referendaria, l’obiettivo di chi proponeva di sostituire il sistema elettorale proporzionale con quello maggioritario era proprio quello di favorire la coesione delle maggioranze parlamentari e la cosiddetta governabilità, vale a dire la stabilità dei rispettivi governi. A questo mirava la legge elettorale denominata Mattarellum, dal nome dell’attuale presidente della Repubblica, che assegnava il 75 per cento dei seggi parlamentari con il sistema maggioritario e il restante 25 per cento attraverso un complesso meccanismo proporzionale. Quella legge innescò il bipolarismo, avviando l’alternanza fra centrodestra e centrosinistra: governo Berlusconi I (1994-95), governo Dini (1995-96), governo Prodi (1996-98), governi D’Alema I e II (1998-99 e 1999-2000), governo Amato II (2000-2001). L’ultima volta che gli italiani votarono con il Mattarellum fu nel 2001. Da allora, nell’arco di vent’anni, siamo andati cinque volte alle urne con tre diverse leggi elettorali: prima con il famigerato Porcellum, congegnato dal leghista Calderoli (2006, 2008, 2013); poi nel 2018 e nel 2022 con l’infausto Rosatellum e l’attuale Rosatellum-bis, dal nome del suo relatore Ettore Rosato (un transfuga renziano ex Pd, passato a Italia Viva e ora in Azione), che assegna il 37% dei seggi parlamentari con il maggioritario uninominale a turno unico e il 61% attraverso un meccanismo proporzionale con liste bloccate e senza preferenze. Una condizione d’instabilità permanente.

Finora il sistema che s’è dimostrato il migliore, in funzione dell’alternanza e della governabilità, è stato il Mattarellum. E la legge elettorale resta tuttora il nodo cruciale da risolvere. Prima di manomettere la Costituzione, alterando i rapporti fra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, sarebbe opportuno riformare una legge elettorale come quella in vigore che fu il risultato di un compromesso al ribasso e fa acqua da tutte le parti. Tant’è vero che nella prima versione del premierato meloniano era previsto un abnorme premio di maggioranza, addirittura del 55%, a favore della coalizione che sosteneva il premier eletto direttamente dal popolo. È per questo che la riforma costituzionale propugnata da Giorgia Meloni, nonostante le correzioni apportate nel frattempo, rappresenta un rimedio peggiore del male. In primo luogo, indebolisce il ruolo del Capo dello Stato, togliendogli due poteri fondamentali: quello di nominare il presidente del Consiglio e quello di sciogliere il Parlamento in caso di crisi della maggioranza. E ancor più, perché attribuisce al capo del governo un potere esorbitante, al limite di un regime autocratico, svuotando la funzione del Parlamento e minacciando di ridimensionare i contrappesi (a cominciare dall’informazione e dalla magistratura). Più che un referendum sarebbe un plebiscito, come quello in vigore nell’antica Roma che nell’età imperiale eliminò la differenza tra popolo e plebe: non a caso l’unico anagramma di premierato è imperatore. In epoca moderna, fu così che Napoleone Bonaparte venne proclamato console a vita.

Sta di fatto che al giorno d’oggi il premierato non esiste in alcun Paese europeo. Neppure in Germania e in Francia, due nazioni che Giorgia Meloni cita spesso a modello di democrazie evolute ed efficienti. E dov’era stato introdotto, come in Israele, è stato successivamente abrogato. In questo modo, si può anche pensare (e far credere) di rendere più stabile il governo, magari fin troppo stabile, ma certamente si destabilizzano gli equilibri istituzionali e si compromette la vita democratica nel segno di un’inversione autoritaria.

Le “riforme” del governo Meloni verso l’autocrazia

 

GOVERNO. Siamo alla «democrazia del Capo», eletto senza contrappesi con una maggioranza al traino, che dispone del potere di sciogliere il parlamento. Tutto è nelle sue mani. Ormai la nostra Costituzione solidaristica è concepita come una torta da fare a fette: a ciascun partner di governo viene data una porzione per sfamare il suo elettorato

Gaetano Azzariti  28/05/2024

Non siamo alla viglia di un colpo di Stato, stiamo “solo” assistendo ad una lenta erosione della nostra democrazia costituzionale. Questo non può essere negato. È ciò che viene orgogliosamente rivendicato dall’attuale maggioranza, che intende farla finita con la nostra troppo lenta democrazia parlamentare – «democrazia interloquente» è stata con sprezzo definita – per giungere ad una contrapposta «democrazia decidente». L’identità al posto della rappresentanza plurale, la decisione in sostituzione della faticosa ricerca del compromesso parlamentare. Credo si debba prendere sul serio questa volontà di cambiare il volto della democrazia.

D’altronde che non sia una vuota promessa è dimostrato dai fatti, che sono eloquenti. Ricordiamone alcuni. Abbiamo assistito ad aggressioni da parte delle forze dell’ordine a pacifici manifestanti, minorenni inclusi, che protestavano senza arrecare alcun pericolo per la sicurezza e incolumità pubblica. In contrasto, dunque, con la libertà di riunirsi pacificamente e senz’armi, secondo quanto pretende l’articolo 17 della costituzione. Abbiamo visto censure mosse nei confronti di intellettuali; denunce promosse da esponenti del Governo per giudizi critici rivolti nei loro confronti; responsabili del Governo contrastare la stampa non per contestare fatti, ma per delegittimare le opinioni o le inchieste svolte. Tutte azioni in conflitto con l’articolo 21, posto a garanzia della libertà di manifestazione del pensiero e del pluralismo. Abbiamo visto utilizzare l’arma della precettazione con una disinvoltura mai prima immaginata, dimentiche del diritto di sciopero di cui all’art. 40 della nostra costituzione.

In materia di migrazioni si è manifestata una distanza abissale rispetto ai valori della costituzione. Sono venute meno le garanzie dei diritti inviolabili che devono essere assicurate a tutte le persone, stranieri compresi. La situazione dei centri di permanenza e rimpatrio è disumana: dovrebbero essere chiusi. L’attuale maggioranza, invece, si preoccupa solo di aumentare inutilmente le pene, individuando nuovi improbabili reati. Contro ogni dovere di solidarietà o solo umana pietà.

L’aggressione ai fondamenti della nostra democrazia costituzionale ora sta assumendo la veste formale di riforme legislative e costituzionali pericolose. L’introduzione del c.d. «premierato elettivo» finirebbe per stravolgere gli equilibri costituzionali; l’autonomia differenziata inasprirebbe le già rilevanti disparità tra i territori; la progettata separazione delle carriere comprometterebbe l’indipendenza della magistratura.

Abbiamo fatto tante volte – inascoltati – l’analisi critica di ognuna delle disposizioni che si vogliono introdurre, dal punto di vista tecnico, politico e costituzionale. Mi limito adesso a rilevare il fatto che la nostra costituzione viene ormai concepita come una torta da fare a fette: a ciascun partner di governo viene data una sua porzione per sfamare il proprio elettorato. Altro che la costituzione di tutti, quel «patto consociativo» che unisce un popolo nella sua diversità. In passato – nel 2006 e nel 2016 – abbiamo visto riforme della costituzione approvate da risicate maggioranze parlamentari. Ci ha poi pensato il popolo della costituzione a rimettere le cose al loro posto. Adesso siamo giunti alla costituzione pretesa dal singolo partito, dobbiamo sperare ancora nella saggezza del popolo della costituzione.

Ora, però, vorrei rivolgere una domanda direttamente ai nostri parlamentari, soprattutto a quelli di maggioranza che si apprestano a decidere sulla riforma del premierato.
Caro parlamentare, vorrei chiederti se vuoi scegliere di assoggettarti ad una servitù volontaria, ad un Capo da cui dipenderà la tua vita e la tua autonomia politica. Un Capo eletto senza contrappesi con una maggioranza al traino, che dispone del potere di scioglimento del parlamento, cui affidare assieme al nostro anche il tuo futuro. Oppure vuoi provare a tornare ad essere un rappresentante della nazione che esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato come prescrive la nostra costituzione.

Nel secondo caso, dammi retta caro parlamentare, lascia perdere il premierato e prova a riscattarti, sii coraggioso. In fondo basterebbe poco. Sarebbe sufficiente, mettere le mani sui regolamenti parlamentari perché tu possa riprendere la parola: riappropriati della discussione, limita la decretazione d’urgenza, riprenditi il potere legislativo che ti è stato indebitamente sottratto, ma che la costituzione ti assegna. In fondo dipende solo da te. Non ci sarà nessun Dio (nessun Capo) a salvare il parlamento, ma solo tu potrai salvarti e con te la democrazia parlamentare.

E poi vorrei rivolgermi ai c.d. «governatori» per chiedere: caro Presidente di regione, ma veramente aspiri ad appropriarti di tutto il potere possibile a scapito dei diritti dei tuoi concittadini, innescando una lotta di tutti contro tutti, tra le diverse regioni e tra i territori della repubblica? Non sarebbe meglio se ti preoccupassi di ben amministrare una società complessa nel rispetto dei principi costituzionali definiti dagli articoli 5, che promuove sì le autonomie, ma per assicurare una più solida unità e indivisibilità della Repubblica; dall’art. 118, che attribuisce sì le più ampie funzioni amministrative, ma affinché queste siano esercitate non in via esclusiva, bensì per assicurare la solidarietà territoriale, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; dall’art. 119, che permette sì l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, ma non prima di aver rimosso gli squilibri economici e sociali che attraversano il paese, promuovendo la coesione e la solidarietà sociale. Perché, caro Presidente, non provi a dimostrare che l’autonomia regionale, può essere declinata in una chiave solidarista, per concorrere al benessere nazionale in concerto con le altre regioni. È questo il modello di regionalismo della nostra costituzione, ancora tutto da attuare.

Per opporsi alla regressione annunciata c’è bisogno di una rivoluzione, quella promessa e mai realizzata. La costituzione come moto del cambiamento.

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