LA STORIA È CONFLITTO. COL SUD SI DIALOGHI da IL FATTO
La storia è conflitto e il “politicamente corretto” è da fessi
CANFORA, UN MANUALE POLITICO – L’illusione ottica. L’Occidente si è convinto di essere il mondo intero, ma non è così. L’Islam, la cultura cinese e africana producono tante altre sensibilità e modi di pensare
LUCIANO CANFORA 1 MAGGIO 2024
Riportiamo una anticipazione del libro “Dizionario politico minimo”, a cura di Antonio Di Siena, edito da Fazi.
Qualche tempo fa, una scuola superiore di Edimburgo ha deciso di non proporre più come lettura agli studenti Il buio oltre la siepe perché, secondo gli insegnanti, il romanzo promuove una narrazione in cui i neri sono salvati da un bianco. L’editore inglese di Roald Dahl ha modificato i testi dei suoi libri eliminando le parti in cui lo scrittore, con il suo stile irriverente, connotava i personaggi negativi con caratteristiche fisiche di bruttezza e di grassezza. Il dipartimento di Studi classici dell’Università di Princeton ha deciso di eliminare l’obbligo di studio del greco e del latino, nonché la sua conoscenza intermedia, e sostituirlo con lo studio della razza e dell’identità degli Usa. Tutto ciò per migliorare l’inclusività e l’equità dei curricula e combattere il razzismo sistemico perché, come ha scritto più di qualcuno, i classici sarebbero complici di varie forme di esclusione, schiavitù, segregazione, supremazia bianca, destino manifesto, genocidio culturale ecc. Una furia iconoclasta che bandisce libri e abbatte monumenti dedicati a personaggi accusati di razzismo. Finirà che ci diranno di abbattere il Colosseo perché simbolo di schiavitù e l’arco di Tito perché antisemita?
Ci si affretti a convocare subito delle ditte specializzate. Aggiungendo all’elenco tutte le statue di Giulio Cesare, colpevole del genocidio gallico (almeno 800.000 morti), e poi quelle dedicate a Gengis Khan, Ivan il Terribile e papa Borgia, per altre ragioni. Radiamo al suolo tutto, così non resta nessuno e abbiamo risolto il problema. Senza ovviamente dimenticare tutta la storia degli Usa, ma non fino alla guerra di secessione, fino a ieri. Perché se il principio è questo allora tutti i manuali di storia americana vanno abrogati e non se ne deve parlare proprio. Finirà che l’unico argomento di storia sarà la biografia di Joe Biden, quindi sarebbe un corso di studi piuttosto facile.
Battute a parte, la verità è che stiamo parlando della stupidità universale, non di altro. Dopodiché tutte queste affermazioni sono anche false. Tutte le fasi della storia, remota e recente, sono conflittuali, non sono a senso unico.
La storia del mondo greco-romano, ad esempio, non è soltanto la storia di chi comandava, ma anche quella di chi si ribellava. Non è solo il pensiero di chi sosteneva la giustezza della schiavitù, ma anche di chi la riteneva assolutamente contro natura. La storia è un conflitto. Se uno non ha il coraggio di affrontarlo seriamente, la via più comoda e fatua consiste nel semplificare, abrogare, eliminare, cancellare, tornare all’età della pietra. Poi c’è questa faccenda di ritoccare i testi. Tempo fa lessi un piccolo romanzo molto divertente in cui il nuovo direttore di una casa editrice si mette in testa di ristampare Tolstoj cambiando il titolo del suo più celebre romanzo. Non più Guerra e Pace ma solo Pace, perché “guerra” è una parola pericolosissima. E poi come ci si pone nei confronti della morte dei personaggi più iconici? Non muore nessuno e vissero tutti felici e contenti. Siamo su un livello in cui, citando Leopardi, non so se il riso o la pietà prevale. Non si può commentare. C’è da constatare, però, che i cosiddetti progressisti ai quattro angoli del pianeta, soprattutto nel mondo americano, si sono convinti che questa sia una forma di progressismo. La verità è che sono degli ignoranti pericolosi.
Più che una forma di galateo lessicale, per l’antropologa Ida Magli il politicamente corretto è una sofisticata tecnica di lavaggio del cervello. Promuove un’autocensura spontanea e insinua distorsioni lessicali della realtà che, alla lunga, impediscono la formazione linguistica dei concetti. Il che equivale a impadronirsi del pensiero. Se così fosse, la direzione intrapresa è quella di un “pensiero unico” in cui le idee diventano limitate e immutabili.
Per fortuna non dovunque. Accadrà in determinati ambienti del mondo euro-americano, che però non è tutto il pianeta. L’illusione ottica occidentale è di essere il mondo intero. Mi dispiace, ma non è così.
L’islam ha caratteristiche tutte sue e molto specifiche, a volte apprezzabili, molto spesso negative. Il mondo cinese ha un’eredità culturale di migliaia di anni. L’Africa fingiamo che non esista, o che sia popolata soltanto di barbari, mentre ha ospitato civiltà antichissime. Tutto questo produce tante altre sensibilità, modi di pensare, volendo anche modi di censurare e modi di prevalere, modi di lottare che l’Occidente si deve rassegnare a ritenere altrettanto legittimi quanto i suoi. Ragion per cui la spinta ossessiva all’autocensura del linguaggio e dei comportamenti è un po’ pestare l’acqua nel mortaio.
Resisterà nel nostro pezzo di mondo, almeno finché non succede qualcosa di abbastanza traumatico da cancellare questa roba, spostando necessariamente il focus su questioni più sostanziali. In un certo senso il conflitto in Europa orientale ha indotto molti a parlare in modo più veridico, gettando la maschera e dicendo le cose come stanno. La dolcezza dell’inganno lessicale comincia a dimostrarsi inutile e quindi lentamente esce di scena, passa nelle pagine interne.
Poi, naturalmente, nel nostro mondo l’autocensura dei mezzi di comunicazione è strutturale, non c’è neanche bisogno di indicare il giorno in cui è incominciata. Ed essendo tale agevola moltissimo questo tipo di devianze che però, ripeto, non costituiscono un problema generalizzato. Resta inerente e circoscritto a un certo mondo, e siccome ci siamo dentro tutti i giorni temiamo possa diventare l’universo intero. Così non è.
Basta colonialismo, col sud si dialoghi
CONTRO LA GEOPOLITICA (MILITARISTA) – A 50 anni dalla dichiarazione Onu sul “Nuovo ordine economico mondiale”, l’Occidente dovrebbe scegliere la cooperazione coi Paesi emergenti: invece, come allora, prova a difendere i suoi privilegi
GIULIANO GARAVINI 1 MAGGIO 2024
I Brics, gruppo creato nel 2011 al quale si sono poi aggiunti Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto ed Etiopia, rappresentano oggi il 27 per cento della ricchezza, il 41 per cento della popolazione e il 42 per cento della produzione petrolifera mondiale.
Fanno parte del variopinto gruppo di nazioni e popoli spesso descritti come Sud globale e uniti dalla ricerca di maggiore autonomia dalle istituzioni economiche occidentali, dalla dolorosa esperienza di colonialismo e imperialismo e dall’appartenenza a civiltà “non bianche”. Oggi Fondo monetario e Banca mondiale raccontano che l’era della “globalizzazione” volge al tramonto. Le élite occidentali parlano senza remore il linguaggio di “frammentazione geoeconomica”, “messa in sicurezza delle catene del valore”, “sanzioni” e “autonomia strategica”.
Non è la prima volta che i Paesi industrializzati occidentali si sono trovati di fronte alla sfida dell’emergere di nuovi attori a loro contrapposti. Mezzo secolo fa, il 1° maggio 1974, la prima Assemblea generale delle Nazioni Unite interamente dedicata a questioni economiche partorì la dichiarazione su un “Nuovo ordine economico internazionale”. Il contesto era quello della crisi di Bretton Woods con la fine del cambio fisso tra dollaro e oro, della radicalizzazione dei Paesi di nuova indipendenza, anche come reazione all’impopolarissima guerra americana in Vietnam, di un “terzomondismo” diffuso anche tra i giovani occidentali. Al primo punto della dichiarazione figurava la questione centrale de “I problemi fondamentali delle materie prime”. I Paesi che allora si identificavano come Terzo mondo invocavano una redistribuzione della ricchezza mondiale verso i produttori di materie prime, nazionalizzazioni e sovranità sulle risorse, una riforma della finanza e del commercio internazionale. Punta di diamante erano i Paesi produttori di petrolio dell’Opec: questi avevano avuto la meglio sulle multinazionali petrolifere, le più ricche aziende capitaliste del pianeta, imponendo nel 1973 un massiccio aumento dei prezzi che scosse come uno choc politici, imprese e consumatori dei Paesi ricchi.
La maggior parte degli intellettuali dell’epoca vedeva nel Nuovo ordine economico un’opportunità per le “nazioni di colore” dopo 500 anni di dominio coloniale. Lo storico britannico Geoffrey Barraclough dava voce a un sentire diffuso nel 1974: “Quello a cui stiamo assistendo non è che il debutto dello scontro per un nuovo ordine mondiale… in cui le armi sono il cibo e l’energia”. Settori del mondo cattolico europeo, delle socialdemocrazie nordiche sotto la guida del trio Palme-Kreisky-Brandt, i comunisti italiani guidati da Enrico Berlinguer, si posero in ascolto. Le élite conservatrici, preoccupate dei rischi che correvano le aziende multinazionali e di rinsaldare la cooperazione tra le due sponde dell’Atlantico, corsero ai ripari. Il segretario di Stato americano Henry Kissinger parlò di “infausta alleanza” tra produttori di petrolio e Terzo mondo. Il cancelliere socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt gli fece eco: “Dobbiamo trovare un modo per rompere l’infausta alleanza tra i Paesi meno sviluppati e l’Opec”.
Gli sforzi per scardinare il progetto economico del Terzo mondo furono articolati. L’Agenzia internazionale dell’energia, creata proprio nel 1974, doveva indebolire l’Opec. Il G7, lanciato nel 1975, doveva rinsaldare la cooperazione non solo monetaria tra Paesi occidentali. Le istituzioni di Washington, il Fondo monetario e la Banca mondiale, smisero di occuparsi di “sviluppo” per concentrarsi sulle regole del gioco: imposero ai Paesi più indebitati “aggiustamenti strutturali” che prevedevano vaste privatizzazioni del settore pubblico. La sovranità nazionale sulle risorse naturali, principio proclamato dall’Onu nel 1962, venne messa in discussione da trattati bilaterali e multilaterali di investimento come l’Energy Charter Treaty (dal quale recentemente la stessa Ue si è ritirata ritenendolo dannoso per le politiche ambientali), attraverso i quali i governi locali vengono esautorati in favore di Corti di arbitrato internazionale.
La “globalizzazione” seguita alla sconfitta del Terzo mondo ha contribuito a far scendere i prezzi delle materie prime e a sommergere i Paesi più poveri sotto una montagna di debiti. Allo stesso tempo ha consolidato la crisi ambientale rilanciando in grande stile il consumo di materiali e risorse energetiche: nel solo 2019 sono state estratte più materie prime di quante la specie umana ne abbia estratte dalla sua comparsa sulla Terra fino al 1950. Il “patto oscuro” della globalizzazione ha però consentito anche l’emergere di nuove potenze economiche, in particolare della Cina, che oggi mettono in discussione il dominio occidentale anche in settori tecnologicamente avanzati come le telecomunicazioni, le rinnovabili e l’auto elettrica.
L’emergere di questi nuovi attori che rivendicano una voce autonoma nella politica internazionale, dalla guerra in Ucraina allo sterminio in atto a Gaza, ha spinto le stesse classi dirigenti che fino a ieri parlavano solo di “pace”, “interdipendenza”, di “mondo piatto” (mentre gli eserciti occidentali bombardavano Serbia, Iraq, Afghanistan e Libia al di fuori di ogni legittimazione internazionale) a rilanciare spudoratamente il ragionamento “geopolitico”: un’impostazione culturale, politica ed economica che ci ha già condotti verso due guerre mondiali. Di fronte all’emergere di un Sud globale che, tra debolezze e contraddizioni, mette in discussione anche l’ultimo bastione del dominio economico americano, cioè la centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale, non è un obbligo reagire con il ragionamento geopolitico. Di fronte alla crisi climatica, “l’infausta alleanza” da sconfiggere è quella tra le istituzioni di Bretton Woods con le loro “condizionalità”, le aziende energetiche e minerarie che hanno come unico fine quello di garantire ritorni ai propri azionisti e i trader e la finanza che accumulano utili (104 miliardi di dollari solo nelle commodity nel 2023) giocando sull’instabilità dei prezzi e sulla corruzione dei potenti locali.
In Senegal il nuovo presidente panafricanista Bassirou Diomaye Fayea chiede di rivedere gli ingiusti contratti petroliferi del passato. Il presidente cileno Gabriel Boric ha rivendicato una partecipazione maggioritaria dello Stato nell’industria strategica del litio. Il governo indonesiano ha vietato le esportazioni di nickel, imponendone la raffinazione locale. Con queste istanze si può interloquire. È possibile un nuovo dialogo tra Nord e Sud su materie prime e risorse naturali fondato su principi mai accettati mezzo secolo fa; è possibile che trader e finanza vengano ridimensionati grazie ad accordi a lungo termine tra produttori e consumatori; che non venga imposto un nuovo “colonialismo verde” a Paesi sommersi dal debito attraverso progetti, dall’idrogeno alle rinnovabili, controllati da aziende occidentali; che vengano riconosciuti standard contrattuali a garanzia di fiscalità adeguata per i governi locali, del rispetto di normative ambientali e della sovranità nazionale sulle risorse naturali senza il ricatto degli arbitrati internazionali.
Il primo passo per muovere in questa direzione passa per il rifiuto totale della logica del “suprematismo bianco” che ha condotto l’Alto rappresentante Ue per la Politica estera Josep Borrell a utilizzare l’orribile metafora del “giardino” (l’Europa) in pericolo e della “giungla” (il resto del mondo) che lo può invadere. Il secondo passo è il rifiuto della logica militarista, geopolitica e colonizzatrice che si cela dietro formule solo apparentemente burocratiche come “garantire la sicurezza delle catene del valore”.
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