LA RICERCA NON È NEUTRA, ISRAELE LO DIMOSTRA da IL MANIFESTO
La ricerca non è neutra, Israele lo dimostra
ATENEI IN LOTTA. Scade domani il contestato bando del ministero dell’università per finanziare ricerche congiunte tra Italia e Israele in settori a potenziale uso militare, mentre si moltiplicano le iniziative per chiedere alle […]
Andrea Capocci 09/04/2024
Scade domani il contestato bando del ministero dell’università per finanziare ricerche congiunte tra Italia e Israele in settori a potenziale uso militare, mentre si moltiplicano le iniziative per chiedere alle università italiane lo stop alla collaborazione.
L’appello firmato da docenti e ricercatori universitari per fermare la cooperazione ha raggiunto le 2.500 adesioni, oltre al sostegno del Senato accademico dell’università di Torino e della scuola Normale di Pisa.
Ma secondo gli estensori dell’appello il cosiddetto «ritiro» dell’esercito israeliano dal sud di Gazah non è un motivo per fermare la mobilitazione. Anzi, i fatti di questi giorni ne hanno persino rafforzato le ragioni mostrando quanto le università israeliane siano in prima linea nel conflitto di Gaza. Nei giorni scorsi la ministra della ricerca e dell’università Anna Maria Bernini aveva provato a smorzare le polemiche con parole apparentemente benintenzionate: «Le collaborazioni delle università, anche con regimi dittatoriali, quali Cina, Iran, Corea del Nord etc. sono canali di dialogo», aveva detto. «La ricerca scientifica non ha nulla a che vedere con le prese di posizione tra due parti di un conflitto». È una visione edulcorata della comunità scientifica, che non vive – per fortuna – al riparo dai conflitti che agitano la società che la circonda. Con il pieno sostegno di tutti i governi occidentali, le sanzioni contro le università russe furono adottate da enti di ricerca nazionale e internazionali come il Cnr, il Cern o l’agenzia spaziale europea. L’associazione europea delle università, a cui partecipano anche quelle italiane, ha sospeso tutti i quattordici atenei russi che ne facevano parte.
In più le università israeliane, almeno nelle posizioni ufficiali dei loro vertici, sono schieratissime con il governo Nethanyahu. Tra i professori, i ricercatori e gli studenti il dibattito è vivo ma ogni dissenso comporta un prezzo elevato. La professoressa israelo-palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian è stata sospesa dall’insegnamento all’università ebraica di Gerusalemme per aver criticato le operazioni militari a Gaza, generando proteste sia nella comunità internazionale che nelle associazioni israeliane per i diritti civili. Anche l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito nel sistema Lavender, rivelato da un’inchiesta delle testate +972 e Local Call pubblicata dal manifesto, coinvolge in prima persona le università. Come dimostra l’inchiesta, Lavender fu presentato all’università di Tel Aviv nella «settimana dell’intelligenza artificiale», una manifestazione organizzata dall’ateneo nel 2023. A illustrarla fu proprio il misterioso «colonnello Yoav», comandante del centro segreto di Scienza dei dati e AI dell’Unità 8200 dell’esercito israeliano. Difficile considerare un ponte per il dialogo un’università come quella di Ariel, sorta in una colonia illegale in Cisgiordania e a cui l’accesso è negato ai palestinesi. La stessa Unione Europea la esclude dai finanziamenti per le ricerche congiunte senza che nessuno accusi Bruxelles di antisemitismo.
Se, come sostiene la ministra Bernini, l’etimologia di «universitas» discende da un’ispirazione cosmopolita che risale al medioevo e va difesa, è altrettanto vero che l’attività di ricerca scientifica non è affatto neutra e risponde sempre a interessi sociali ed economici: anche – forse soprattutto – quando questi non sono espliciti. Ciò non fa di ogni scienziato e scienziata uno strumento del potere politico e militare. Ma impone loro di valutare le ricadute dei propri studi e i valori che essi trasmettono, affinché non entrino in contraddizione con il principio di universalità su cui si fondano la loro libertà e autonomia.
Carlo Rovelli: «Aperti al mondo, ma senza collaborare al massacro»
LA SCIENZA E GAZA. Intervista al fisico: «La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale»
Andrea Capocci 09/04/2024
Il fisico Carlo Rovelli ha preso posizione a favore degli studenti e dei ricercatori che hanno chiesto alle università e al Cnr di sospendere le collaborazioni con Israele nelle ricerche a uso duale, con ricadute sia in campo civile che militare.
Il dibattito sul valore sociale della ricerca scientifica è antico quanto la ricerca stessa. Scienza e potere si sono spesso aiutati a vicenda, almeno da quando Archimede costruiva armi per difendere Siracusa dai Romani e da allora il dibattito non si è esaurito, come mostrano le polemiche intorno alle scelte dell’università di Torino e Pisa nei confronti delle collaborazioni con il governo israeliano. Rovelli è attualmente nel New Mexico, e da lì risponde al manifesto.
Professore, è possibile una scienza separata dal potere, che non imponga quesiti etici agli scienziati?
Spero proprio di no. Penso che qualunque attività porti a domande etiche e politiche. La scienza non è diversa dal resto.
Però la ministra Bernini ha descritto la ricerca scientifica come un dialogo tra diversi, persino tra democrazie e dittature, che non contempla sanzioni internazionali. Lei lo conosce bene: è davvero un mondo così separato dall’attualità da non poter prendere posizione?
La ministra è favorevole a condividere la ricerca militare Italiana con l’Iran? Il mondo scientifico che frequento non riconosce confini: fra i miei collaboratori e amici ci sono cinesi, russi, iraniani e israeliani. Ma questo non impedisce scelte politiche e etiche. Fra chi è favorevole a un boicottaggio ci sono anche israeliani. Essere aperti al mondo non implica si debba collaborare a ogni massacro.
Oltre i nostri confini, c’è una discussione tra accademici sull’opportunità di collaborare con il governo israeliano nella condizione odierna, o è una peculiarità italiana?
C’è la stessa discussione in molti paesi. Penso che ogni amico di Israele, e chi, come me, ama profondamente il mondo ebraico, debba fare il possibile per fermare il massacro in corso che, ahimé, sta facendo rivoltare di indignazione e rabbia contro Israele il mondo intero.
Anche all’estero questo comporta accuse di antisemitismo?
Mi permetta di dire una cosa che credo importante, e vorrei fosse più riconosciuta. La clava dell’accusa di antisemitismo viene brandita a ogni piè sospinto dal governo israeliano contro chiunque lo critichi. Questo è profondamente controproducente per il mondo ebraico, perché trasforma una questione politica e etica in una questione di presunta razza e religione. Leggere il mondo e i suoi inevitabili conflitti, le sue inevitabili gravi divergenze di idee, come conflitti fra razze e religioni: questo è esattamente il razzismo. È esattamente di questo che si alimenta l’antisemitismo. Catalogare le persone per razza, invece che per quello che fanno. La tattica di accusare di antisemitismo chi critica il governo di Israele sta alimentando il razzismo, perché trasforma una questione politica in una questione razziale. Fra i miliardi di persone che oggi chiedono al governo israeliano di fermarsi, c’è una parte molto importante del mondo ebraico.
Fanno discutere le collaborazioni tra scienziati e militari per le ricadute geopolitiche internazionali. Ma quella tra università e enti di ricerca con l’industria militare italiana viene raramente messa in discussione. È una contraddizione?
Esiste una vivace protesta di molti studenti contro la collaborazione, purtroppo crescente, tra università, enti di ricerca e l’industria militare italiana. Ma sono due questioni diverse. Il peso dell’industria militare nello spingere l’attuale forsennata corsa agli armamenti nel mondo intero è un problema serio: per aumentare i suoi profitti, l’industria militare ci sta spingendo verso il baratro di un conflitto globale. Ma il massacro in corso a Gaza è una questione di urgenza immediata, che chiede impegno rapido.
Un’inchiesta giornalistica israeliana e ripubblicata dal manifesto ha svelato l’uso dell’intelligenza artificiale da parte dell’esercito israeliano nel conflitto. La colpisce?
No, sarebbe strano non la utilizzasse. L’intelligenza artificiale è usata anche nelle lavatrici.
Ma nel dibattito sul significato di ricerca «dual use» questa rivelazione apre un nuovo problema etico?
La questione urgente, secondo me, non è cavillare su sottili disquisizioni etiche. Sono stati massacrati israeliani e 30mila palestinesi, e il massacro di palestinesi sta continuando. Ogni piccola pressione politica è utile. Alle Nazioni Unite il Belgio, che non è proprio estremista, ha votato una mozione che accusa il governo israeliano di possibili crimini contro l’umanità. Disquisire su dettagli sul “dual use” significa allontanare la discussione dall’urgenza grave.
Il manifesto ha lanciato una grande manifestazione per il 25 aprile a Milano, affinché non sia solo una commemorazione ma anche una mobilitazione contro la destra sovranista ed estremista che sta conquistando spazio in Europa. C’è un legame tra la lotta contro le destre e la mobilitazione per la pace?
Vorrei che ci fosse. Purtroppo non c’è. La maggioranza della sinistra dei paesi occidentali, compreso il nostro, è più bellicosa della destra. Penso che questa bellicosità sia più pericolosa per il pianeta che non questioni di appartenenze politiche.
Però negli Usa la base del partito democratico chiede a Biden, in cambio del voto, un diverso indirizzo sul Medio Oriente e la destra italiana (o europea) fa dell’allineamento internazionale occidentale un pilastro della sua legittimazione. Davvero non conterà l’esito delle elezioni europee o di quelle statunitensi?
C’è la stessa viva discussione fra chi fomenta la guerra e chi chiede pace tanto all’interno della destra che all’interno della sinistra. Non raccontiamoci la frottola che oggi la destra sia bellicosa e la sinistra pacifista. Non è vero. Piuttosto impegniamoci perché diventi vero. Spingere la sinistra a farsi portatrice del valore della pace: che non significa prima sterminare i nemici e vincere tutte le guerre.
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