“LA POLITICA CI HA RESO APATICI. NON CI SI INDIGNA PIÙ” da IL FATTO
Gennaro Carillo: “La politica ci ha resi apatici. Ormai non ci si indigna più”
ORDINARIO DI STORIA DEL PENSIERO POLITICO – “Parlare di ‘onore’ è desueto, nonostante la Costituzione. C’è il rischio della resa, della rassegnazione cinica. Una democrazia è tanto più in salute quanto più intenso è il controllo dei governati sui governanti”
ANTONELLO CAPORALE 15 GENNAIO 2024
Non ci si indigna più. Nulla sconcerta, nulla stupisce. Professore, cos’è l’indignazione?
L’indignazione è una passione. Per Hobbes è il dolore che si prova davanti a chi goda di una fortuna immeritata. È il contrario dell’indifferenza: presuppone un’attenzione e una capacità di giudizio che non sono più moneta corrente. E implica che la dignità sia un valore. Tuttavia, perché non resti una passione triste ma diventi una passione politica, l’indignazione deve tradursi in azione collettiva.
L’astenia sociale è una causa del degrado pubblico oppure ne è l’effetto?
Credo sia un circolo vizioso. Parlerei di apatia. Il massimo teorico della democrazia moderna, Tocqueville, vedeva nell’uomo democratico un individuo senza grandi passioni, a-patico, disinteressato alla sfera pubblica. E notava che in democrazia, dove l’opinione pubblica non riesce a colpire, il sentimento dell’onore s’indebolisce. Di conseguenza, anche l’indignazione. Nonostante la Costituzione la menzioni espressamente, la parola “onore” è ormai desueta, la si sente solo quando si parla di mafia. Ma è evidente che l’atomismo sociale e la disaffezione crescono anche per il senso d’impotenza davanti a una classe politica impegnata a eternarsi o per l’effetto-loop generato dai talk, dove tutti i santi martedì le stesse maschere ripetono la stessa parte.
La società non è più turbata dai comportamenti di chi dovrebbe governarla. Ha il sapore della resa. È così?
Certo che c’è il rischio della resa, della rassegnazione cinica. Una democrazia è tanto più in salute quanto più intenso è il controllo dei governati sui governanti, obbligati a rendere ragione del proprio operato. Per ottenere questo risultato occorre una società civile vigile. La scarsità del capitale sociale è un’emergenza di cui si parla poco o alla quale ci si è assuefatti. Quando il capitale sociale è scarso, il Principe gioca sul velluto. Come pure quando l’opinione pubblica ha memoria corta.
Si avvia una riforma elettorale che vorrebbe premiare ancora più decisamente la sovranità popolare. E allo stesso tempo non si tiene cono che – per esempio – candidarsi alle europee senza avere la minima intenzione di andare a Strasburgo è un modo per tradirne la fiducia.
Ci si candida per lucrare sul capitale simbolico accumulato in Patria, magari dopo anni spesi a delegittimare le istituzioni comunitarie. È un modo per sabotare legalmente il meccanismo della rappresentanza. Ed è anche un modo provinciale di intendere le elezioni europee: non guardando all’Europa, peraltro in una fase della sua storia che richiederebbe ben altre assunzioni di responsabilità, ma al proprio italico ombelico, alla ridefinizione dei rapporti di forza sul fronte interno.
Alle ultime regionali in Lazio e Lombardia ha votato poco più del 40 per cento degli aventi diritto. Cos’altro deve accadere per ritenerla un’emergenza democratica?
Se la retorica di questi anni è contrassegnata dal primato della governabilità sulla rappresentanza, pensiamo davvero che la partecipazione interessi a qualcuno?
I cosiddetti governatori decidono di cambiare le regole e candidarsi per il terzo mandato, come se dieci anni di gestione del potere non fossero sufficienti e non fossero stati per questo ritenuti inderogabili. Sono i nuovi satrapi. Eppure silenzio assoluto.
Già nel chiamarli “governatori” c’è il sentore della hybris, oltre che l’ossequio reso al Principe. Sposterei l’accento sull’inconsistenza di partiti sotto ricatto, sulla fragilità della loro democrazia interna, sulla pochezza del personale politico. Qui alligna il potere personale del capo: nell’assenza di un contrappeso che freni le sue ambizioni e nel deserto delle alternative. Di qui il passo per il “dopo di me il diluvio” è breve.
Il Codice Nordio: “Pronto chi parla?”. Non si può sapere
SEMBRA UNO SCHERZO, MA È TUTTO VERO – Cortocircuito. “Domani ti porto la cocaina”. A meno che lo spacciatore non sia esplicito, non sarà possibile trascrivere con chi dialoga
PIERCAMILLO DAVIGO 15 GENNAIO 2024
L’ultima trovata in tema di intercettazioni è l’approvazione in Senato di un emendamento che prevede il divieto di trascrivere (sembra di capire nei cosiddetti brogliacci redatti dalla polizia giudiziaria) il nome “degli interlocutori” e persino degli elementi “che consentono di identificare i soggetti diversi dalle parti”.
Così non si potrà sapere chi parla.
Potrebbe sembrare uno scherzo, ma non lo è. Anzitutto i legislatori sembrano dare per scontato che la polizia giudiziaria sappia chi sono tutte le parti del procedimento, in modo da poter agevolmente individuare chi è parte del procedimento e chi no.
Non è così: le intercettazioni vengono normalmente disposte ed eseguite nella fase delle indagini preliminari, in quanto si tratta di atti a sorpresa che possono essere utilmente compiute solo se l’intercettato non sa di esserlo, come accadrebbe se fossero disposte in udienza preliminare o in dibattimento. Ma la fase delle indagini preliminari è una fase fluida in cui le parti possono variare di giorno in giorno: per esempio si possono individuare ulteriori indagati o ulteriori vittime.
In secondo luogo, benché il pubblico ministero possa procedere direttamente all’intercettazione, normalmente ne delega il compimento alla polizia giudiziaria. Gli operatori delegati ricevono dal pubblico ministero il decreto che dispone le intercettazioni (previa autorizzazione del giudice o convalida se disposte d’urgenza) e non è detto che abbiano informazioni diverse e ulteriori rispetto a quelle contenute in tale decreto. Dovrebbero quindi, al momento della registrazione di ogni conversazione, interpellare il pubblico ministero per sapere se uno dei soggetti che conversano sia una parte o meno.
Peraltro, chi non è una parte in quel momento, potrebbe diventare tale nei giorni successivi, il che significa che la polizia giudiziaria sarà costretta a trascrivere, in modo informale, ai propri fini interni tutte le conversazioni, per poi integrare i brogliacci quando taluno dei conversanti venisse ad assumere la qualità di persona sottoposta ad indagini o di persona offesa dal reato, dopo aver sottoposto informalmente al pubblico ministero le trascrizioni provvisorie per decidere se inviarle formalmente o no.
Faccio un esempio: in ipotesi di sequestro di persona a scopo di estorsione di solito si dispone l’intercettazione dei familiari del sequestrato (che è certamente una vittima) per cercare di individuare i sequestratori che richiedono il riscatto. I familiari del rapito, salvo che paghino loro il riscatto, non sono vittime e quindi parti, ma potrebbero comunque essere considerate danneggiati dal reato perché privati comunque dell’affetto di un familiare. In ogni caso l’interlocutore che risponde al telefono potrebbe essere un amico di famiglia che sta prestando il suo aiuto ai familiari del rapito. Certamente costui non è una parte, ma sarà necessario sentire questo amico nel procedimento oppure no? Nel primo caso dovrà pur essere identificato. Dovrà essere l’operatore di polizia giudiziaria addetto alla trascrizione a fare tali valutazioni? Evidentemente costui interpellerà i suoi superiori, i quali dovranno a loro volta consultare il pubblico ministero. Solo all’esito di queste consultazioni si potranno stendere i brogliacci.
Inoltre, come si è detto, chi non è parte oggi potrebbe diventare tale il giorno dopo e quindi sarebbe necessario integrare le comunicazioni già fatte al pubblico ministero e talora ciò può dipendere da una diversa interpretazione di conversazioni alla luce di ulteriori registrazioni.
Ciò accade frequentemente in materia di traffico di sostanze stupefacenti dove l’interlocutore (salvo che un non sia un deficiente) non dirà: “Domani ti porto la cocaina”, ma userà linguaggi criptici, che potranno essere decifrati solo alla luce di una visione complessiva di tutte le conversazioni. Ma, se queste non sono state trascritte come rintracciare (fra le centinaia di colloqui) lo stesso soggetto, se non sono possono essere indicati neppure gli elementi “che consentono di identificare i soggetti diversi dalle parti” (quindi, ad esempio, il numero di telefono).
Una delle caratteristiche dei nostri legislatori è che immaginano che esista un unico procedimento con risorse umane e materiali, nonché tempi infiniti a disposizione. Invece esistono milioni di procedimenti con risorse limitatissime.
In Italia l’organico dei magistrati è, rispetto alla popolazione, la metà della media europea e tale organico ha una scopertura che oscilla fra il 15 ed il 20%.
Scrivere norme che impongono una specie di gioco, fatto di ascolto, trascrivo, non trascrivo, riascolto e trascrivo, fa ritenere che i legislatori pensano che si possano buttare tempo e risorse senza alcuna seria necessità.
Peraltro, le registrazioni, anche se non trascritte, dovranno comunque essere consegnate al pubblico ministero, il quale, in assenza di trascrizioni comprensibili, dovrà riascoltare le registrazioni stesse.
Anche i difensori, ancora, quando dall’esame delle conversazioni trascritte dovessero individuare conversazioni che ritengono rilevanti per le esigenze difensive potranno chiedere al giudice la trascrizione o il rilascio di copia delle relative registrazioni.
A tacere delle enormi perdite di risorse che l’emendamento comporta sarà necessario sempre più tempo, con buona pace della necessità di ridurre la durata dei procedimenti.
I procedimenti penali non sono un gioco di società (come sembrano pensare legislatori che, evidentemente, non hanno la minima idea delle cose di cui si occupano) ma vicende molto serie in cui è necessario concentrare energie, tempo e risorse per ricostruire i fatti, anche per evitare di sbagliare.
Il conte duca (che non è solo un personaggio dei film di Fantozzi) Gaspar de Guzmán y Pimentel Ribera y Velasco de Tovar, conte di Olivarese duca di Sanlúca, nel ‘600, per spiegare al re di Spagna la crisi del Regno, concluse: “Faltan cabezas”. Mancano le teste.
Ho la sensazione che anche in Italia manchino le teste.
Luca Bertrami Gadola: “Al posto delle mazzette ora ci sono le assunzioni: è come Tangentopoli”
DIRETTORE DI “ARCIPELAGO MILANO” – “Bandi ad hoc codice degli appalti inutile siamo al liberismo corruttivo”
GIANNI BARBACETTO 15 GENNAIO 2024
Luca Bertrami Gadola oggi è direttore di Arcipelago Milano, il giornale online più vivace nella discussione sulla città, dopo essere stato per 46 anni costruttore edile.
È tornato a scrivere di corruzione. Perché?
Per lo scoppio dello scandalo Verdini. È l’ultimo episodio del malaffare in materia di appalti che conferma quello che vado dicendo e scrivendo da quasi quarant’anni.
Oggi è tornata un’emergenza corruzione come ai tempi di Tangentopoli?
È un’emergenza che non è mai cessata ma che ha visto gli operatori muoversi con strategie diverse, quasi sempre più raffinate: non circolano più mazzette ma “altre utilità”, ossia favori, scatti di carriera, assunzioni. O commercio di influenze. L’abolizione del delitto di abuso d’ufficio e la riformulazione del traffico di influenze illecite sono ovviamente il cavallo di battaglia del governo Meloni: il liberismo corruttivo.
Sono servite le norme varate in questi anni, dalla Legge Merloni al Codice dei contratti pubblici?
No, non sono servite a nulla, solo a far capire agli operatori disonesti quali fossero gli anelli deboli della filiera definita dal Codice degli appalti pubblici: sono previste commissioni di valutazione che non devono giustificare pubblicamente le loro scelte, in definitiva scelgono il vincitore. Chi cerchereste di corrompere?
Nel suo ultimo intervento su “Arcipelago Milano” accenna a una “chiavetta” e a un bando “sartoriale”.
È la prima volta che io vedo comparire in un caso di corruzione una chiavetta Usb: un “pizzino tecnologico” che non lascia tracce e che può essere bloccato con password. Può contenere un bando di gara con tutti i suoi allegati. Averlo in anticipo dà un enorme vantaggio, perché le stazioni appaltanti danno pochissimo tempo tra la pubblicazione e il termine di consegna delle offerte. Quella del “bando sartoriale” è una bella locuzione inventata dall’Autorità nazionale anticorruzione: si riferisce a gare che prevedano condizioni possedute da una sola impresa, come il tipo di lavori fatti o il possesso di tecnologie particolari, sapendo che ve n’è una sola o quantomeno poche che possiedano i requisiti richiesti. Gli appalti del 2022 sono stati banditi da 3.300 stazioni appaltanti. Controllarle tutte è assolutamente impossibile.
Servono le gare al “massimo ribasso”?
Sono quelle che richiedono alle imprese soltanto uno sconto sul prezzo indicato nel bando: sono state accusate di spingere le imprese a offrire sconti spropositati, con conseguente uso furibondo di subappalti in danno sia dei lavoratori sia delle norme di sicurezza e della qualità dei lavori. Ma gli altri sistemi previsti dal Codice dei contratti non hanno affatto contrastato questo fenomeno. Con il sistema oggi più in vigore – quello “dell’offerta economicamente più vantaggiosa”, sistema complesso che dovrebbe proprio ovviare ai ribassi eccessivi – l’impresa Mantovani con lo sconto del 41,8% si è aggiudicata i lavori di Expo 2015. Lo stesso che se fosse stato applicato il banale tanto deprecato “massimo ribasso”. Che dire?
È grande la torta in ballo? Di quanti soldi parliamo?
L’Autorità anticorruzione nel 2022 parlava di 290 miliardi di euro di cui in opere edili 108 miliardi. La cifra esatta è comunque difficile da definire perché oltre ai fondi del Pnrr vi sono quelli spesi autonomamente da tante altre stazioni appaltanti per servizi e finalità diverse.
E ora che cosa succederà con la valanga di appalti del Pnrr?
Difficile dirlo, se non che la storia della corruzione non cambierà. Non dimentichiamoci che al momento di presentare i progetti da candidare ai fondi Pnrr molte amministrazioni, colpevolmente colte alla sprovvista, si sono limitate a tirare fuori dal cassetto vecchi progetti mai realizzati non essendo in grado di formularne di più adatti a questi fondi.
E le olimpiadi Milano-Cortina del 2026? A che cosa servono le regole se poi i commissari straordinari decidono in deroga (come fu per Expo 2015)?
La risposta sta già nelle domanda, ci sarà un ricorso massiccio ai commissari e a loro saranno assegnati tutti i poteri di deroga fino al limite dello scandalo, dimenticando che esiste una Procura europea che ha competenze specifiche sugli appalti legati ai fondi Pnrr, per controllarne la regolarità.
Ci sono ricette tecniche possibili per il sistema degli appalti?
Sì, molte e siamo in molti a conoscerle. Ma certo non saremo interpellati perché né le imprese, né i partiti politici, né la burocrazia hanno un qualche interesse a che le cose cambino.
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