LA NAKBA 2.0 E L’OBLIO DEI PALESTINESI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA NAKBA 2.0 E L’OBLIO DEI PALESTINESI da IL MANIFESTO

Gaza secondo Israele: tutta la popolazione chiusa ad al-Mawasi

Piano di riserva Il progetto rivelato dal Financial Times: governo militare, niente Onu, aiuti distribuiti sulla base della tabella calorica minima. La riserva palestinese, senza amministrazione autonoma locale, partirà dalla tendopoli lungo la costa. È lì che i militari stanno già ordinando ai gazawi di dirigersi. Save the Children: in una settimana, dalla rottura della tregua, 270 bambini uccisi dai raid israeliani

Eliana Riva  26/03/2025

«Combattimento, vittoria e amministrazione». Il piano israeliano per l’occupazione della Striscia di Gaza non lascia spazio alla presenza internazionale: niente Onu, niente organizzazioni umanitarie, niente Hamas e niente Autorità nazionale palestinese.

L’esercito solamente, che occupa, amministra, riceve aiuti e li distribuisce secondo le proprie regole e i propri calcoli di fabbisogno alimentare. Gli altri possono dare soldi, se vogliono, per consentire la sopravvivenza di una popolazione palestinese che non avrà possibilità di lavorare, costruire, di spostarsi. Più di due milioni di persone chiuse e schiacciate in una riserva lungo la costa mediterranea, tra l’esercito e il mare.

A TEL AVIV tutto il resto, una gigantesca zona cuscinetto da colonizzare, nell’attesa che quel che resta dei palestinesi di Gaza decida di adeguarsi al piano di «evacuazione volontaria» infiocchettato da Israele o di morire in cattività. Per costruire la «Riviera del Medio Oriente» forse sarà necessario un po’ di tempo in più rispetto ai piani del presidente Donald Trump ma è questa la condotta storica con cui Israele modifica i fatti sul campo: esercito e amministrazione.

Un’inchiesta del Financial Times ha rivelato i passaggi essenziali del progetto di cui da diverso tempo affioravano indiscrezioni. I piani, elaborati dall’esercito sotto le direttive del nuovo capo di stato maggiore Eyal Zamir, non sono ancora stati approvati dal gabinetto di sicurezza. Il quotidiano israeliano Haaretz aveva già parlato della volontà di Zamir di istituire nell’enclave un governo militare, approfittando dell’appoggio di Washington.

Per attuare il suo proposito, Tel Aviv dovrà eliminare dalla Striscia qualsiasi presenza umanitaria internazionale mentre i suoi soldati, a colpi di carri armati, bombardamenti e ordini di evacuazione, spingeranno tutta la popolazione verso la costa. Probabilmente la riserva palestinese, in cui non sarà possibile organizzare un’amministrazione autonoma locale, partirà dalla zona in cui oggi si trova la cosiddetta «area umanitaria» di Al-Mawasi, una gigantesca tendopoli per gli sfollati lungo la costa, al confine con l’Egitto.

È lì che i militari stanno ordinando ai gazawi di dirigersi. Solo Tel Aviv controllerà gli aiuti umanitari, da cui la popolazione sarà totalmente dipendente, e ne consentirà l’accesso in base al numero di calorie che riterrà più opportuno, come in effetti già accadeva prima del 7 ottobre. Ora, però, l’esercito non governerebbe solo l’ingresso degli aiuti ma anche la loro distribuzione. Al massimo, dicono le fonti, sarebbe disposto a valutare il supporto di appaltatori privati.

L’unico modo per appropriarsi totalmente di una gestione che attualmente è garantita da Nazioni unite e ong, sarebbe obbligare tutto il personale umanitario internazionale ad abbandonare la Striscia, sospendendone i permessi d’ingresso e interrompendo qualsiasi forma di collaborazione. Dichiarando, quindi, di non essere più responsabile per la loro sicurezza.

Non che in questa guerra se ne sia preoccupato più di tanto, se si pensa alle uccisioni degli operatori umanitari, ma per la maggior parte si trattava di palestinesi e dopo gli attacchi al complesso Onu di Deir al-Balah, l’Onu ha effettivamente cominciato ad andar via. Il 30% del personale straniero, che è solo una parte minima dei 13mila dipendenti nell’enclave, sarà presto evacuato. Tel Aviv ha ammesso, inoltre, la responsabilità dell’attacco agli uffici della Croce rossa internazionale a Rafah, dichiarando che si è trattato di un «errore».

INTANTO, quindici membri della protezione civile e nove paramedici della Mezzaluna rossa risultano ancora scomparsi. Erano stati inviati a Rafah per una missione di soccorso, dopo aver ricevuto diverse telefonate di aiuto da feriti, rimasti intrappolate dall’assedio dell’esercito. L’Ufficio media di Gaza ha dichiarato che il personale della protezione civile è stato «rapito» dai militari e ne ha chiesto la liberazione immediata. La Mezzaluna palestinese ha perso ogni contatto con il team dell’ambulanza dopo che il mezzo è stato bloccato e attaccato dall’esercito, più di tre giorni fa.

L’organizzazione ha denunciato che le autorità di Tel Aviv respingono qualsiasi tentativo di coordinamento da parte delle organizzazioni internazionali per far giungere squadre di soccorso nell’area assediata di Rafah, dove continuano bombardamenti e attacchi di terra. 23 persone sono state uccise durante la notte tra lunedì e martedì, di cui sette bambini ammazzati nel sonno. 37 vittime ieri, dall’alba al tramonto, da nord a sud.

Save the Children ha dichiarato che durante l’ultima settimana, da quando Israele ha ricominciato gli attacchi, 270 bambini sono stati uccisi, segnando alcuni dei «giorni più mortali» per i minori dall’inizio della guerra. Ma l’ong specifica anche che il conteggio è ottimistico: non include i bambini polverizzati dalle bombe o i cui resti risultano non identificabili.

MENTRE Reporter senza Frontiere denuncia gli attacchi che domenica hanno ucciso due giornalisti, definendo Hossam Shabbat «uno dei reporter più noti di Gaza», Tel Aviv ne rivendica con fierezza l’assassinio, pubblicando un foglio che dovrebbe servire a dimostrare la sua appartenenza ad Hamas, nel 2019.

Hossam aveva già respinto le accuse quando era ancora in vita, ricordando che dopo l’esecuzione di un altro giornalista, Ismail Al Ghoul, Israele presentò un documento simile che avrebbe dovuto dimostrarne l’addestramento militare ma datato 2007, quando cioè il reporter aveva solo dieci anni. Video diffusi ieri sui social e ripresi dai giornali israeliani mostrano decine di palestinesi di Beit Lahiya, nel nord, che protestano contro la guerra e chiedono che Hamas abbandoni la Striscia di Gaza.

La Nakba 2.0 e l’oblio dei palestinesi

Cicli storici Secondo un articolo del Financial Times che cita funzionari israeliani, le autorità di Tel Aviv hanno definito un piano per rioccupare completamente Gaza e per concretizzare «la partenza volontaria verso […]

Lorenzo Kamel  26/03/2025

Secondo un articolo del Financial Times che cita funzionari israeliani, le autorità di Tel Aviv hanno definito un piano per rioccupare completamente Gaza e per concretizzare «la partenza volontaria verso paesi terzi». Ciò contraddice quanto dichiarato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu in data 10 gennaio 2014 («Israele non ha alcuna intenzione di occupare permanentemente Gaza o di sfollare la sua popolazione civile»), ma è in sintonia con alcuni obiettivi più volte emersi in Israele negli ultimi decenni.

Ed è in sintonia con i primi passi politici intrapresi dalla seconda amministrazione Trump.
Più nello specifico, lo scorso 25 gennaio, su un volo dell’Air Force One da Las Vegas a Miami, il presidente statunitense ha reso pubblico un piano per «ripulire» Gaza. «Stiamo parlando di un milione e mezzo di persone, e noi ripuliamo tutto», ha chiarito Trump ai giornalisti, aggiungendo che la mossa potrebbe essere «temporanea» oppure «a lungo termine».

Al re giordano Abdallah e al presidente egiziano al-Sisi – due autocrati che dipendono dai finanziamenti di Washington per la propria sopravvivenza – è stato chiesto, con scarso successo, di farsi carico di larga parte della popolazione palestinese, sebbene ciò rappresenti una chiara violazione del diritto internazionale, che proibisce i «trasferimenti forzati, in massa o individuali, come pure le deportazioni di persone protette, fuori del territorio occupato».

Va chiarito che l’obiettivo di completare l’espulsione dei palestinesi facendo affidamento sui «paesi arabi» era già stata proposta dall’ex segretario di stato Antony Blinken alla fine del 2023, quando si rivolse ad al-Sisi, promettendo ulteriori finanziamenti in cambio dell’«assorbimento» dei palestinesi. Essa è in ultima analisi radicata nell’idea che i palestinesi siano semplicemente «arabi» e che dunque possano essere facilmente ricollocati in altri «paesi arabi»: una tesi smentita dalla storia e da un ampio numero di fonti primarie.

Senza scomodare fonti vecchie di un millennio e restando alle più recenti, negli anni Settanta dell’Ottocento i termini «Palestinians» e «Palästinenser» furono utilizzati, in esplicito riferimento agli arabi di Palestina, anche da numerosi osservatori occidentali, compreso il console britannico a Gerusalemme James Finn (1806-72) e il missionario protestante tedesco Ludwig Schneller (1858-1953). Questi pochi esempi, tra molti altri, sono lì a ricordarci che, sebbene tutte le identità rappresentino il prodotto di «costruzioni», esistono contesti in cui le fonti disponibili confermano peculiari retroterra troppo spesso omessi o misconosciuti. Chiamare tutti, da Gibilterra allo Stretto di Hormuz, «arabi» equivale a riferirsi a nordamericani, sudafricani, australiani, neozelandesi, irlandesi e britannici – quale che sia la loro origine – con il termine di «inglesi», o «angli».

Un ampio numero di intellettuali palestinesi ha più volte sottolineato l’esigenza di non normalizzare i diffusi tentativi volti a cancellare la loro identità e storia, indipendentemente dal fatto che un palestinese abbia o meno una cittadinanza israeliana. Ciò appare ancora più necessario alla luce dell’enorme prezzo che i palestinesi hanno pagato affinché le aspirazioni della controparte israeliana potessero realizzarsi.

Nel corso della guerra del 1947-8 furono depopolati 418 villaggi palestinesi. Molti vennero rasi al suolo, altri furono rinominati e ripopolati. Ad esempio, il villaggio palestinese di Bayt Dajan (Dagan era un’antica divinità babilonese/cananea, menzionata tre volte nella Bibbia come divinità principale dei filistei) divenne la città israeliana di Beit Dagan, il kibbutz Sasa venne costruito sulle ceneri del villaggio palestinese di Sa’sa’, Amka’ sulla terra dell’insediamento palestinese di Amqa, Elanit (albero in ebraico) sulla terra di al-Shajara (albero in arabo).

Fatto salvo un numero contenuto di municipalità create per concentrare la popolazione beduina presente nel Negev, nessun nuovo centro urbano o villaggio palestinese è stato fondato dal 1948 ad oggi all’interno dei confini dello Stato d’Israele. Per contro, all’interno di quegli stessi confini sono stati inaugurati oltre 600 nuovi centri a maggioranza ebraica.

Poco meno della metà dei villaggi palestinesi (182 su 418) depopolati al tempo sono oggi inclusi all’interno di siti turistici e ricreativi, come foreste, parchi, e riserve naturali. La popolazione palestinese rimasta dopo il 1948 nei confini dello Stato d’Israele include anche circa 25mila rifugiati interni, ovvero palestinesi che furono sradicati dai loro villaggi nel 1948 e che trovarono rifugio all’interno dei confini d’Israele.

Chiamarli palestinesi – e non semplicemente «arabi» – è il minimo che si possa fare per riconoscere la loro storia e le cicatrici che la sottendono. Molti tra quanti chiamano i palestinesi semplicemente «arabi» misconoscono la loro storia e cultura. Sovente ciò avviene a causa di una scarsa conoscenza, ma, non di rado, anche per via di forme più o meno marcate di razzismo e anti-palestininismo. Antisemitismo e anti-palestininismo rappresentano due facce della stessa medaglia: entrambi sono radicati in una profonda ignoranza e in un viscerale odio verso «l’altro».

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