LA MALATTIA CRONICA DELLA RAI HA UN SOLO NOME: PARTITOCRAZIA da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LA MALATTIA CRONICA DELLA RAI HA UN SOLO NOME: PARTITOCRAZIA da IL FATTO

La malattia cronica della Rai ha un solo nome: partitocrazia

Giovanni Valentini   11 NOVEMBRE 2023 

“Nessuno mi ha cacciato, ma nessuno mi ha trattenuto” da un’intervista di Corrado Augias ad Aldo Cazzullo – Corriere della Sera

Non sappiamo se la Rai diventerà una nuova Alitalia. C’è da dubitare che il direttore generale Giampaolo Rossi, plenipotenziario di Giorgia Meloni, sia – lui solo – “l’uomo che demolisce la Rai” (Domani). Ma appare sempre più evidente che la malattia cronica di questo carrozzone si chiama partitocrazia, intesa come esondazione del potere dei partiti; interferenza nella gestione del servizio pubblico; ingerenza nella scelta degli uomini e delle donne. E invece, l’azienda va preservata dagli appetiti della politica, perché è l’architrave del nostro sistema mediatico e dovrebbe essere il pilastro del pluralismo: magari attraverso una riforma della governance che ne attribuisca il controllo alla società civile, in modo da garantire autonomia e indipendenza.

Quella a cui stiamo assistendo, sotto il governo di centrodestra, non è solo l’occupazione “manu militari” della Rai che paventavamo. Stiamo assistendo alla sua smobilitazione, alimentata da uno spirito di rivalsa di stampo reazionario; alla messa in liquidazione di un patrimonio culturale, senza avere la capacità di sostituirlo con un altro; a quella che qualcuno ha definito con un gioco di parole una “sostituzione etica”. Un vacuum, insomma, un vuoto che la pretesa egemonica della narrazione sovranista non riesce a riempire di nuove idee, nuovi contenuti e nuovi protagonisti.

Dai tempi del vituperato monopolio Rai, guidato dal mitico dg Ettore Bernabei, siamo passati prima alla lottizzazione delle reti e dei tg e poi alla spartizione delle spoglie fra centrosinistra e centrodestra berlusconiano, all’insegna del conflitto d’interessi. Fino alla pseudo-riforma imposta dall’ex premier Matteo Renzi, con l’assoggettamento diretto del vertice Rai all’esecutivo. Ma il fatto è che oggi la destra, dopo aver conquistato la maggioranza parlamentare e il governo in forza di una legge elettorale che l’ha oggettivamente favorita, non è capace di conservare la maggioranza dei telespettatori. E del resto, già prima non aveva ottenuto nelle urne quella degli elettori, tra votanti e astenuti.

Sta proprio qui la crisi di TeleMeloni, nel deficit di cultura politica di una destra che accusa un ritardo di elaborazione e di crescita democratica rispetto al percorso avviato a suo tempo da Gianfranco Fini e Pinuccio Tatarella. Una mancanza di stile, di rispetto del galateo istituzionale, di fair play parlamentare. Non è un caso che la crisi della Rai coincida con il concepimento di un’avventurosa riforma costituzionale, quella del cosiddetto premierato, volta ad assicurare i “pieni poteri” al o alla premier; mentre la stessa maggioranza impone in Commissione di Vigilanza la convocazione di un giornalista “scomodo” come Sigfrido Ranucci, conduttore di Report. Sono atti di forza che rivelano una debolezza di fondo.

Questa è la Rai che lascia uscire anche un veterano del peso di Corrado Augias; un’azienda intenta a “piazzare” una pattuglia di conduttori improvvisati o riciclati più che a definire una propria identità. E così subisce una serie di flop negli ascolti: da Avanti popolo di Nunzia De Girolamo (sotto il 2%) a Liberi tutti di Bianca Guaccero (già chiuso); da Macondo di Camila Raznovich a Il mercante in fiera di Pino Insegno che mette in allarme perfino la redazione del Tg2, a rischio di perdere il “traino” dell’audience.

E intanto, il governo finge di ridurre il canone di 20 euro all’anno, per scaricare lo “sconto” sulla fiscalità generale e soddisfare così le brame propagandistiche ed elettorali della Lega.

Sorelle, cognati, consorti, figli: è l’ora dell’Orgoglio Familista

EVOLUZIONILA RUSSA, ARIANNA&C. – L’ultimo caso è l’incarico di Geronimo La Russa, primogenito del presidente del Senato, nel consiglio d’amministrazione del Piccolo Teatro di Milano

TOMMASO RODANO  11 NOVEMBRE 2023

L’evoluzione sociologica e in un certo senso genealogica del “familismo amorale” l’ha declinata Romano Prodi l’altra sera in televisione, ospite di Piazzapulita su La7: “Un tempo c’era il nepotismo, ora c’è il sorellismo, il cognatismo e il figlismo. È un progresso rispetto alla Prima Repubblica”. Sull’altare della famiglia si sacrifica ogni merito, e la politica – che della società è uno specchio e nemmeno il migliore – non si è mai distinta in senso contrario. Come sostiene Prodi, forse siamo di fronte a un’evoluzione: il nepotismo pane e salame di prima è esploso, è diventato familismo al cubo, che nessuno sente più il bisogno di giustificare, ma semmai rivendicare con una punta d’orgoglio.

L’ultimo caso è l’incarico di Geronimo La Russa, primogenito del presidente del Senato, nel consiglio d’amministrazione del Piccolo Teatro di Milano, una delle massime istituzioni culturali cittadine. La nomina è del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. A destra hanno tutti applaudito l’ultima conquista del giovane avvocato Geronimo, già “pluri poltronato”. A sinistra qualcuno ha alzato il sopracciglio, ma il sindaco Beppe Sala si è limitato a un’impercettibile perplessità: “Ho qualche remora sul suo percorso culturale” (i più attenti ricorderanno che tra i primi approcci del figlio di La Russa con la cultura ci fu il “raid” a casa Vecchioni durante una festa di adolescenti: lui e gli amici camerati razziarono di tutto, come ricorda sconsolato il cantautore, “mi rubarono anche le mutande”).

Fratelli d’Italia, come noto, è terra di conquista per diversi gradi di parentela; figli, sorelle, cognati; ogni cena di Natale può diventare un colloquio di lavoro. Arianna Meloni, amata sister della premier, è la seconda donna più potente del partito e il marito Francesco Lollobrigida era stato nominato (ministro “della sovranità alimentare”) ben prima di lei. Il memorabile Andrea Giambruno, se non avesse combinato i disastri pubblici che l’hanno reso un reietto privato, sarebbe ancora first gentleman e pure conduttore di un programma politico su Rete 4.

Al governo si stanno adeguando tutti, rapidamente, agli standard del primo partito. La Federcalcio ha appena assunto, uno dietro l’altro, i figli di due ministri: Filippo Tajani, secondogenito di Antonio, titolare della Farnesina, e Marta Giorgetti, erede di Giancarlo, custode dell’Economia. Spettacolare il commento assolutorio di Andrea Abodi, a sua volta ministro dello Sport: “Chi ha un cognome non deve avere privilegi ma non vorrei arrivare al punto che avendo un cognome si debba avere addirittura un danno”. Non pare che si corra questo pericolo.

Quante saghe dinastiche nella politica italiana: i Letta (zio e nipote), i Mattarella, i Cardinale, i Verdini (che si mescolano con i Salvini). Cortocircuiti che non sono esclusiva dei partiti della “famiglia tradizionale”: vanno forte anche a sinistra. La deputata Michela Di Biase del Pd è arcistufa di essere chiamata “Lady Franceschini” (ma forse sarebbe stata ancora più stufa se avesse dovuto rinunciare al peso politico del marito Dario, quando volavano i coltelli per le candidature). Nunzia De Girolamo invece non si stanca del marito Francesco Boccia: se l’è portato anche in tv per alzare gli ascolti del suo programma, Avanti popolo. Non ha funzionato. Vincenzo De Luca è in trance agonistica, si fa ospitare in ogni salotto per distruggere il suo Pd: partito delle correnti, delle filiere di potere, delle candidature telecomandate. Ma il figlio Roberto faceva l’assessore a Salerno, dove il papà è stato sindaco per una vita; l’altro, Piero, è alla seconda legislatura alla Camera nello stesso partito che il padre disprezza.

Sinistra Italiana è piccina, ha pochi eletti e due volti mediatici: Nicola Fratoianni ed Elisabetta Piccolotti, marito e moglie. Ce ne sarebbe stato forse un terzo: Aboubakar Soumahoro, ma la bruciante carriera dell’ex bracciante è stata distrutta dalle rivelazioni sugli affari della moglie e della suocera (arrestate). Per difendere il diritto della compagna a esibire i suoi vestiti griffati, lui che entrò in Parlamento con gli stivali di gomma rivendicò il “diritto alla moda”. A Matteo Renzi e Maria Elena Boschi le attività dei genitori hanno portato poca fortuna: la famiglia, come la mano di Mario Brega, po esse fero e po esse piuma.

LEGGI – Parenti d’Italia: la catena di famiglia di Meloni e FdI

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