LA GRANDE TELA DI RAGNO da IL FATTO e IL MANIFESTO
Autonomia, Gianfranco Viesti: “Lavorano sottotraccia, le intese sulla secessione son già pronte”
VIRGINIA DELLA SALA 8 SETTEMBRE 2023
La secessione delle Regioni ricche è più vicina di quanto si possa pensare: c’è un lavorio nascosto tra il ministro per gli Affari regionali, Roberto Calderoli, e gli esponenti del governo. Se ne parla poco e d’altronde, spiega Gianfranco Viesti, professore di Economia all’Università di Bari (oggi esce il suo nuovo libro Contro la secessione dei ricchi, Laterza) “è lo stile della Lega: sapere come e quando parlarne pubblicamente e quando invece far passare il dibattito sotto traccia”.
Professore, cosa succede nelle retrovie?
Calderoli sa che bisogna arrivare il più rapidamente possibile al voto parlamentare che cambierà il Paese: potrebbe accadere nel giro di pochi mesi. Il disegno di legge è in commissione Affari costituzionali al Senato, si stanno votando gli emendamenti. Nei ministeri circolano invece i testi delle intese che il ministro sta promuovendo, ovvero l’elenco dei poteri che sarebbero trasferiti dallo Stato alle Regioni e i principi del loro finanziamento.
Cosa dicono questi documenti?
C’è un elenco di circa 500 funzioni pubbliche: da chi recluta i docenti nelle scuole a chi decide dove fare i rigassificatori, dove passano i treni o gli stipendi dei medici. È il grosso delle politiche italiane che sfugge all’analisi parlamentare. Calderoli sta provando a ottenere l’approvazione di tutti i ministeri per soddisfare le richieste delle due Regioni interessate. Perché qui c’è un altro colpo di scena…
Andiamo con ordine: prima l’operazione di persuasione del ministro.
I ministeri stanno cercando di capire cosa dare alle Regioni. Calderoli è totalmente d’accordo con la linea veneta del concedere tutto, ma ad esempio ci sono dubbi sui concorsi scolastici e gli stipendi dei medici. La lista è stata ri-editata, ci sono commenti in corsivo di alcuni ministeri in cui si sollevano pesanti dubbi.
Un esempio?
Gli insegnanti sono dipendenti dello Stato o delle Regioni? C’è uno scambio di mail su un tema che dovrebbe essere discusso in Parlamento e su tutti i giornali. E poi c’è quanto già previsto nelle intese del 2019: dal trasferimento di tutti i musei alle regole ambientali. E c’è una battaglia infuocata sulla sanità. Si mira a far decidere in proprio il ruolo del privato, le retribuzioni dei medici, le visite intra moenia.
Tutto in sordina.
Meno gli italiani sanno, più Calderoli può lavorare senza pressione anche sul convincere la maggioranza. Elettori e amministratori di FdI non sono certo regionalisti, anzi.
La riforma è economicamente sostenibile?
Prima dell’estate Bankitalia, Ue e l’Upb hanno avvisato sui rischi: disparità economica tra le Regioni e meno margine per la politica economica. Lo Stato rinuncerebbe a parte del gettito fiscale di aree molto estese.
Si deve decidere quanta parte di Irpef o Iva rimane alle Regioni per le nuove funzioni.
Stanno già discutendo anche di questo. Ma se la percentuale del primo anno sarà stabilità nella norma, per quelli successivi varranno le trattative tra governo e regioni proprio come succede ora con le Regioni a statuto speciale, le cui dimensioni però rendono oggi la cosa (quasi) trascurabile.
Ora torniamo al colpo di scena. Qual è?
C’è un rallentamento. L’Emilia Romagna pare essersi fermata per ora e in prima fila restano Veneto e Lombardia. È vero che Piemonte, Liguria e Toscana hanno presentato richieste di maggiori poteri, ma la trattativa attuale è di fatto un accordo tra Meloni e Zaia e tra Meloni e Fontana.
Lei sostiene che l’approvazione è vicina.
Il pericolo c’è. Tra dicembre del 2018 e aprile del 2019, col governo Conte-1, ci siamo andati molto vicini: le intese furono quasi approvate. Ora che le forze di governo sono di nuovo a favore dell’autonomia non c’è più ostacolo e sarà un cambiamento irreversibile. Se passasse in questa forma per cambiarla ci vorrebbe l’accordo con la Regione: quale mai sarebbe disposta a dare indietro i suoi poteri? E quale parlamentare di maggioranza a votare contro il suo governo? Nessuno.
Il conflitto d’interessi delle tv rende il premierato una follia
GIANDOMENICO CRAPIS 8 SETTEMBRE 2023
Il premierato, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio, è la proposta della destra in tema di riforme elettorali. Renzi è d’accordo, of course. Non altrettanto il resto dell’opposizione, che afferma che una norma simile azzopperebbe il ruolo del capo dello Stato. Be’, non sarebbe il solo motivo per dire no. Forse c’è anche dell’altro a controindicare una terapia del genere per la democrazia italiana: magari un sistema mediatico devastato dal conflitto d’interessi e da un servizio pubblico collocato nelle mani del potere di turno.
Però torniamo all’elezione diretta del premier. C’è o no il problema di un oligopolio dove la metà delle tv generaliste è in mano al leader storico della destra e ora, dopo la sua scomparsa, a un gruppo fortemente legato alla sua eredità politica? Si potrebbe obiettare che adesso che Berlusconi non c’è più, Mediaset potrebbe diventare un network meno politicizzato, più pluralista. Nonostante le scelte di Pier Silvio, noi pensiamo che non sarà così: Mediaset subirà solo un restyling che la renda più presentabile. Del resto resterebbe sempre l’impresa del fondatore di Forza Italia, e le radici non si recidono. Ma anche se ciò accadesse rimane il problema di un’impresa che da sola sarebbe in grado, con la sua potenza di fuoco, di condizionare pesantemente i cittadini, ancor di più in una competizione con voto diretto per la scelta del premier. Un gruppo che per giunta non risponde a nessuna commissione di vigilanza e che ha dimostrato più volte noncuranza per le sanzioni dell’Autorità, spesso solo annunciate e mai erogate come alle Politiche del 2022.
La conferma del lavoro politico di Mediaset a favore della destra e di Forza Italia sono da decenni i rendiconti Agcom sulle esposizioni dei partiti e dei loro esponenti nelle reti, testimonianza inoppugnabile di un legame mai interrotto. Ma senza andare molto indietro nel tempo, qui basti richiamare i dati messi a disposizione dal Garante per il mese di luglio. Ebbene il Tg5, il secondo organo d’informazione del Paese, è quello dove Forza Italia primeggia più che in tutti gli altri tg con il 17% del parlato, dove la Meloni raggiunge la percentuale monstre del 29% del tempo di parola, dove governo e maggioranza arrivano quasi al 70%. Nei programmi, stesso discorso: a Canale 5 Forza Italia è il partito più rappresentato e il 19% di parlato concesso ai suoi esponenti è un record tra le reti. Naturalmente c’è pure la Rai, di cui con le leggi vigenti il governo di turno può controllare una parte importante. Cosa succederebbe se domani dovessimo eleggere il premier con voto diretto dei cittadini? Se al governo ci fosse la destra, potrebbe disporre di almeno due tg pubblici, dei tre tg privati e della maggior parte dei talk pubblici e privati per ‘spingere’ il proprio candidato; se al governo ci fosse la sinistra potrebbe contare al massimo su parte della Rai e forse qualche talk di La7, ma non è detto, perché i giornalisti progressisti, a differenza di quelli di orientamento opposto, hanno sempre fatto le bucce alla loro parte di riferimento. Infine c’è un ultimo scenario: Mediaset passa di mano. Il nuovo proprietario a questo punto potrebbe essere tentato anch’egli di scendere in campo, o magari di scegliersi un candidato da sponsorizzare per l’elezione diretta; o, nella migliore ipotesi, potrebbe disporre di uno strumento micidiale (una ventina di canali tra generalisti, digitali e pay) per condizionare gravemente la politica. Premierato, sindaco d’Italia: ma di cosa parliamo?
P.s.: ci sarebbe piaciuto vedere Schlein e Conte, in occasione delle ultime nomine Rai, evitare il ballo delle sottopoltrone, rifiutandosi, come fece Bersani nel 2012, di sedere al tavolo, magari scegliendo la mobilitazione e la denuncia per stigmatizzare quanto stava accadendo.
L’emergenza per nascondere l’austerità
SICUREZZA. Giorgia Meloni pensa di rifugiarsi nel grande classico del law and order per mascherare la sua inadeguatezza sulle spese sociali
Giuliano Santoro 08/09/2023
Non si può di certo accusare Giorgia Meloni di essere irrispettosa nei confronti delle tradizioni. In questi giorni, ad esempio, ha mostrato di mantenere un ossequio impeccabile di fronte alla vetusta usanza della destra di sfoderare il manganello per risolvere le questioni sociali. Così, non appena la presidente del consiglio ha preso atto che il miracolo economico italiano del quale si parlava appena poche settimane fa era pura illusione e che le regole dell’austerità sono parte irrevocabile del pacchetto europeo che ha deciso di accettare, ha subito fatto scattare il riflesso pavloviano della tolleranza zero.
Non c’è più il reddito di cittadinanza e i poveri vengono artificiosamente divisi in «occupabili» destinati alla macelleria sociale e bisognosi meritevoli della carità di stato? Ecco che scatta una nuova emergenza sicurezza per irregimentare le classi sociali pericolose. Non c’è il becco di un euro per le periferie, anzi saltano i 16 miliardi all’uopo previsti dal Pnrr? Si mettono in scena blitz a favore di telecamera nei quartieri disagiati, grandi manovre poliziesche cui difficilmente seguiranno investimenti sociali.
Scoppiata la bolla propagandistica dei migranti, insomma, la premier coglie al balzo i tragici casi di cronaca dei giorni scorsi e si getta nel grand guignol delle passerelle nei luoghi del degrado per dichiarare l’ennesima emergenza e autoassegnarsi il ruolo di donna d’ordine. Si tratta con tutta evidenza di un riflesso spontaneo: da sempre la le destre reazionarie e conservatrici hanno in odio le città e gli spazi comuni che, con tutte le contraddizioni e i conflitti del caso, riescono a mettere in piedi. Benito Mussolini, per dirne uno, provò in tutti i modi a impedire che Roma divenisse un polo attrattivo per i poveri di tutto il paese alla ricerca di un lavoro con leggi espressamente contro l’urbanesimo volte alla devastazione sociale delle periferie e alla criminalizzazione dei baraccati. Più di recente, il can can mediatico ha rappresentato le città come luoghi infidi e incontrollabili. I grandi palazzoni dell’edilizia popolare ai margini delle città, pensati come falansteri da urbanisti e architetti all’epoca del boom economico e durante gli anni degli investimenti pubblici, sono stati abbandonati al degrado e trasformati in ghetti.
Oggi, dopo anni di abbandono e disinvestimento in servizi e spazi pubblici, Meloni pensa di rifugiarsi nel grande classico del law and order per mascherare la sua inadeguatezza sulle spese sociali e nascondere l’incapacità di occuparsi della parte più povera del paese. La polarizzazione fa parte del gioco: di fronte al buonismo e al permissivismo di chi c’era prima, ha fatto capire ieri parlando ai giornalisti, è arrivato qualcuno che ci mette la faccia. Il che non è vero. Anche i governi degli anni scorsi hanno cercato di cavalcare le emergenze e inaugurato strette repressive che dovevano essere risolutive. Prova ne è che una delle misure più inquietanti introdotte dal Consiglio dei ministri, l’estensione del Daspo urbano ai minori e per di più l’utilizzo della diffida anche per allontanare i ragazzi da scuole e università, sia stata introdotto proprio da un governo di centrosinistra. E non fu proprio Walter Veltroni inaugurando il Pd da sindaco di Roma, a mettere in difficoltà il governo Prodi chiedendo una stretta normativa dopo un terribile caso di cronaca e annunciando che «la sicurezza non è né di destra né di sinistra»»?
Al contrario, lo dimostrano fior di studi e le esperienze recenti: reprimere senza un disegno sociale più ampio, e senza costruire le infrastrutture solidali e civiche che danno senso alla vita in comune nei quartieri, non serve a niente. Se non a nascondere i propri limiti e criminalizzare ulteriormente i poveri.
Tutti in classe. Altro che manette, la dispersione si combatte così
COMMENTI. Con il decreto Caivano il governo pensa di inasprire le pene, fino a recludere chi non manda i figli a scuola? A queste ragazze e ragazzi ci penseranno le mafie
Claudia Pratelli* 08/09/2023
Educare. Non punire. Se l’abbandono scolastico fosse solo una questione di legalità e ordine pubblico, come sembra voler suggerire il governo, sarebbe addirittura una buona notizia. E invece è una questione di povertà materiale e culturale, di salute mentale, di vite al margine e di disagio. È, spesso, una questione legata a vite dolorose e sofferenti.
Mandare in carcere i genitori i cui figli non vanno a scuola non affronta il problema. È uno slogan facile, tradizionalmente caro alle destre, per alzare la voce, creare nuove e ulteriori esclusioni e non risolvere niente. Una risposta ideologica ed inefficace.
Con il decreto Caivano il governo pensa di inasprire le pene, fino a recludere chi non manda i figli a scuola? A queste ragazze e ragazzi ci penseranno le mafie. Ed ecco come con questa scorciatoia ideologica non si risolve il problema ma lo si aggrava: aumenta lo spazio di agibilità della criminalità organizzata che speculerà ancor di più sulla povertà e rafforzerà il suo consenso.
Al governo Meloni vorrei suggerire azioni semplici e sicuramente più efficaci di continuare ad affollare le carceri. I comuni e le scuole hanno bisogno di risorse strutturali: per aprire e gestire le mense, i trasporti, i servizi lì dove non ci sono e aumentare dappertutto il tempo scuola; per potenziare i servizi sull’inclusione dei ragazzi e delle ragazze con bisogni educativi speciali, spesso i più fragili e i più esposti all’abbandono; per rendere, sul piano edilizio, accoglienti e sicuri i luoghi dell’istruzione; per aumentare l’offerta formativa, ludica e culturale oltre l’orario scolastico, con scuole aperte e partecipate diffuse su tutto il territorio nazionale, che fungano da poli civici di comunità, ovunque ma soprattutto in quei contesti in cui o c’è la scuola o non c’è nulla; per valorizzare e garantire migliori condizioni ai docenti, che troppo spesso lasciati soli nell’essere l’avamposto dello Stato in territori difficili.
Per dare solo un’idea: un genitore in carcere per due anni costerebbe allo stato oltre 110.000 euro. Se il governo desse ai comuni questi soldi, dopo anni di tagli alla scuola pubblica, saremmo più forti nel combattere la dispersione scolastica.
Si governa con atti veri, non propagandistici.
*L’autrice è assessora alla Scuola, Formazione, Lavoro di Roma Capitale
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