LA CAMICIA DI FORZA CULTURALE DELL’EGEMONIA A TUTTI I COSTI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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LA CAMICIA DI FORZA CULTURALE DELL’EGEMONIA A TUTTI I COSTI da IL MANIFESTO

La camicia di forza culturale dell’egemonia a tutti i costi

DOV’È LA VITTORIA. Le classi dirigenti degli Stati uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta. L’attuale presidente americano sembra non capire la forza del nazionalismo altrui. Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro però, vogliono bombardare la California e neanche la Polonia o la Germania: quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione

Fabrizio Tonello  21/02/2023

«Dalle frontiere d’Ungheria al cuore della Birmania (…) il demonio russo assilla e turba il genere umano e perpetra diligentemente le sue perfide frodi» scriveva il Times di Londra nell’anno di grazia 1838 ma potrebbero benissimo essere uscite sul New York Times di ieri, in coincidenza con la visita di Joe Biden a Kiev. L’impero inglese non c’è più, sostituito da quello americano, ma il linguaggio, 185 anni dopo, è tornato lo stesso. L’Occidente è «industrioso ed essenzialmente pacifico» (ancora il Times del 1838) mentre Putin è assetato di sangue.

Che Vladimir Putin sia un satrapo orientale non cambia nulla a una questione fondamentale: questa narrazione manichea è sbagliata e pericolosa. Viene da lontano, dalla russofobia inglese dell’Ottocento, ma oggi rischia di condurre l’Europa e il mondo a un conflitto generalizzato.

CERTO, PUTIN ha invaso l’Ucraina ma nell’arco degli ultimi due secoli la Russia è stata invasa da francesi e inglesi nel 1812 (Napoleone), nel 1853 (guerra di Crimea a cui partecipò anche l’Italia), nel 1919 (spedizioni in Siberia e nel Baltico a sostegno dei generali zaristi), nel 1941 (Hitler e Mussolini). Chiunque stia al Cremlino non può vedere la Nato a Kiev come se si trattasse della Croce Rossa internazionale: lo ripete da anni uno dei pochi studiosi di relazioni internazionali che non credono alla propaganda di Washington, John Mearsheimer.

Era il 1984 quando Barbara Tuchman pubblicava La marcia della follia, un libro che dovrebbe stare sul comodino di tutti i presidenti, cancellieri e primi ministri da Londra a Tokyo, passando per Bruxelles e Roma. Purtroppo molti di loro sono in preda a quella che la scrittrice statunitense definiva “autoipnosi” e credono alla loro stessa propaganda, come dimostra la reazione isterica delle classi dirigenti americane all’episodio del presunto pallone spia cinese, dieci giorni fa.

Con la visita a Kiev Joe Biden sembra voler riportare la politica americana agli anni Sessanta, quelli del conflitto permanente sia con la Russia che con la Cina, attraverso alleati locali. Era il 1958 quando il mondo si trovò sull’orlo di un conflitto nucleare attorno alla sorte di due insignificanti isolette contese fra Pechino e Taiwan: Quemoy e Matsu. Era il 1962 quando Kennedy e Krusciov rischiarono la Terza guerra mondiale per i missili sovietici a Cuba. In entrambi i casi il disastro fu evitato ma il “lieto fine” è garantito solo nei film di Hollywood, non nella vita reale.

Tuchman vinse il premio Pulitzer con il suo libro I cannoni d’agosto (1963) dove spiegava che lo scoppio della Prima guerra mondiale non era veramente desiderato da nessuno dei protagonisti ma che i governi austriaco, tedesco, francese e inglese erano incapaci di misurare veramente le conseguenze di ciascuna delle loro azioni che conducevano alla guerra.

AGIVANO come “sonnambuli”, un concetto ripreso nei giorni scorsi dal filosofo tedesco Jürgen Habermas: «L’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino per tutto il tempo necessario». Questo crea «il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso». L’abisso di una guerra nucleare ben più devastante del conflitto iniziato nel 1914.

La situazione attuale in parte riflette la camicia di forza culturale a cui nessun presidente americano può sottrarsi: le classi dirigenti degli Stati uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta. Per un altro verso, Biden sembra agire come Lyndon Johnson, un altro presidente tanto progressista in politica interna quanto bellicoso in politica estera.

JOHNSON non capiva Ho Chi Minh, né il nazionalismo vietnamita, Biden pensa che Putin sia un tirannello di seconda categoria invece che l’espressione di una visione del mondo che risale Pietro il Grande e che certo non può accettare la perdita della Crimea, oggetto di un’invasione occidentale già nel 1853. Anche l’attuale presidente americano sembra non capire la forza del nazionalismo altrui, centuplicata quando si tratta di difendere la patria dall’occupazione straniera o dalla minaccia di perdita di territori storicamente russi.

Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro però, vogliono bombardare la California e neanche la Polonia o la Germania: quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione. Né l’uno né l’altro sono più paranoici di quanto lo siano il Congresso americano o i mediocrissimi consiglieri di Biden.

Come ha scriveva 30 anni fa Giovanni Arrighi, «il segreto del successo capitalistico consistere nel far combattere ad altri le proprie guerre, se possibile senza costi e, altrimenti, al minor costo possibile». I costi dell’Ucraina, in assenza di leader all’altezza della situazione, rischiano però di diventare catastrofici per tutti.

La mossa della Casa bianca prova a prendere la Cina in contropiede

WASHINGTON AD ALZO ZERO SUI RAPPORTI CINA-RUSSIA. Biden a Kiev mentre Wang Yi sbarca a Mosca. Le accuse della Casa bianca allontanano la distensione tra le due potenze. E la visita dell’inviato di Xi, dopo il tour che era servito a riaprire il dialogo con l’Europa, cambia di segno

Lorenzo Lamperti, TAIPEI   21/02/2023

Il dialogo no. Stati uniti e Cina continuano a non considerarlo. Anzi, elevano la propria contesa a uno scontro tattico fatto di retorica che diventa propaganda, supposizioni che diventano accuse, luoghi comuni che diventano manifesti (geo)politici.

Ieri, Wang Yi è arrivato a Mosca. L’ultima tappa del tour del direttore dell’Ufficio della commissione centrale del Partito comunista doveva servire a dare l’impressione che la Cina stesse lavorando per la pace. Messaggio a uso e consumo in primis dei paesi europei, coi quali lo zar della diplomazia cinese aveva riannodato i fili durante il suo viaggio tra Francia, Italia e Germania. È diventato tutt’altro, dopo che il clima di tensione con gli Stati uniti è sfociato non solo in un duro confronto con Antony Blinken a margine della Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, ma anche a una controffensiva americana sul ruolo giocato dalla Cina.

«TEMIAMO CHE PECHINO possa rifornire la Russia di armi letali», ha detto il segretario di Stato americano. Dubbio ripreso e amplificato dai media. Il governo cinese ha definito «false» le accuse, lanciando il “pallone” (stavolta in senso metaforico) dall’altra parte del campo: «Sono gli Stati uniti che non smettono di fornire armi al campo di battaglia e non la Cina», ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin.

Ma nel frattempo le indiscrezioni e i sospetti sono bastati per richiamare sull’attenti i partner europei, implicitamente invitati a non fidarsi troppo della “proposta di pace” cinese che verrà presentata in occasione dell’anniversario dell’invasione.

Improvvisamente, la tappa nella capitale russa di Wang Yi viene percepita come un segnale di ulteriore allineamento tra la Cina e la Russia. Una visione alimentata dalla sortita di Joe Biden a Kiev, utile quasi a dividere in due gli schieramenti. Mostrando all’Europa come “giocare”, provando a stanare la Cina dalla sua ambiguità.

Un messaggio più netto sulla guerra provocherebbe turbolenze non volute con Mosca, il mero mantenimento della linea negoziale (con responsabilità del conflitto addossate a Washington) potrebbe non bastare più per convincere l’Europa sul ruolo di Pechino come neutrale garante di stabilità.

IL CONTROPIEDE AMERICANO rende più complicata la posizione cinese, anche perché Wang si fermerà nella capitale russa durante l’atteso discorso all’Assemblea federale di Vladimir Putin, che potrebbe poi incontrare. Da attendersi la riaffermazione dei rapporti bilaterali in grado di superare anche il “test” della guerra, così come le accuse nei confronti di Washington e della sua «mentalità da guerra fredda».

Wang lavorerà poi ai preparativi della prossima visita al Cremlino di Xi Jinping, mentre al largo del Sudafrica continuano le esercitazioni navali congiunte in programma fino al 27 febbraio. D’altronde, come affermato dal governo cinese, «gli Stati uniti non sono qualificati per dare ordini alla Cina e non accetteremo mai che ci dettino o impongano come dovrebbero essere le relazioni sinorusse».

Appare lontana la distensione tra le due superpotenze, forse il vero unico sviluppo in grado di scongiurare il perdurare del conflitto.

SIA GLI STATI UNITI CHE LA CINA non hanno colto i rispettivi assist al dialogo arrivati nelle scorse settimane. Prima la Casa bianca ha ignorato l’inusuale «rammarico» espresso da Pechino per il presunto pallone-spia, poi Wang ha snobbato la possibile via d’uscita mostrata dal discorso con cui Biden ha chiuso l’incidente. Entrambi li hanno anzi usati per provare a conquistare una posizione di forza in vista dell’ipotetica ripresa di un dialogo su cui però nessuno sembra voler fare il primo passo.

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