IL PROGRESSISMO È SOLO PER L’ÈLITE OCCIDENTALE da IL FATTO
Il progressismo è solo per l’èlite occidentale
Donatella Di Cesare 17 Novembre 2024
C’era una volta il Progresso. E c’era l’enorme entusiasmo che suscitava: il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, la prosperità avrebbe trionfato per tutti, la razionalità avrebbe sconfitto le tenebre, la società sarebbe stata più avanzata. Di tutto ciò dopo pandemie, guerre, riscaldamento climatico, violenze e brutalità di ogni genere, resta ben poco. Solo una vulgata chiamata progressismo che ha i suoi adepti e nostalgici nelle élites occidentali ed è un insieme di buoni sentimenti, luoghi comuni, slogan fatti di stereotipi e termini vaghi con cui si celebrano “modernizzazione”, “sviluppo”, “innovazione”, “crescita”. Questo progressismo diffuso, di grande povertà concettuale, è diventato il codice a cui attingono i politici di professione del centrosinistra. È un codice che funziona a mo’ di slogan pubblicitario – anzi la pubblicità ne ha tratto vantaggio. “Sì al cambiamento. Votate Apple”, “Il Pd è il progresso”, eccetera.
Dopo la liquidazione di tutti i contenuti della sinistra europea, soprattutto della sinistra italiana, il progressismo è diventato l’etichetta più neutra possibile, il passe-partout che si adatta alle posizioni più elusive – anche Draghi a suo modo è un progressista – di quel conformismo ideologico che costituisce la retorica delle élites occidentali. Può essere usato senza pensarci troppo e senza crederci troppo. Basta imparare la lezioncina. Meglio poi se, a conferma che tutto va per il meglio, ci si concentra su quelli che vengono chiamati “diritti”, e spesso non sono che i privilegi ulteriori di chi gode già di una sfera privilegiata. La risata di Harris, grottesca e intempestiva, è il simbolo di tutto ciò. La sua cocente disfatta è la sconfitta delle élites progressiste occidentali. Se da un canto portano il peso di enormi errori compiuti a più riprese nel corso degli ultimi anni, dall’Afghanistan a Gaza e ritorno, passando per l’Ucraina, dall’altro non hanno più nulla, o quasi, da dire sui grandi temi politici che dovrebbero essere all’ordine del giorno: la guerra, la povertà, l’inflazione, il lavoro, la migrazione, le devastazioni climatiche. E in Italia se ne aggiungono molti altri: la sanità, l’istruzione, il Sud, un vero progetto politico per le donne.
Non basta il pessimismo dell’intelligenza di chi riconosce che non si sta andando verso il meglio. E non basta neppure richiamare, come alcuni fanno, l’opposizione tra diritti civili e diritti sociali, anche questa un po’ stantia. La nuova destra trumpiana, che trova in Europa i suoi più schietti esponenti in Viktor Orbán e Giorgia Meloni, vince – e continuerà a vincere – per almeno tre profonde ragioni. La prima è che sa presentarsi come novità (e forse in parte lo è), rispetto al progressismo elitistico che suonava già obsoleto vent’anni fa. Questo linguaggio della vecchia borghesia liberale, che ha preteso di farsi universale, parlando anche per i ceti subalterni, semplicemente non funziona più.
La seconda ragione è che la fine delle certezze progressiste ha provocato smarrimento, rassegnazione, rancore, fuga nella vita privata, chiusura nella famiglia, corsa al successo individuale in una competizione all’ultimo respiro con gli altri. La nuova destra, oltre a riconoscere tutto ciò, sa dare una risposta, per quanto banale e spietata.
La terza ragione sta nella ricetta: offrire un saldo riparo da quel che avviene lì fuori, nell’ingovernabile caos del mondo, tra conflitti e catastrofi. Il che suona come musica per le orecchie dei preoccupati e ansiosi cittadini delle democrazie occidentali. E il riparo è ovviamente per loro, sebbene si precisi come scudo per alcuni gruppi, per alcune tribù (non sarebbe destra!), che in Italia, ad esempio, sono tassisti, balneari, autonomi, piccoli e grandi evasori, eccetera. Funziona così e funziona bene, visti anche i risultati. Perché promette di difendere gli interessi di alcuni, e li difende. Ma poi sa fare l’occhiolino ai ceti subalterni che appartengono pur sempre alla nazione. Questo insegna Trump, l’affarista entrato in politica solo per curare il corpo malato dell’America, il guaritore, che depurerà quel corpo da ogni minaccia sovversiva interna e da ogni pericolo esterno. Autarchia, grandezza mistica, purezza dell’ultranazionalismo.
Dall’altra parte c’è il progressismo astratto, che ostenta valori universali, che millanta di promuovere gli interessi di tutti e che, a ben guardare, persegue solo quelli di pochi. A questa scialba versione di routine non credono più neppure le élites occidentali che ne detengono il monopolio. Finché questa vuota ideologia non imploderà, finché questo linguaggio fatto di grotteschi ritornelli, non mostrerà fino in fondo tutti i suoi non-sensi, sarà impossibile costruire una vera alternativa in grado di essere all’altezza dei tempi.
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