IL “PREMERIATO” DEL GOVERNO MELONI È L’ANTICAMERA DELL’AUTOCRAZIA da IL MANIFESTO e IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL “PREMERIATO” DEL GOVERNO MELONI È L’ANTICAMERA DELL’AUTOCRAZIA da IL MANIFESTO e IL FATTO

Il «premierato» del governo Meloni è l’anticamera dell’autocrazia

RIFORME. Nella bozza di riforma, lo sforzo per lasciare la forma dei poteri del capo dello Stato ed eliminarne la sostanza è stato straordinario. Ma del tutto ipocrita

Gaetano Azzariti  03/11/2023

La bozza sul premierato è presentata come una riforma soft, in grado di rafforzare il governo senza stravolgere gli equilibri costituzionali. È invece pericolosa, contiene un falso ed esprime la confusione della maggioranza in materia di forme di governo e sistema costituzionale

L’aspetto più temibile è legato alla previsione dell’elezione contestuale del presidente del Consiglio e delle camere, assicurando una maggioranza pari al 55% dei seggi da assegnare ai candidati e alle liste collegati al presidente eletto. In un colpo solo si garantirebbe ad una minoranza del paese di conquistare, grazie ad una distorsione elettorale, tanto il governo quanto il parlamento.

Si tratterebbe di un premierato assoluto che – pur passando per una finta fiducia iniziale – ci allontanerebbe sia dalle forme di governo parlamentare, dove sono le camere a dare la fiducia reale al governo, sia da quelle presidenziali, dove gli equilibri sono garantiti da una netta separazione dei poteri.

In effetti, tanto negli Stati uniti, quanto in Francia è proprio la possibilità che il legislativo abbiano maggioranze politiche diverse da quella presidenziale (nelle forme delle cosiddette «anatra zoppa» ovvero «coabitazione») che evita la torsione autoritaria del sistema. Lo dimostrano gli ordinamenti dove tale possibilità è esclusa in via di principio o di fatto (come in Turchia o in Russia) e proprio l’elezione diretta del capo del governo è all’origine della natura totalitaria del regime politico.

Si afferma che in fondo non è altro che la trasposizione a livello nazionale del sistema comunale e regionale. Tralasciando ogni giudizio o critica su tali modelli, mi limito ad osservare che in tal modo si mostra di non saper distinguere la responsabilità e il complesso sistema di controlli politici e amministrativi che gravano sugli amministratori locali dal potere e la relativa responsabilità di determinazione delle politiche nazionali e internazionali dei capi di governo. Asservire il parlamento al governo tramite una forzata omogeneità di maggioranza politica vuol dire concentrare il potere sovrano nelle mani di un eletto del popolo. L’anticamera dell’autocrazia. Un pericolo che non ci è permesso di correre.

Ed è qui che si innesta la storia di un falso. La leggenda secondo la quale non c’è da preoccuparsi poiché i poteri di controllo e garanzia verrebbero esercitati – se non più dal parlamento – dal garante politico della nostra Costituzione, il presidente della Repubblica. Nella bozza sul premierato lo sforzo per lasciare la forma dei poteri del capo dello Stato ed eliminarne la sostanza è in effetti straordinaria. Ma, nondimeno, ipocrita.

Che senso ha lasciare al capo dello Stato il potere di «conferire» l’incarico al premier eletto quando è escluso che possa esercitare alcun ruolo di intermediazione e stimolo, così com’è oggi, per la nomina del presidente del Consiglio da incaricare? Puro notaio di un esito elettorale. Così è anche per il potere di scioglimento delle camere: che senso ha lasciare la decisione al presidente della Repubblica dopo aver tipizzato in costituzione la durata di governo del premier e aver rigidamente delimitato persino l’eventuale passaggio di una crisi di governo senza possibilità di mutamento di maggioranza? Anche in questo caso i margini dell’azione autonoma del garante della Costituzione appaiono minimi se non inesistenti.

Infine, proprio la previsione di una crisi di governo e la possibilità di nominare un nuovo premier scelto tra i soli parlamentari di maggioranza (della ex maggioranza?), con l’obbligo per quest’ultimo di continuare ad attuare l’indirizzo politico e rispettare gli impegni programmatici del precedente, dimostra lo stato di confusione in cui versa il disegno di legge costituzionale che si vuole proporre.

Dopo aver scelto la via della legittimazione popolare, si torna a quella parlamentare? Dopo avere sottomesso il parlamento alla volontà del capo eletto dal popolo, si permette al primo di prevalere sul secondo? Non sono sovrapponibili le legittimazioni popolari e quelle parlamentari. Tantomeno possono vincolarsi i governi che ottengono una (nuova) fiducia agli indirizzi e ai programmi dei precedenti. Che si è fatta a fare la crisi? Solo per sostituire il leader eletto dal popolo. Ma è come ammettere che è meglio non eleggere nessuno, riaffermando – magari razionalizzando – i principi del parlamentarismo e i ruoli di un governo parlamentare e di un garante con funzioni di «risolutore degli stati di crisi». Molto altro ci sarebbe da dire, ma ho lo spazio solo per una altra considerazione.

Mi sembra un vero azzardo volere inserire in Costituzione una specifica formula elettorale che unisce le votazioni di parlamento e presidente del Consiglio, che indica le modalità di voto (unica scheda e collegamento di liste con indicazione del premier), che fissa il premio pari al 55% dei seggi senza alcuna previsione di una soglia minima di consenso ottenuto dalle coalizioni.

Si toccano principi supremi (il principio di rappresentatività, ma anche le modalità di espressione della sovranità popolare) con una disinvoltura sorprendente. È stata la Corte costituzionale e ricordare che così si rischia «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». Altro che riforma soft.

Il “terzopianista” del premierato

LA FORMA DI GOVERNO – Dipende da due antefatti: sistema elettorale e sistema partitico che ne deriva. Il riformatore politicizzato costruisce un terzo piano senza tener conto di come integrarlo con gli altri due

GIOVANNI SARTORI  3 NOVEMBRE 2023

La dizione “premierato” indica un sistema parlamentare nel quale il potere esecutivo sovrasta il potere legislativo e nel quale il primo ministro comanda i suoi ministri. L’idea è di un governo sopra l’assemblea che ribalta il governo della assemblea.

Va da sé, pertanto, che il premierato sta per “governo forte” nel senso di governo efficiente, di governo in grado di governare. Dire “premierato forte” è pleonastico: se è premierato, è per definizione forte (strutturalmente parlando). Qual è il senso, allora, della distinzione tra premierato forte e premierato elettivo? L’argomento è, qui, che l’elezione diretta del premier, del capo del governo, lo rende forte, e che lo rende forte perché lo rende inamovibile. Vero o falso? II premierato elettivo è stato sperimentato soltanto in Israele, e l’esperimento è già stato cancellato dopo tre prove tutte disastrose. Si dirà che un solo fallimento non basta per condannare una formula, anche se questa condanna precede l’esperimento israeliano (io lo avevo già criticato nel 1994, e cioè prima che venisse messo alla prova), e quindi risulta da ragioni argomentate e non solo da un fallimento pratico. Alla domanda risponderò dunque così: più falso che vero. Per ora. Perché sul punto tornerò.

Al momento mi interessa stabilire che la differenza tra premierato forte e premierato elettivo è che la prima dizione denota un esito (la governabilità), mentre la seconda indica una strumentazione (lo strumento dell’elezione diretta). Sino a oggi nessun premierato poggia su una elezione diretta. È inesatto e sbagliato raccontarci che in Inghilterra è “come se” il premier sia eletto dagli elettori. Se così fosse non sarebbe cambiabile. Invece numerosi primi ministri (10 su 17) sono stati tutti sostituiti in corso di legislatura senza nessun rinvio alle urne. Un discorso analogo vale per il cancellierato tedesco. In Germania il capo del governo è eletto dal Bundestag, e la costituzione ne prevede la sostituibilità mediante un voto di sfiducia costruttivo.

Se questi sono i modelli, o comunque i precedenti, perché mai in Italia si chiede che il premierato sia posto da una elezione diretta o quasi-diretta? La migliore risposta che mi viene in mente è che la nostra ingegneria costituzionale è troppo politicizzata. Mentre il costituzionalista “puro” lavora all’interno della Costituzione vigente, il riformatore che ne esce (come deve) è troppo “impuro”, troppo al servizio di una politica e della sua parte politica. Lo studioso per il quale magis amica veritas sa che la forma di governo, o il sistema di governo, dipende da due antefatti: il sistema elettorale e poi il sistema partitico che ne deriva. L’edificio è a tre piani; ma il nostro riformatore politicizzato non vuol vedere, o comunque non vuole toccare, i primi due: è un “terzopianista” che si installa al terzo piano e vorrebbe aggiustare tutto da lì. Che è come costruire una casa cominciando dal tetto invece che dalla cantina.

Ciò precisato, io sono per il premierato inglese o anche per il cancellierato. Ma faccio presente che il modello Westminster funziona come funziona perché i partiti rilevanti sono soltanto due. Noi di partiti ne abbiamo una dozzina (uno più, uno meno, e cioè dieci di troppo). Cosa ne facciamo? Il politologo “terzopianista” lascia capire che questo non è un problema. Se uno diventa otto si fa una coalizione a otto; e se diventa quattro allora si fa una coalizione a quattro. È la stessa cosa? Assolutamente no: è cosa diversissima. Perché una coalizione è tanto più scollata, e quindi disfunzionale, quanto più è molteplice ed eterogenea. Quanto al cancellierato, la differenza è che qui si danno coalizioni minime (a due) che però spesso sono dominate da un partito maggiore. Il che minimizza il problema.

Veniamo ora al premierato all’italiana, che è tutt’altra bestia. Il premierato all’italiana è caratterizzato da due proposte: l’elezione popolare diretta del capo del governo, e dalla sua facoltà pressoché discrezionale di scioglimento della Camera dei deputati. Dal defuntissimo caso israeliano abbiamo già capito che un premier di elezione diretta non può essere cambiato: per cambiarlo occorre una nuova elezione. Pertanto al premier “sfiduciato”, o comunque paralizzato, spetta il potere e il diritto di sciogliere il Parlamento e di indire nuove elezioni. È (era) la logica di quel sistema. Si arriva così a un sistema esposto a elezioni continue.

A questa prima serie di obiezioni se ne possono aggiungere altre. La seconda obiezione è che, in linea di principio, il troppo votare è nocivo alla democrazia. Sotto elezioni i governi entrano in febbre elettorale, rinviano tutte le decisioni impopolari (anche se necessarie e urgenti), e si danno alla spesa facile. Il momento felice del “buongoverno” è il momento nel quale le elezioni sono lontane. A questa considerazione si oppone che quel che serve è la minaccia di scioglimento, non lo scioglimento. Vero. Ma poi – quando lo scioglimento è reso facile e non viene deciso da un “potere neutro” – finisce col divenire frequente o comunque per essere un deterrente abusato. Un governo inguaiato che non sa più che pesci prendere cerca un diversivo nel rivotare. La terza obiezione, la più importante, è che l’accoppiata di elezione diretta e di deterrenza elettorale (nel senso appena precisato) ferisce al cuore il meccanismo che costituisce la ragion d’essere e il pregio dei sistemi parlamentari. Il loro pregio è di essere sistemi flessibili che si autoriparano, che rimediano da sé ai loro incidenti di percorso. Invece, il progetto attualmente in discussione prefigura un sistema rigido che non si autoripara: o va avanti così come è nato, oppure si spacca e ricomincia da zero. Già, si ricomincia da zero senza tener presente che il più delle volte il rivotare non cambia nulla perché quasi tutti rivotano allo stesso modo.

Però io ho detto, in precedenza, che il progetto di revisione costituzionale è tipicamente “terzopianista”. Questa asserzione non è contraddetta dal fatto che il progetto in discussione include un “piano terra” di modifiche elettorali? Rispondo no; ma lo debbo qualificare. I sistemi elettorali traducono i voti in seggi ma, così facendo, determinano la natura del sistema partitico. Pertanto la scelta dei sistemi elettorali dovrebbe essere, in primo luogo, sistemica e così guidata dall’intento di fabbricare un sistema partitico funzionale e funzionante (ai fini del sistema di governo). Volete un sistema a due partiti? Ve li posso fornire senza difficoltà. Ma i nostri riformatori di questo non si occupano né preoccupano. Se abbiamo 10-12 partiti, sono contentissimi di tenerseli tutti e quindi ignorano – o per ignoranza o deliberatamente – il nesso tra sistema elettorale e sistema partitico. Si tratta, appunto, di un costituzionalismo “terzopianista” che si interessa del sistema elettorale solo quando arriva al terzo piano. Prima fa entrare in Parlamento una dozzina di partiti; e solo a quel momento interviene affinché la coalizione vincente venga “maggiorata”.

Dal che deriva che la riforma in cantiere non confeziona un premierato forte, ma invece un premierato strutturalmente debole, debolissimo. Chi dimentica il sistema elettorale che fabbrica il sistema partitico si ritrova (all’ultimo piano) con una maggioranza coalizionale che è soltanto fatta di sputo e colla, che è soltanto un appiccicaticcio forzoso. Scrivevo in esordio che se un premierato c’è, allora è forte per definizione. Pertanto parlare di premierato forte è una ridondanza. Ma una ridondanza resa necessaria dal fatto che il genio italico sta progettando un “premierato debole” che è poi, nel suo elemento distintivo e caratterizzante, un “premierato elettivo”. Che così va chiamato.

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