IL DOPPIO STANDARD CHE ALIMENTA GUERRE E DISPOTISMI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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IL DOPPIO STANDARD CHE ALIMENTA GUERRE E DISPOTISMI da IL MANIFESTO

Il doppio standard che alimenta guerre e dispotismi

ESCALATION REGIONALE. Quando Israele ha attaccato il consolato iraniano a Damasco, nessuno dei paesi occidentali ha condannato. Quando l’Iran ha risposto, sono intervenuti in modo solerte. E dopo aver ignorato la risoluzione 2728 che chiedeva di cessare il fuoco a Gaza, Israele ora chiede un intervento d’emergenza del Consiglio di Sicurezza: è un fatto positivo, potrebbe facilitare il cessate il fuoco

Lorenzo Kamel  17/04/2024

Si possono avere opinioni molto diverse riguardo quanto sta accadendo tra Iran e Israele, ma tutte dovrebbero fare i conti con un dato storico: per secoli l’Iraq ha rappresentato il principale argine all’influenza dell’Iran in Medio Oriente. Gli attori che, con tesi infondate, hanno portato al collasso dell’Iraq – e dunque permesso all’Iran di aumentare esponenzialmente la propria influenza nella regione – sono gli stessi che chiedono un intervento deciso per limitare l’influenza di Teheran.

Un assist alle ambizioni iraniane arrivò in particolare da Joe Biden (selezionò tutti i 18 rappresentanti chiamati a testimoniare nelle udienze del Senato americano sull’Iraq) e Benyamin Netanyahu: «Se Saddam verrà defenestrato – dichiarò Netanyahu al Congresso degli Stati uniti il 12 settembre 2002 – vi garantisco che avrà enormi ripercussioni positive sulla regione».

LA MANCANZA di visione e le contraddizioni insite negli errori del passato sono visibili anche in rapporto alla più stretta attualità. Quando Israele ha attaccato il consolato iraniano a Damasco (1 aprile), nessuno dei paesi occidentali ha condannato l’aggressione, o avallato l’intervento dell’Onu, come se le autorità israeliane avessero compiuto un’azione giusta o, al più, opinabile. Per contro, quando l’Iran ha minacciato (e poi implementato) una risposta, i paesi occidentali sono intervenuti in modo solerte, appoggiando l’intervento dell’Onu.

Ciò richiama alla mente anche la questione delle armi nucleari. L’unico paese ad aver usato ordigni nucleari contro civili (gli Stati uniti), e l’unico stato finora dotato di armi nucleari in Medio Oriente (Israele), mettono da tempo in guardia sui pericoli e l’immoralità insita nel fatto che l’Iran possa dotarsene.

Tanto le autorità iraniane quanto quelle israeliane – per non parlare dell’ex presidente Trump – hanno più volte minacciato di cancellare i rispettivi paesi «dalla faccia della terra»: non può essere quello il criterio per legittimare il «possesso a singhiozzo» delle armi nucleari in Medio Oriente, né può rappresentare un valido argomento per giustificazione l’enorme sforzo e i costi che vengono tuttora sostenuti affinché larga parte della regione sia gestita da regimi dispotici (a cominciare da al-Sisi in Egitto), dannosi per lo sviluppo delle società mediorientali, ma utili – attraverso strumenti come il Middle East Air Defence (Mead) – alle esigenze di Stati uniti e Israele. Per citare le parole di un ex generale israeliano a Michael Oren, ex ambasciatore del suo paese a Washington: «Perché gli americani non affrontano la verità? Per difendere la libertà occidentale, devono preservare la tirannia mediorientale».

Ciò premesso, le dinamiche a cui stiamo assistendo non sono prive di precedenti. Già in passato l’Iran ha lanciato droni dal suo territorio verso Israele (nel 2020) e quest’ultimo ha più volte subito attacchi missilistici provenienti dal Libano o dallo Yemen. Non meno frequenti i bombardamenti dell’aviazione israeliana contro paesi sovrani (Libano e Siria su tutti), gli omicidi di innumerevoli scienziati, generali e ingegneri iraniani e le strategie volte a diffondere virus come Stuxnet, creato per sabotare gli stabilimenti nucleari in Iran.

A essere cambiato è soprattutto il quadro regionale, sulla scia della quasi completa obliterazione di Gaza (e degli espropri in Cisgiordania) dove, secondo Save the Children, sta avvenendo «una uccisione di massa al rallentatore».

È in questo mutato contesto regionale che vanno inserite anche le recenti mosse di Hamas e delle autorità israeliane. Queste ultime hanno attaccato il consolato iraniano con l’obiettivo di obbligare l’Iran a rispondere con una rappresaglia necessaria a rinsaldare il sostegno militare e politico di Washington verso Israele, messo a dura prova da una «guerra» (le guerre sono tra stati e i civili possono fuggire) che ha causato al momento la morte di quasi 14mila bambini. Quanto ad Hamas, Yahya Sinwar mira a sfruttare l’escalation con l’Iran per tentare di unire diversi teatri geopolitici e spostare altrove il fulcro delle operazioni militari israeliane.

SU UN PIANO più regionale, Israele, per la prima volta dai tempi di Nasser, ha un rivale che sembra disposto ad affrontarlo militarmente. Pur nella consapevolezza dello squilibrio delle forze in campo, le milizie finanziate da Teheran in Yemen, Iraq, Libano e Siria hanno dimostrato di riuscire a colpire in modo asimmetrico il cuore degli interessi americani e israeliani nella regione.
Come se ne esce? Non esiste una ricetta univoca, ma un ruolo cardine lo dovrà avere la comunità internazionale.

Dopo aver ignorato la risoluzione 2728 che chiedeva un cessate il fuoco a Gaza, la rappresaglia iraniana ha spinto Israele a richiedere un intervento d’emergenza del Consiglio di Sicurezza Onu. È un fatto positivo che le autorità israeliane abbiano implicitamente ricominciato a considerare come utili le decisioni dell’Onu.

Ciò potrebbe facilitare l’implementazione di un cessate il fuoco che può spingere sempre più persone a prendere coscienza del fatto che, nelle parole del giornalista israeliano Meron Rapaport, «la guerra incessante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata e ciò che rimane è la verità: l’unico modo di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi».

La corsa al riarmo dell’Europa prepara l’austerità

L’UE ALLA GUERRA. Von der Leyen inaugura ad Atene la sua campagna elettorale preparando la Ue alla guerra e lodando la Grecia, dissanguata dalla Troika e in mano alle destre per la sua spesa militare

Marco Bascetta  17/04/2024

Non fu certo l’unico fattore ad accelerare il tracollo del sistema sovietico affetto da innumerevoli storture e dalla sclerosi permanente della sua elefantiaca struttura burocratica, ma è cosa nota il ruolo della forsennata corsa al riarmo.

Forsennata corsa al riarmo che, durante gli anni della guerra fredda,  diede un contributo decisivo a logorare lo sviluppo economico dell’Urss e a mantenere basso il tenore di vita dei cittadini sovietici alimentandone così l’indifferenza o la disaffezione. In ogni sistema autoritario, per non parlare di uno stato di polizia, si bada poco a ricercare un ragionevole equilibrio tra l’incremento della potenza militare e i bisogni e le aspirazioni dei cittadini che le vengono regolarmente sacrificati. Ne consegue, alla lunga, un inevitabile indebolimento.

La possente economia capitalistica degli Stati uniti non ebbe invece bisogno di comprimere così pesantemente il livello di vita degli americani nel loro insieme per sostenere i costi della guerra contro l’“impero del male”. Era sufficiente il darwinismo sociale e la rigorosa limitazione del welfare a favore del processo di accumulazione a garantire quell’equilibrio a spese delle fasce più disagiate della popolazione statunitense. In questa partita sono i più forti a vincere senza nemmeno eccessivi timori di indebitarsi. L’egemonia militare costa, certo, ma poi serve anche a tenere a bada i creditori.

Di ogni corsa al riarmo si può dire, anche riferendosi all’ambito delle democrazie parlamentari occidentali, che essa tende ad allargare il divario tra economie forti ed economie deboli esposte, queste ultime, a fattori di instabilità, alla crescita ulteriore delle diseguaglianze interne e quindi alla tentazione di superare squilibri e contraddizioni attraverso una restrizione della democrazia. Compensazioni di carattere ideologico e patriottico ai sacrifici non sembrano oggi abbondare, nonostante una narrazione che agita sempre più istericamente lo spauracchio di una guerra, possibilmente convenzionale ma non si sa mai, nell’intero Vecchio continente.

Il riarmo è un pozzo senza fondo, un piatto in continuo rilancio. Ci si guarda bene dall’andare a vedere perché farlo significherebbe dar fuoco alle polveri. Così i meno solidi precipitano verso il fallimento. La Bundeswehr ha già fatto sapere che i 100 straordinari miliardi di euro stanziati dal governo di Berlino per rafforzare l’esercito tedesco sono di fatto già tutti impegnati. Ne servono altri, molti di più se si vuole avere, come insiste il ministro della difesa Boris Pistorius, un potente esercito adeguato al combattimento. Una volta il termine lessicalmente appropriato a una siffatta forza armata era quello assunto nel 1935 di Wehrmacht.

Se da ogni parte si enfatizza l’urgenza di riarmare massicciamente i paesi europei, le resistenze a mettere in comune i costi di questa corsa alle armi restano decisamente tenaci, inversamente proporzionali ai toni angosciati dell’allarme. Con tutta evidenza l’incremento massiccio della spesa militare fa a pugni con l’impianto rigorista dell’architettura dell’Unione, a meno di sottoporre i cittadini europei, e soprattutto quelli del sud indebitato, a un feroce regime di austerità, che consenta di pagare le armi senza rinunciare alla difesa della rendita finanziaria.

Non è un caso che Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione in cerca del bis, abbia inaugurato ad Atene la sua campagna elettorale tutta incentrata su un’Europa che deve prepararsi alla guerra, lodando e indicando come esempio il paese, già dissanguato dalla Troika e poi tornato nelle mani della destra, per il suo attuale zelo nell’incremento della spesa militare. Un esempio che più agghiacciante non potrebbe essere.

Fatte le debite proporzioni, per alcuni paesi europei (anche se tutti avranno qualcosa da perdere) la corsa al riarmo avrà sulle economie e sui livelli di benessere effetti pesantemente depressivi analoghi a quelli che contribuirono al declino dell’Urss. Ed è nei confronti degli Usa, soprattutto, che l’Europa non ne uscirà emancipata e più unita, ma ancora una volta indebolita e subalterna.

Vi è un modo di contrastare questa deriva? Di contrastare non solo l’eventualità effettiva di una guerra, ma anche il ridisegnarsi e rattrappirsi dell’Europa intorno a questa eventualità, intorno alla prepotente tirannia di una minacciosa proiezione? C’è un argomento morale, certamente. Ma c’è anche il rifiuto di spostare le risorse “dal burro ai cannoni”, di ridimensionare il welfare, e c’è la volontà di difendere il benessere conseguito, i redditi, le prestazioni sociali, le libertà individuali.

E se fosse, allora, una potente ondata di lotte sindacali a sottrarre all’economia di guerra le sue basi materiali oltre ai suoi orpelli ideologici? A favore del più nobile di tutti gli egoismi: quello della buona vita per tutti e per ognuno. Il più immediato e comprensibile antidoto contro la guerra.

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