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Come Giorgia Meloni finge di non essere fascista grazie alla strategia social
Mattia Madonia 01/06/2020
Pochi anni fa Fratelli d’Italia era il partito dei saluti romani di La Russa e della testa in legno del Duce orgogliosamente conservata da Daniela Santanchè sul comodino. Erano i figli del Movimento sociale italiano e di Almirante, non abbastanza spavaldi da presentarsi a Predappio per le commemorazioni su Mussolini, ma sempre puntuali nell’attaccare la ricorrenza del 25 aprile. Adesso la creatura di Giorgia Meloni sfiora il 22% nei sondaggi. Lo ha fatto, raggruppando i nostalgici della destra più o meno estrema e un’ondata di nuovi simpatizzanti che seguono la viralità della Giorgia nazionale, spesso senza rendersi conto di appoggiare ideali neofascisti.
Come Giorgia meloni finge di non essere fascista grazie alla strategia social
Mattia Madonia 01/806/2020
Per arrivare a questi risultati è stato necessario un lavoro di cesello sulla sua comunicazione. L’estrema destra in Italia basa infatti la sua esperienza, e spesso la sua sopravvivenza, sulla prospettiva da cui viene osservata. Gli ideali possono essere delegittimati se non attecchiscono nel tessuto politico e sociale, e sdoganati se vengono all’apparenza edulcorati, anche se nella sostanza restano identici. Per differenziare Fratelli d’Italia da CasaPound, per esempio, bisognava mascherare certe ideologie con un’impostazione pop della sua propaganda. Il leader di riferimento si presta bene: Meloni è la classica persona di estrema destra che passa l’intera carriera a fingere di non esserlo. I media assecondano la sua strategia, dipingendola come una nazionalista all’acqua di rose, una sorridente popolana che sta dalla parte della gente, una mamma. Pazienza se questa madre porta avanti posizioni xenofobe e retrograde: basta pronunciare un Dio, patria e famiglia e passa la paura.
Giorgia Meloni è diventata Giorgia Meloni attuando la stessa strategia di Matteo Salvini: capire anni prima degli altri partiti italiani l’importanza di affidarsi a un buon social media manager. Il leader leghista ha costruito la sua fortuna politica seguendo i dettami della Bestia, con Luca Morisi nei panni dello spin doctor, del factotum e allo stesso tempo dello statista da Facebook. Meloni ha deciso allo stesso modo di stravolgere la comunicazione di Fratelli d’Italia – e la sua immagine – affidandosi a Tommaso Longobardi, web influencer nemmeno trentenne che ha militato in Nazione futura e Gioventù nazionale prima di accettare nel 2018 di diventare la Bestia di Giorgia Meloni.
Chi si occupa della comunicazione ha un ruolo di punta nel panorama politico, e non a caso lo stipendio di Rocco Casalino supera quello del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Longobardi non ha un curriculum di grande rilievo: sostanzialmente realizzava meme su Facebook per alcune pagine sovraniste. Per lui parlano più i risultati: la trasformazione social di Meloni ha portato il suo partito a tallonare il M5S nei sondaggi. Nel 2019 è cresciuta del 140% nella visibilità su Facebook, sfiorando quattro milioni di interazioni al mese, al secondo posto tra i politici italiani dietro Salvini. Longobardi, che ha lavorato un anno per la Casaleggio Associati, è riuscito a far coesistere nella stessa narrazione i gattini e i barconi da affondare, i buongiornissimi-caffè e la xenofobia. E gli italiani hanno gradito.
Se Morisi ha bonificato il passato di Salvini, cancellando l’odio verso il Sud e le mire secessioniste, Longobardi ha cercato di mettere un velo sul “rapporto sereno col fascismo” di Meloni. Allo stesso tempo non si poteva perdere il precedente elettorato di riferimento, e così Meloni non ha mai smesso di strizzare l’occhio alle frange più estreme della destra. In questo modo Fratelli d’Italia ha potuto candidare il nipote di Mussolini alle ultime elezioni Europee, ma gli italiani si sono tranquillizzati perchè Meloni su Facebook non ha mai smesso di postare foto di prodotti gastronomici. È questo il segreto del successo di Fratelli d’Italia, che con la mediaticità della sua leader maschera una verità fuori discussione: il partito conserva la stessa matrice di CasaPound.
Fratelli d’Italia ha un programma politico simile a quello di CasaPound. Il primo punto del manifesto dei tartarugati si intitola “Uscire dall’Euro” e fa leva su alcuni spunti come l’abbandono della moneta unica europea e la nazionalizzazione della Banca d’Italia. Nel 2014, durante il primo discorso dopo l’elezione a presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha deciso di porre l’attenzione proprio su questo argomento, dichiarando: “Lo diciamo alla sorda Germania, l’Italia deve uscire dall’Euro”. Ha inoltre più volte proposto la nazionalizzazione della Banca d’Italia. Sia CasaPound che FdI parlano di queste proposte economiche riallacciandosi alla narrazione della sovranità popolare minata dal nemico Europa, spingendo sul patriottismo e sul concetto di una non meglio definita identità di popolo.
Anche il paragrafo dedicato all’immigrazione nel programma di CasaPound sembra scritto da Giorgia Meloni: stop immigrazione, no Ius soli, rimpatrio. Qui si notano addirittura le ripetizioni degli slogan, con una scelta dello stesso lessico: Meloni dice che “La cittadinanza italiana non può e non deve essere mai un automatismo”, mentre CasaPound ribadisce che bisogna “Scongiurare qualsiasi automatismo nell’acquisizione della cittadinanza italiana”. Fratelli d’Italia e CasaPound sono sullo stesso piano anche quando si parla di legittima difesa, di potenziamento militare per armi e difesa, di ripristino della leva obbligatoria e di tutte quelle tematiche riconducibili alla forza militare di una nazione, che in Italia sono diventate un appannaggio storico dei partiti di destra.
Ma è soprattutto il fascismo intrinseco ad accomunare queste due forze politiche, con Meloni che riesce a controllarsi e a dosare le parole, a differenza di molti rappresentanti del suo partito. Francesco Minutillo, all’epoca coordinatore provinciale di Fratelli d’Italia, è arrivato a scrivere su Facebook testuali parole dopo l’attentato di Nizza del 14 luglio 2016: “Mentre i cani islamici ci uccidono e ci sterminano, noi pensiamo a fare leggi perché i froci si possano sposare e ci scandalizziamo se un negro viene accoppato dopo aver aggredito un italiano. Che paese di merda! Servono nuove leggi razziali a tutela della cristianità. Ma gli italiani popolo bue non lo faranno anche per colpa della nostra schifosa costituzione scritta dai maiali partigiani. Che venga lo zio Adolfo a fare più ordine”. Minutillo è stato sospeso dal partito pochi giorni dopo, ma è stato promosso alla dirigenza nazionale appena si sono calmate le acque.
Episodi simili sono all’ordine del giorno tra le fila di Fratelli d’Italia. Nel novembre 2019 Francesco Stefanetti, commissario di Fratelli d’Italia a San Severo, ha scritto all’indirizzo della senatrice a vita Liliana Segre: “Ma chi se la incula?”. Giuseppe Cannata, consigliere di Fratelli d’Italia a Vercelli, ha commentato un post su Facebook del senatore Simone Pillon con un emblematico “Ammazzateli tutti ste lesbiche, gay e pedofili”. Loris Corradi, altro esponente del partito di Giorgia Meloni, si è presentato a una festa in piazza con la maglietta “Se non puoi sedurla, puoi sedarla”. La dirigenza nazionale di Fratelli d’Italia passa il tempo a prendere le distanze dai suoi stessi esponenti, ma è evidente che non si tratti di incidenti isolati, ma di un sentire comune all’interno della base del partito. Non si può quindi liquidare come una goliardata l’iniziativa di diversi membri di Fratelli d’Italia, che hanno organizzato una cena dedicata a Mussolini a pochi chilometri da Pozza Umito, paesino delle Marche dove nel 1944 le forze nazifasciste hanno trucidato 44 persone, compresa una bambina di cinque anni. Dai vertici possono continuare a condannare questi gesti, ma la realtà è che si tratta del tratto distintivo di un partito che cavalca il sovranismo di Steve Bannon e la nostalgia dei fascisti irriducibili, unendo il peggio di passato e presente.
Eccolo il successo di Tommaso Longobardi, l’uomo che è riuscito a istituzionalizzare Fratelli d’Italia. Oggi Meloni è tra i politici che appaiono di più in televisione e tra quelli con il maggior seguito social, anche perché quasi nessun giornalista o conduttore televisivo ha mai ammesso la pericolosa vicinanza tra Fratelli d’Italia e le frange neofasciste italiane. Viene quindi da chiedersi come sia possibile che l’esistenza di un’estrema destra venga tollerata, e quella dei suoi fratellastri apparentemente no, almeno a livello formale. Buona parte della risposta è nel potere dei social, nella comunicazione che tende a disorientare gli elettori, mettendo sullo stesso piano la foto di un piatto rigorosamente made in Italy e un link complottista, un consiglio da mamma premurosa e una dichiarazione in cui, nel mezzo di una pandemia, l’ex Presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stato definito un criminale. Ascoltando la hit Io sono Giorgia si potrebbe fare l’errore di considerare lei e i suoi elettori come un fenomeno folkloristico, dei reazionari arrabbiati ma sostanzialmente innocui. Un errore di valutazione che l’opinione pubblica italiana ha già fatto un secolo fa e ha gettato il Paese in vent’anni di fascismo e nella Seconda guerra mondiale.
FINGERSI VITTIME. La strategia del governo Meloni peer sviare la nostra attenzione dai suoi errori
Mattia Madonia 27/03/2023
Giorgia Meloni, con qualche mese di ritardo, si è accorta di essere Presidente del Consiglio e non più urlatrice d’opposizione. Al primo question time da premier alla Camera, la settimana scorsa, abbiamo assistito a una manifestazione della sindrome di Calimero, ovvero quel vittimismo di chi non è in grado di affrontare gli eventi e le difficoltà del ruolo che ricopre. Umberto Eco diceva che “Una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari”. Se Meloni nei primi mesi di governo aveva gioco facile, con un PD senza guida e amorfo e un Movimento Cinque Stelle interessato soprattutto a perorare la causa russa per la resa dell’Ucraina, l’arrivo di Elly Schlein ha rinvigorito l’opposizione e costretto la premier al gioco dello scaricabarile. “È colpa dei precedenti governi”, “Tutti mi attaccano” e l’intero corollario di frasi di chi pretende di insegnare all’opposizione come fare il proprio mestiere, dopo aver fatto la fortuna proprio in quel territorio. Nessuna assunzione di responsabilità per gli errori del governo: trincerarsi nel ruolo di vittima è più comodo e genera nei propri sostenitori un moto di protezione verso il leader di riferimento. È da sempre il modus operandi della destra in tutto il mondo, e purtroppo funziona.In Italia, Silvio Berlusconi è l’esempio più calzante. Ha infatti fondato la sua carriera dipingendosi come vittima della magistratura. Anche di fronte a una condanna in via definitiva per frode fiscale, l’iter è sempre stato lo stesso: creare nemici immaginari – le “toghe rosse” – per deresponsabilizzarsi e passare come un martire. Perché è sempre colpa degli altri, che siano i poteri forti, i migranti, le banche, l’Europa oppure Soros. All’estero d’altronde l’andazzo non è dissimile. Donald Trump usa l’immagine da perseguitato per aizzare i suoi sostenitori addirittura contro le istituzioni. Ha fatto credere di essere vittima di brogli – senza prove – quando perse alle elezioni contro Joe Biden, causando l’assalto a Capitol Hill. In questi giorni è tornato al “chiagni e fotti” spettacolarizzando le sue vicende giudiziarie, arrivando persino a organizzare il suo arresto come se fosse uno show. È la prepotenza dei leader che si reggono sul culto della personalità autoimposto, come Bolsonaro che fugge dal Brasile – anche lui con l’aura da vittima – e da remoto indirizza gli umori del popolo contro Lula e le istituzioni brasiliane, o come Putin che ha invaso una nazione lasciando credere di essere accerchiato dalla NATO, con la Russia in pericolo di non si sa cosa. Meloni, in risposta alle critiche per il suo operato, ha detto che “Si può fare opposizione politica senza dipingere gli avversari come mostri” e che il limite è “Non danneggiare l’Italia”. Stiamo parlando della stessa politica che parlava di dittatura sanitaria durante la pandemia e che ha fondato la sua ascesa sulle critiche feroci e spesso disfattiste a varie istituzioni. Ora chiede di non sporcare l’immagine dell’Italia all’estero, ma dall’opposizione definiva l’Unione Europea “un comitato di usurai”. Se adesso parla di sciacallaggio in riferimento agli attacchi per la gestione prima, durante e dopo la tragedia di Cutro, nel 2015 era la prima a chiedere per Matteo Renzi, all’epoca Presidente del Consiglio, un’indagine per reato di strage colposa in seguito a un naufragio nel Canale di Sicilia che costò la vita a centinaia di persone. È un’ipocrisia che suona stridente ma che nel Paese dalla memoria a breve termine alla fine paga. E così, inscenare un accerchiamento e mettersi nella posizione da “sola contro tutti” conferisce a Meloni lo status da intoccabile, almeno per i suoi sostenitori, che i suoi stessi antenati e maestri politici hanno sperimentato. Il MSI di Almirante si sentiva emarginato, quasi una vittima esclusa dal potere, per non aver partecipato alla costruzione democratica della Repubblica, mentre i comunisti che hanno scritto la Costituzione sì, dimenticando evidentemente la natura antifascista postbellica e la grazia ricevuta per non aver mai avuto una Norimberga italiana. Lo stesso Mussolini agì in più occasioni usando la strategia della vittima, come quando la Società delle Nazioni sanzionò l’Italia in seguito alle barbarie in Etiopia. Questo portò i cittadini a sentirsi essi stessi vittime, giustificando dunque l’operato di un dittatore. Nel saggio Critica della vittima del professore ordinario di Lettere e Filosofia Daniele Giglioli, viene analizzata proprio la figura della vittima e la sua “sintomatologia”, che la eleva quasi a eroe del nostro tempo. Per Giglioli, il leader che si atteggia a vittima impone ai suoi sostenitori e ai suoi alleati “un patto affettivo, un’identificazione attraverso la leva potente del risentimento”. Quando questi si accorgono che i progetti non stanno andando in porto, “è necessario creare un ostacolo, un estraneo da espellere, un nemico di cui dichiararsi vittime”. Per Meloni può essere l’Europa che non contribuisce alla redistribuzione dei migranti, quando invece l’Italia è uno degli Stati dell’Unione Europea ad accogliere meno richiedenti asilo. Serve insomma un diversivo per distrarre, per non far ricordare le aberranti promesse fatte in campagna elettorale – il fantomatico blocco navale – e cancellare i dati reali, ovvero gli sbarchi triplicati rispetto all’anno precedente. Il saggio di Giglioli delinea la figura del leader-vittima attraverso un tacito manifesto: “Io sono insindacabile, al di sopra di ogni critica, signore e padrone del vostro sguardo e delle vostre parole. Non a tutti gli enunciati possibili avete diritto: solo a quelli a me favorevoli, pena la vostra degradazione a carnefici”. E così, per Meloni, chi osa criticarla diventa automaticamente un nemico della nazione, qualcuno che vuole screditare l’intero Paese quando invece viene contestato il modo di agire del governo. Giglioli lo chiama “rancore vittimario dei vincenti” e fa la distinzione tra vittima reale e vittima immaginaria. Quella reale è tale perché impotente, mentre quella immaginaria inscena l’impotenza come condizione di cui è per diritto “proprietaria inalienabile”. La destra pretende l’alibi, addirittura il compatimento, per occultare le sue falle e far credere che siano i suoi nemici – l’opposizione – il reale pericolo per la nazione, in quanto “remano contro”, cioè quello che per sua natura dovrebbe fare qualsiasi forza d’opposizione, soprattutto di fronte a un esecutivo deficitario, che non va incontro alle esigenze dei cittadini.
Il famoso giornalista e scrittore Roberto Gervaso, scomparso nel 2020, scriveva che “il vittimismo è un modo di sbarcar il lunario col piagnisteo”. È la più semplice delle giustificazioni e permette di saltare l’espiazione senza rendersi nemmeno conto della colpa. I mezzi usati per attuare questo processo sono spesso quelli messi in atto quando si stava dall’altra parte della barricata, ma ribaltati. Per esempio, Meloni all’opposizione rivendicava di essere una madre come ruolo di forza e responsabilità, mentre adesso, sollecitata alla Camera da Schlein, ha risposto alle critiche sulla tragedia di Cutro usando quello stesso espediente (“Sono una madre, su Cutro ho la coscienza a posto”) come arma di difesa e non più come ariete per sfondare le porte del potere. Non è più la madre urlatrice in piazza con le vene del collo ingrossate: è la madre che assolve i figli che hanno commesso un errore – Piantedosi e i suoi colleghi – e persino sé stessa. Diventa così incriticabile perché una vittima lo è per accezione intrinseca anche di fronte alle peggiori malefatte, che anzi si permette di perpetrare riparandosi dietro lo scudo del vittimismo. Meloni non ha nemmeno l’attenuante di un passato da vittima vera: si atteggia come tale solo per mascherare le lacune di chi è arrivato al potere sfruttando la rabbia mista a rassegnazione dei cittadini esausti dopo le crisi degli ultimi anni, e ora non sa come replicare a chi le sbatte in faccia la realtà. Calimero, però, può far tenerezza i primi tempi, definendo “un’ingiustizia” qualsiasi ostacolo lungo il proprio cammino, ma a lungo termine ci sarà inevitabilmente lo svelamento della vittima immaginaria. Quando la luna di miele con gli italiani finirà, Meloni dovrà dar conto delle promesse non mantenute, dei tentativi di cancellare del tutto i già fragili diritti delle minoranze e di un Paese che sembra viaggiare con la retromarcia, senza mai andare avanti. A quel punto il vittimismo non basterà più, i nemici immaginari evaporeranno e resterà solo l’incapacità di gestire una nazione, e la responsabilità non sarà di nessun altro.
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