I SOCIAL SONO UN DIRITTO COME LE PIAZZE: SERVE PIÙ ISTRUZIONE da IL FATTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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I SOCIAL SONO UN DIRITTO COME LE PIAZZE: SERVE PIÙ ISTRUZIONE da IL FATTO

I social sono un diritto come le piazze: serve più istruzione

Francescomaria Tedesco  25 Gennaio 2025

Qualche anno fa gli amici della battagliera rivista La Fionda mi chiesero di collaborare a un loro numero, cosa che feci con un piccolo saggio in cui partivo da una domanda, che qui vorrei rievocare, dal momento che mi pare tornata di una certa attualità. Poco tempo prima l’allora Twitter aveva dato il ban al presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Twitter non era ancora di Elon Musk, che lo avrebbe acquistato (ribattezzandolo X). Qualche giorno fa, Mark Zuckerberg ha annunciato che rimuoverà il fact checking dalle piattaforme Meta. Ma ecco la domanda: i social sono privati o pubblici? Apparentemente, la risposta è banale: privati! Sottoscrivi un contratto (un po’ capestro), e se non lo rispetti secondo la proprietà, vieni sbattuto fuori.

Ma così è troppo banale: Internet è un ‘luogo’ regolato dal diritto civile, ma è anche un posto dove i diritti politici sono ormai al centro. In Italia, diversi anni fa Stefano Rodotà aveva proposto la costituzionalizzazione dell’accesso a Internet, ovvero l’inserimento di un art. 21-bis nella Carta che recitasse: “Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in condizione di parità, con modalità tecnologicamente adeguate e che rimuovano ogni ostacolo di ordine economico e sociale”. La questione è rovesciata: non come bloccare la possibilità di accedere a uno spazio pubblico, ma come consentire a ciascuno di esercitare i propri diritti lì come in altre ‘piazze’. Il punto è che social, piattaforme, siti, costituiscono spesso poteri politici ed economici pari se non superiori a moltissimi Stati. E non sono riducibili a un territorio e a una popolazione. Esercitano una ‘giurisdizione globale’ di fatto sui loro utenti. Essi si sottraggono alla dicotomia pubblico-privato, dal momento che sono sì imprese private, ma con una decisiva dimensione pubblicistica. Sempre Rodotà ha collegato le piattaforme a quella sorta di tertium genus costituito dai ‘beni comuni’. Internet come l’acqua, ha sostenuto Vinton Cerf, uno dei ‘padri’ della Rete. Le piattaforme sono un coacervo di pubblico e privato, e non è sufficiente il rispetto dei contratti, ma occorre che vi siano delle regole ‘costituzionali’ proprie di questi soggetti, che regolino l’accesso, il contenzioso, e in generale la tutela dei diritti legati al loro uso. Di fatto, queste regole ‘costituzionali’ globali i gestori le hanno già, ma se le sono date da soli (come la lex mercatoria è la ‘costituzione’ degli affari che le imprese si sono date da sé a livello globale). Questo vuol dire che in tali luoghi vige il diritto di controllare i contenuti? Al contrario, si tratta di sottolineare come tale controllo sia stato utilizzato al fine di censurare il dissenso e diffondere false notizie, o di mettere sul binario morto della non-decisione alcune questioni politiche deliberatamente oscurate dai social.

Proprio come nelle piazze ‘reali’, in cui il dissenso è sempre più difficile e le opinioni dissonanti bollate come eversive, populiste, etc. E allora di fronte a questo uso del controllo meglio il controllo del lettore. Rimane la questione di capire quanto un lettore instupidito anche da quelle stesse falsità che gli sono state ammannite sia in grado, da solo, di valutare. Userei l’espressione di Aldous Huxley habeas mentem. E non si tratta di paternalismo, e dirlo non necessariamente significa aderire all’idea che tutto ciò che pensa il popolo è da considerarsi idiota perché così si può meglio liquidare la sua volontà in nome della tanto invocata (dalle élite) epistocrazia, ovvero il diritto naturale dei sedicenti sapienti a governare. Si tratta semmai di rimettere al centro un altro dei valori costituzionali sempre più vilipeso e deriso, l’istruzione. Perché è solo attraverso essa che si rimuovono gli ostacoli di ordine cognitivo e gli uomini e le donne non hanno bisogno di chi selezioni per loro la Verità.

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