“I PAPOCCHI” da IL MANIFESTO
La “madre di tutte le riforme” ultima figlia delle schiforme
SOTTOSOPRA* 9 NOVEMBRE 2023
La madre di tutte le riforme, dicono gongolando i nipoti di quelli che una volta erano fuori dall’arco costituzionale per manifesta eversività e che oggi si trovano a riscriverla, la Costituzione. Senza togliere loro i meriti di una proposta oscena e irricevibile sul premierato, tocca smentirli e fare chiarezza: più che essere madre, questa proposta è figlia di tutte le riforme. È, cioè, l’ultimo ed estremo passaggio di un processo di devastazione dello Stato, delle sue istituzioni e del suo ordinamento che si è consumato nell’arco di un trentennio, sotto praticamente ogni governo, in un’erosione costante della democrazia e della dialettica che la deve tenere in piedi, delle sue articolazioni territoriali, delle regole della rappresentatività.
Se Giorgia Meloni può oggi pensare di proporre con nonchalance l’autoritarismo come forma di governo – meglio detto: di comando – è grazie a quello che abbiamo trangugiato sull’altare dello spirito del tempo, in un crescendo di distorsioni che non si possono considerare l’una slegata dall’altra. A partire dall’abolizione del sistema elettorale proporzionale in favore del maggioritario, in nome del bipolarismo e dei nuovi valori assoluti incarnati nella governabilità e nella stabilità. È lecito chiedersi cosa significhino veramente, se decenni dopo siamo ancora a discuterne, con proposte sempre più intollerabili e una democrazia sempre più “decidente”, per non dire escludente, mentre il principio della rappresentatività su cui si basa formalmente la Repubblica è stato spazzato via nella pratica materiale. Parlino per tutti i listini bloccati, cioè l’eliminazione del diritto dei cittadini di scegliere chi eleggere, esempio fulgido di come risolvere un problema reale – il voto di scambio – si sia deciso senza indugi di limare le previsioni costituzionali.
Con sgomento, abbiamo assistito al varo di leggi elettorali sempre più distorsive dell’equilibrio del potere – un’alterazione che oggi il governo vorrebbe cristallizzare proprio in Costituzione – leggi di cui gli stessi proponenti hanno talvolta sentito la sfrontatezza (il “Porcellum” di Calderoli), senza che questo li trattenesse dall’apporvi la firma. D’altronde, la stessa funzione del Parlamento, prima di essere ridotto a “votificio” come ormai universalmente riconosciuto, era stata minata proprio dalla riforma dei regolamenti delle Camere e dello statuto dell’opposizione promossi dall’allora presidente Violante: se l’intenzione dichiarata era riordinare un quadro reso complesso da nuove fonti di diritto e da nuovi strumenti legislativi, l’effetto è stato rendere l’Aula qualcosa di simile a un vigile urbano che dirige mestamente il traffico, mentre l’opposizione è ingabbiata in formule e modalità di alcuna efficacia. Si potrebbe continuare nell’excursus, con scelte imposte dall’alto ed errori a ogni tornante, dall’abolizione delle circoscrizioni di media entità (a proposito del legame tra rappresentanti e rappresentati) a quella delle province, fino ad arrivare a tempi recenti, con il mostro dell’autonomia differenziata, sigillo definitivo della disarticolazione dello Stato e dello smantellamento dei principi di uguaglianza sanciti dalla Costituzione.
C’è poco da sorprendersi, allora, se oggi Giorgia Meloni e i suoi possono reclamare un plebiscitarismo antiparlamentare vendendolo come rafforzamento della volontà dei cittadini, nell’ultimo (per ora) passaggio della de-democratizzazione del Paese: il percorso è stato lungo e accuratamente preparato. Toccherà mobilitarsi ancora una volta, prima che la devastazione sia irreversibile, impedendo questa “figlia di tutte le riforme”. Tenendo però a mente che serve ragionare anche sulle madri, per evitare davvero il precipizio.
Per il Forum Disuguaglianze Diversità
Sull’Albania Meloni salta il parlamento. Opposizioni in rivolta
BALCANI DA GUARDIA. Il ministro Ciriani: «Non è necessario» un passaggio alle Camere» Schlein: «Sanno che l’accordo vìola il diritto internazionale»
Leo Lancari 09/11/2023
Ormai Italia e Albania sembrano voler procedere di pari passo per quanto riguarda l’accordo sui migranti siglato tra la premier Giorgia Meloni e l’omologo Edi Rama, entrambi decisi a stringere al massimo i tempi della sua attuazione. E così, come sembra ormai escluso che il parlamento del paese delle Aquile potrà discutere l’intesa siglata lunedì a Roma, lo stesso non potranno fare le Camere italiane. «Non è necessario», ha spiegato ieri il ministro per i rapporti con il parlamento Luca Ciriani. «C’è già un accordo internazionale che regola la materia, questo è un trattato di collaborazione rafforzata tra Italia e Albania in tema di immigrazione che è già previsto dagli accordi sottoscritti e ratificati precedentemente, uno del 1995 e l’altro del 2017». Dunque si va avanti senza ulteriori discussioni.
Una spiegazione che non convince però le opposizioni, più che mai decise a dare battaglia . Il primo a reagire è Benedetto Della Vedova: «Non è accettabile», dice il deputato di +Europa commentando quanto comunicato di Ciriani. «Meloni non scappi, dispone di una solida maggioranza quindi affronti l’iter parlamentare. Quella annunciata da Ciriani sarebbe una forzatura incomprensibile e pericolosa». A ruota M5S, Verdi e Sinistra e Pd chiedono al ministro di riferire in parlamento. E’ qui che si discutono gli accordi internazionali, ricorda la segretaria del Pd Elly Schlein, «forse non lo fanno perché sanno già che viola il diritto internazionale, viola l’articolo 10 della Costituzione». La questione diventa oggetto di una riunione dei capigruppo della camera che si tiene a tarda sera.
INTANTO MELONI cerca di ricucire il rapporto con gli alleati. Palazzo Chigi bolla come fantasiose» le ricostruzioni secondo le quali l’accordo siglato con Rama sarebbe stato deciso all’insaputa di Forza Italia e Lega e soprattutto dei suoi ministri. «Fin dall’inizio – è la versione ufficiale utile a far tacere il malumori interni alla maggioranza – c’è stato «il pieno coinvolgimento dei due vicepremier Salvini e Tajani e l’intesa è stata costruita passo dopo passo con la totale collaborazione dei ministri coinvolti, a partire dai ministri di Interno, Esteri e Giustizia». Proprio quest’ultimo ieri è intervenuto per blindare l’intesa: «Io spero – ha detto infatti Nordio – che eventuali pronunce della magistratura n on vanifichino la futura operatività dell’accordo».
DIVERSI I PUNTI sui quali per le opposizioni sarebbe necessaria una maggiore chiarezza, a partire da chi esaminerà le richieste di asilo a chi e come esaminerà gli eventuali ricorsi. Ma anche, e non è un particolare secondario, a come si arriverà a dichiarare extraterritoriali le strutture in Albania nelle quali verranno rinchiusi i migranti. Questioni che fanno parte dei chiarimenti richiesti da Bruxelles da quando il contenuto dell’intesa sui migranti è stata reso noto. Ma che almeno per ora non sembrano preoccupare più di tanto le istituzioni europee, in passato capaci di usare toni ben più decisi – quando si è affrontato il dossier migranti – rispetto a quelli a dir poco prudenti sentiti fino a ieri. Come dimostrano le dichiarazioni rese ieri dal commissario Ue all’Allargamento Oliver Varhelyi, che ha definito «interessante» il «modello» proposto dall’accordo con l’Albania.
Chi non fa sconti è invece la chiesa. Per il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, l’accordo Italia-Albania altro no è che «un’ammissione di non essere in grado» di gestire l’immigrazione. «Non si capisce perché non venga sistemata meglio l’accoglienza qui». Ancora più dure il presidente della Fondazione Migrantes, monsignor Gian Carlo Perego, per il quale far sbarcare i migranti in Albania è «un progetto che davvero disonora l’Italia».
Ma il tema fa discute anche fuori dai confini nazionali. L’Alto commissario della Nazioni unite per i rifugiati, Cate Blanchett, definisce la decisione di esternalizzare la gestione dei migrati una «politica inefficace e disumana».
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