GOLPE: CI RIPROVANO! da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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GOLPE: CI RIPROVANO! da IL MANIFESTO

La terza Repubblica come pericolosa arma di distrazione

RIFORME. Tanto tuonò che (forse) pioverà. Si annuncia il premierato. Meloni celebra l’arrivo della III Repubblica. Si conferma che le riforme sono l’arma di distrazione di massa di una maggioranza clamorosamente […]

Massimo Villone  31/10/2023

Tanto tuonò che (forse) pioverà. Si annuncia il premierato. Meloni celebra l’arrivo della III Repubblica. Si conferma che le riforme sono l’arma di distrazione di massa di una maggioranza clamorosamente incapace di realizzare le promesse elettorali.

Meloni accelera, per non lasciare ancora nel cassetto la parte del disegno riformatore ascrivibile a lei.
Bisogna capirla. L’autonomia differenziata avanza di buon passo. La prima commissione del senato è giunta all’articolo 7 (su 10). Si disegna un paese arlecchino e instabile, come ad esempio emerge dalla discussione relativa alle leggi statali «cedevoli» al momento dell’entrata in vigore di norme regionali susseguenti all’intesa della regione con lo stato, o da quella concernente una possibile cessazione dell’intesa.

Al tempo stesso, la maggioranza blocca gli emendamenti delle opposizioni volti a far emergere costi e sostenibilità dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep). Nel complesso, non si fa alcuna luce sulle criticità che le opposizioni fanno emergere. Eventuali chiarimenti sono rinviati a futura memoria: una (nuova) audizione di Cassese, presidente del Clep (Comitato per i livelli essenziali delle prestazioni), di Giorgetti, un approfondimento della lettera del governatore Bankitalia Visco.

Essendo un collegato, il disegno di legge Calderoli può essere trattato anche in sessione di bilancio, e come legge ordinaria non richiede una doppia lettura. Con l’approvazione in senato, il più è fatto. Un referendum abrogativo ex articolo 75 della Costituzione rischia l’inammissibilità per la natura di collegato, e comunque richiede 500mila firme – oggi una montagna – o cinque consigli regionali, parimenti difficili da trovare. Meloni deve aver visto la possibilità che nel giro di pochi mesi giungano alla sua firma prime proposte di intesa con alcune regioni.

Potrebbe mai Meloni consentirlo con il premierato a zero? No, soprattutto quando i sondaggi dicono che l’autonomia differenziata non piace affatto al Sud, dove il suo partito ha uno storico insediamento. Di fronte all’urgenza conta poco l’indiscutibile stravolgimento della Costituzione. A quanto si sa, la proposta tocca gli articoli 88, 92 e 94 della Costituzione. Vale a dire, si riducono sostanzialmente o si azzerano i poteri del capo dello stato nella nomina del premier e dei ministri, e nello scioglimento anticipato. Si sottrae alle camere il rapporto fiduciario, andando verso il simul stabunt simul cadent adottato a livello regionale, con le stesse conseguenze di marginalizzazione delle assemblee elettive. Soprattutto nell’ipotesi sia costituzionalizzato un sistema elettorale maggioritario con premio al 55%.

Non migliora le cose la famigerata norma antiribaltone, volta a preservare la maggioranza uscita dalle elezioni. Anzi. Santo Graal della destra dal primo Berlusconi, fatalmente consegnerà a ogni partner di governo o anche a manipoli di guastatori parlamentari l’arma di ricatto dello scioglimento. L’esatto contrario di stabilità e governabilità.

Verrebbe dallo stravolgimento della Costituzione un paese meglio e più governato? No. La prova è data dal parto faticoso della legge di bilancio. Nulla cambierebbe con Giorgia Meloni a palazzo Chigi come premier eletto, perché precarietà e debolezze non vengono dal rapporto con il parlamento o il capo dello stato – marginalizzati da qualsiasi premierato – ma dalle turbolenze interne alla coalizione, e nella specie dalla competizione con il socio leghista, che rimarrebbe tal quale.

Quindi rifletta Giorgia Meloni. Il premierato – con la doppia lettura e il referendum possibile ( vogliamo ritenere probabile) a richiesta di un quinto di parlamentari ai sensi dell’articolo 138 – non potrà in alcun modo reggere il passo dell’autonomia differenziata, o riequilibrarla. Si frammenta e si indebolisce il paese con una riforma, non si unifica e rafforza con l’altra.
La sinergia è perversa, e l’autonomia differenziata corre. Meloni avrebbe dovuto saperlo.

Se vuole correggere l’errore commesso, e pareggiare al tempo stesso il passo delle riforme, consideri una limatura degli articoli 116.3 e 117 della Costituzione. Presso la prima commissione del senato c’è un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare. L’abbiamo presentato con oltre centomila firme, per difendere l’eguaglianza, i diritti e l’unità del paese. Qui non contano i numeri. La III Repubblica annunciata da Meloni potrebbe rivelarsi per il popolo italiano non un ospitale castello, ma un fatiscente tugurio.

Premier «all’italiana». La destra partorisce il mostro giuridico

COSTITUZIONE. Venerdì il via libera in consiglio dei ministri. Esultano Meloni e soci. No delle opposizioni: «È la tomba della democrazia parlamentare»

Andrea Carugati  31/10/2023

La maggioranza di centrodestra ieri ha partorito un mostro giuridico: l’elezione diretta del premier, formula sconosciuta alle grandi democrazie occidentali, con tanto di maggioranza garantita del 55% nei due rami del Parlamento.

NON SI TRATTA DI presidenzialismo modello Usa, dove il presidente deve farei conti con i numeri e i veti del congresso; e neppure del modello francese, dove le elezioni per l’assemblea nazionale avvengono in data diversa dalle presidenziali e il capo dello Stato non può contare automaticamente su una maggioranza in Parlamento. Si tratta di un Frankenstein all’italiana, una sorta di “sindaco d’Italia”, formula che in passato aveva mietuto consensi anche nel centrosinistra. E non è un caso che Renzi tra le opposizioni sia l’unico ad aver detto di sì.

IERI C’È STATO UN VERTICE di maggioranza a palazzo Chigi, dove si è stabilito che venerdì il consiglio dei ministri darà il via libera alla bozza. A parole i tre partiti di governo sono favorevoli: l’iter inizierà a Montecitorio e il loro obiettivo è arrivare a un primo sì delle due Camere (ne serve un secondo in entrambi i rami del Parlamento) prima delle europee di giugno 2024. Nel dettaglio il disegno di legge costituzionale (composto da 5 articoli) modifica gli articoli 88, 92 e 94 della Costituzione, introducendo l’elezione diretta del premier con un mandato di 5 anni.

Le elezioni politiche avverranno, se il referendum confermerà questa ipotesi, in contemporanea con quella del premier, con una scheda unica. La legge elettorale non viene specificata, ma già si prevede che il premier potrà godere del 55% dei seggi nelle Camere grazie ai parlamentari eletti nelle liste a lui (o lei) collegati. Non è indicato però né il sistema per eleggere il premier (a turno singolo o con ballottaggio), né una soglia minima di voti per il premier e le sue liste per poter accedere al premio di maggioranza.

Il premier dovrà comunque avere la fiducia delle Camere: all’inizio della legislatura potrà provarci fino a due volte, in caso di mancata fiducia il Capo dello Stato, esercitando uno dei pochi poteri che gli rimangono, dovrà procede allo scioglimento del Parlamento. Ma si tratta di un potere molto limitato: il presidente della Repubblica (che non potrà più sciogliere una sola camera) non potrà sperimentare formule diverse di governo con partiti diversi, ma dovrà limitarsi a osservare il doppio tentativo del premier eletto.

SCENARIO SIMILE IN CASO di dimissioni o del venir meno della fiducia al governo. In quel caso il Capo dello Stato potrà o reincaricare il premier dimissionario, o tentare con un parlamentare «eletto in collegamento al premier», il quale dovrà «attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici» su cui il governo dell’eletto aveva chiesto al fiducia. Ieri al vertice le destre hanno deciso che, in caso di dimissioni, il premier potrebbe rivolgersi anche a una maggioranza diversa da quella iniziale; e così anche il suo eventuale sostituto. La norma “anti-ribaltoni” funziona quindi a tutela del premier eletto, non della sua maggioranza.

COME È EVIDENTE, la democrazia parlamentare come la conosciamo finisce. Le destre vogliono un sistema politico in cui le maggioranze siano definite prima del voto, con l’obbligo per i partiti di scegliere un candidato premier da sottoporre al voto. E in cui, in caso di crisi, i poteri del Quirinale si riducano quasi a zero: l’inquilino del Colle non sarà più il regista delle crisi di governo, ma solo un passacarte. Gli resta solo l’incarico di nomina dei ministri, «su proposta del premier». Sparisce anche la possibilità di nominare nuovi senatori a vita. Le norme transitorie all’articolo 5 indicano che la riforma entrerà in vigore al primo scioglimento delle Camere successivo alla data di approvazione. Dunque, se il referendum si terrà tra il 2025 e il 2016, già dalle prossime politiche.

MELONI PARLA DI INIZIO della «Terza repubblica», Salvini esulta: «Niente più governi tecnici, ribaltoni, cambi di maggioranze» Le opposizioni sono sulle barricate. Dal Pd Andrea Giorgis stronca la riforma: «Se il primo ministro viene eletto dai cittadini non viene più nominato dal presidente della Repubblica e legittimato dal Parlamento attraverso la fiducia. La democrazia si riduce alla scelta del capo». Il M5S parla di «un autentico pastrocchio costituzionale», di «avventurismo di dilettanti allo sbaraglio».

Nicola Fratoianni: «Sperano di sviare l’attenzione dalla crisi sociale con una riforma che comprime ulteriormente la democrazia, svuota i poteri del Parlamento, indebolisce il ruolo di garanzia del Presidente della Repubblica». La Cgil con Christan Ferrari boccia la bozza come «un sovvertimento della Carta costituzionale». Riccardo Magi di +Europa la definisce «la tomba della democrazia rappresentativa». E lancia un appello: «Va organizzata una forte opposizione a questo tentativo di trasformare l’Italia nell’Ungheria di Orban».

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