DENEGAZIONE, ALIBI, PREGIUDIZI, VIOLENZA da IL MANIFESTO,
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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DENEGAZIONE, ALIBI, PREGIUDIZI, VIOLENZA da IL MANIFESTO,

Ambiente e questione sociale, gli alibi del dopo Glasgow

Ambiente. Quattro modi per dire no: Soluzioni a metà, enfatizzare i problemi della transizione, arrendersi alla presunta impossibilità di mitigare i cambiamenti climatici

Filippo Barbera  25.11.2021

Nella società contemporanea, il razzismo si esprime nella forma della denegazione: «Io non sono razzista, ma…», scriveva nel 1993 Étienne Balibar ne Le frontiere della democrazia (Manifesto libri). La denegazione è l’espressione linguistica del mancato riconoscimento del desiderio e, come tale, costituisce uno strumento per occultare il rimosso. Serve a non vedere ciò che, se ammesso, ci porrebbe di fronte a domande scomode e a interrogativi che ci rifiutiamo di affrontare.

Attraverso la forma della denegazione, il razzismo diventa senso comune e: si annida tra le pieghe del dato-per-scontato e assume funzioni di legittimazione politico-culturale. Diventa, per così dire, accettabile agli occhi degli altri ed egemonico allo stesso tempo. «Io non sono razzista, ma…». Oggi, la denegazione ambientale si presenta nella stessa forma: «Io non sono contro l’ambiente, ma». Anche in questo caso, la denegazione si nasconde nella trama della vita quotidiana, nei «discorsi da bar» che puntellano la concezione del mondo propria dello status quo, di chi non è interessato a cambiare l’esistente.

Nel Quaderno 24, Antonio Gramsci scriveva che il senso comune è il «folklore della filosofia» e accoglie la concezione del mondo della nuova classe che, di volta in volta, è diventata dirigente e ha sostituito quella che deteneva precedentemente il potere.
La denegazione ambientale si esprime nei cosiddetti «discorsi sul ritardo climatico», cioè in quelle forme di intenzionale e consapevole ritardo dell’azione politica che giustificano le posizioni conservatrici. Quelle posizioni che difendono i compromessi di Glasgow con la bontà o la necessità di azioni minimali o attraverso azioni che dovrebbero anzitutto spettare ad altri e non «a noi». Discorsi, questi, che concentrano l’attenzione sugli effetti sociali negativi delle politiche climatiche radicali, che sollevano dubbi sulle conseguenze positive della mitigazione o che ne mettono in dubbio la possibilità effettiva.

Un gruppo di studiosi di diverse Università europee ha analizzato questi «discorsi» e le relative argomentazioni, individuando quattro macro-categorie: «Proporre soluzioni non trasformative», «enfatizzare gli aspetti negativi della transizione», «reindirizzare la responsabilità» o «arrendersi» alla presunta impossibilità di mitigare i cambiamenti climatici (Lamb, W. E altri (2020). Discourses of climate delay. Global Sustainability, 3, E17. doi:10.1017/sus.2020.13). Quattro insiemi al cui interno si sviluppano dodici tipi di argomenti più specifici e focalizzati.

Così, il soluzionismo tecnologico diventa un modo per negare la necessità di soluzione radicalmente trasformative dell’esistente, tanto «ci penserà la tecnologia»; mentre il re-indirizzamento della responsabilità si esprime in locuzioni come «è inutile agire, tanto gli altri non lo vogliono fare»; e tanto il massimalismo/perfezionismo che il catastrofismo bloccano l’azione possibile qui e ora. Si tratta degli stessi temi analizzati da Michael Mann nel suo recente saggio La nuova guerra del clima (Edizioni Ambiente, 2021): il negazionismo climatico si esprime in varie forme, sempre indirette, il cui antecedente è «io non sono contro le politiche ambientali, ma…». Alcune di queste sono subdole e all’apparenza progressiste, altre imperniate sull’impossibilità o sull’inutilità del cambiamento, altre ancora che fanno leva sulla sovranità del consumatore o sui costi eccessivi del cambiamento radicale.

«Sarà un bagno di sangue», come ha dichiarato il Ministro della transizione ecologica, Roberto Cingolani.
O l’elettrico non è il verbo, come sostiene, in aperta polemica con Bruxelles, Confindustria a proposito dell’obiettivo di riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030. Questi «discorsi» sono tanto più pericolosi anche perché trasversali allo spazio sociale e politico.
Proprio come il senso comune, sono indifferenti all’asse destra-sinistra o al posizionamento di classe e alle forme di capitale sociale e culturale: sono discorsi ubiqui e indifferenziati, che uniscono e non dividono.

Per questo, si trovano a sostegno delle strategie politiche di chi non vuole cambiare lo status quo, di chi – come il Ministro Cingolani – non vuole mettere in discussione gli aspetti produttivi, pre-distributivi e redistributivi che invece qualificano le politiche climatiche radicalmente trasformative. Politiche che dovrebbero combattere le posizioni di rendita, abbassare le barriere all’entrata di interi settori produttivi, disegnare forme democratiche di accesso alla conoscenza, redistribuire il potere e la possibilità di utilizzo degli asset produttivi, tornare a investire sulla creazione di ricchezza inclusiva e sul valore pubblico dell’economia.

Niente di tutto questo è compatibile con i «discorsi sul ritardo climatico» che pretendono di affrontare una transizione che mette in discussione i fondamenti stessi di un modello di civiltà, quella «termoindustriale», attraverso processi graduali e soluzioni di breve periodo.

@FilBarbera

Come si rappresenta il femminicidio nei tribunali italiani

25 novembre. Intervista ad Alessandra Dino, docente di sociologa all’Università di Palermo, che ha condotto un’analisi qualitativa su 370 sentenze. «Il problema è quello di una scelta arbitraria fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima i futili motivi non sono spesso concessi»

Alessandra Pigliaru  25.11.2021

Nell’ambito degli omicidi volontari di donne andati a giudizio, la lettura delle sentenze consente un’analisi non solo rispetto ai numeri ma anche per ciò che riguarda la qualità di ciò che viene dichiarato. Di dati, tabelle e comparazioni, si è occupata Alessandra Dino, sociologa all’università di Palermo, che ha condotto insieme alla sua unità di ricerca uno studio prezioso su 502 sentenze, selezionandone 467, infine fermandosi a 370. Ne dà conto nel volume Femminicidi a processo. Dati, stereotipi e narrazioni della violenza di genere (Meltemi) ma il lavoro sta proseguendo.

«Dalla lettura si possono confermare alcuni punti», ci riferisce Dino, «ad esempio che la maggior parte dei femminicidi avviene all’interno di una relazione di coppia ancora in atto, quasi come se la donna debba preoccuparsi di più del partner che ha accanto che non di quello che ha lasciato».

Le sentenze possono essere lette come dei testi condizionati da un immaginario culturale che risponde, oltre che all’applicazione della norma, al modo e alla qualità di chi le compone. Quali sono le insidie sulla rappresentazione delle donne uccise?
L’esito non è omogeneo, la lettura di queste pagine di sentenze ci consegna però una miniera di scenari che, a parte l’incipit e il verdetto, consente di verificare, nella cosiddetta «parte molle» cioè nelle motivazioni, quel che ogni giudice e ogni Corte può scrivere, utilizzando registri differenti: drammatico-passionali, logico-deduttivi, più legati ai precedenti penali. Le narrazioni interne sono completamente diverse e si possono leggere quasi come un atto teatrale, personaggi e interpreti di cui la regia è il collegio giudicante che utilizza di volta in volta, ibridandoli, linguaggi presi dalla giurisprudenza ma anche dalla psichiatria, dalla psicologia e da tutti quei saperi esperti di cui si servono per elaborare la sentenza stessa. Un esempio è la psicologizzazione dell’autore come affetto da qualche patologia psichica, mentre solo nel 7,8% è stata rinvenuta una psicosi grave.

Quali altri elementi possono essere sollevati?
Sono diversi. L’efferatezza, cioè nella maggior parte dei casi abbiamo l’utilizzo di armi da taglio, oggetti contundenti, aggressione fisica. Si fa ricorso alle armi da fuoco solo nel 15% dei casi (tra gli italiani). Altro aspetto importante è il luogo del delitto che coincide spesso con l’abitazione della vittima, del femminicida o di entrambi. A proposito delle motivazioni troviamo, nel 44% circa, femminicidi che i giudici definiscono come sentimentali, per rifiuto abbandono gelosia, oppure relazionali, per possesso. Ci sono poi uccisioni per motivi economico-strumentali, mentre il resto (un 10% circa) sono i cosiddetti femminicidi per patologia mentale e altruistici, ovvero l’uccidere una donna, la propria compagna, madre eccetera, perché ha una patologia e non la si vuol far più soffrire.
Soltanto nel 25% dei casi l’omicida ha precedenti penali generici e solo il 6% di essi riguardano reati di violenza contro la vittima, nel 37% dei casi ci sono invece violenze pregresse contro la vittima, denunciate o meno, da cui si evince la continuità. Sulla nazionalità, abbiamo un 25% di vittime e autori di reato che sono stranieri con una rappresentanza più rilevante da chi proviene dall’est europeo. Riguardo le pene comminate abbiamo notato delle ricorrenze (pregiudiziali?) tra la pena e la nazionalità, sia in primo che in secondo grado: quelle verso gli stranieri sono più severe.

Quali aspetti concorrono a mantenere o a rompere i pregiudizi?
Il problema è quello di una scelta piuttosto arbitraria, compiuta dai giudici, fra la dimensione del malinteso spirito di possesso e quella della gelosia; quando c’è quest’ultima i futili motivi per esempio non sono spesso concessi. Parto da una premessa perché al momento mi sto occupando di un caso di femminicidio piuttosto paradigmatico andato a giudizio nel 2015 a Palermo; in questo caso, il delitto viene chiamato esplicitamente femminicidio perché, scrive il giudice nella sentenza di secondo grado, il termine è mutuato dal linguaggio giornalistico. E, aggiunge, che lo fa per mettere in evidenza la relazione di possesso e il senso di dominio che l’uomo esprime nei confronti della donna.

Anche in questo caso virtuoso in cui si nomina ciò che è accaduto per quel che è, il collegio giudicante non riconosce all’assassino la premeditazione e parla invece di dolo d’impeto per segnalare che il motivo che lo ha spinto a quel gesto è stato il «sentirsi sbeffeggiato dalla donna».

L’altro caso che viene in mente è quello di una donna incinta che viene strangolata con un laccio; da ciò che l’autore dichiara emerge una gelosia soffocante da parte di lei, una continua vessazione in nome di un malinteso legame affettivo per poi concludere che quanto all’aggravante per futili motivi la Corte osserva come «l’imputato sia stato indotto ad agire da un sincero e profondo amore verso la vittima, motivo di per sé non futile e non espressivo di un’indole malvagia o depravata ovvero di un malinteso spirito di possesso».

Il processo di vittimizzazione secondaria sta nella descrizione della vittima che molto spesso viene vista come ondivaga, fragile, quando non si evidenzia la sua condotta sessuale disinibita all’origine del gesto.

Riguardo la vittimizzazione secondaria nella rappresentazione interna ai tribunali, i centri antiviolenza Di.Re. stanno procedendo con l’osservatorio sul tema in cui indicano l’aspetto della cosiddetta sindrome da alienazione parentale. Crede che anche questo faccia parte della narrazione di cui lei parla presente anche nelle perizie esterne?
L’argomento dell’affidamento del minore è di grande rilevanza là dove molto spesso c’è la possibilità di un affidamento congiunto anche in casi di violenza. Nella sentenza di cui mi sto occupando adesso, nonostante l’imputato venga condannato a 30 anni con rito abbreviato, quando viene descritto l’iter della relazione, là dove la donna aveva denunciato il compagno per ripetute vessazioni (per esempio aveva perso temporaneamente la vista a causa delle bastonate infertele) siccome spesso ritirava le denunce, il figlio era stato affidato a lui.

La Corte segnala che gli Uffici della Procura non avevano «sufficientemente attenzionato» il caso e formula precise accuse di nei confronti dei Servizi Sociali il cui impegno è definito «grandemente insufficiente e spesso negligente», ponendo quasi sullo stesso piano il comportamento della vittima e del suo assassino in un gioco di reciproche accuse. Solo il giorno prima di essere uccisa la donna aveva ottenuto la possibilità di trasferimento in comunità insieme a suo figlio di tre anni, che poche ore dopo ha assistito alla uccisione della propria madre.

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