DAL 7 OTTOBRE AD OGGI – SCIVOLANDO VERSO L’ABISSO da SINISTRAINRETE
Dal 7 ottobre ad oggi – Scivolando verso l’abisso
Roberto Iannuzzi 02/07/2024
Dal rischio di deflagrazione del conflitto tra Israele e Hezbollah, ai fantasmi del 7 ottobre che ancora aleggiano sul governo Netanyahu (con qualche stralcio tratto dal mio nuovo libro)
Il protrarsi dell’operazione militare israeliana a Gaza, e l’intensificarsi dello scontro fra Israele e Hezbollah al confine libanese, hanno definitivamente sancito la saldatura delle due crisi o, se vogliamo, una sorta di “principio dei vasi comunicanti”.
Tradotta in altri termini, l’equazione è la seguente: 1) non ci sarà pace sul confine libanese se non verrà decretato un cessate il fuoco a Gaza.
2) Quanto più aumenterà il rischio di genocidio della popolazione palestinese nella Striscia, tanto più lo scontro al confine libanese rischierà di deflagrare in un conflitto su vasta scala, in grado di far impallidire la catastrofe di Gaza.
Per certi versi, questo esito era scritto fin dai primi giorni successivi al 7 ottobre. Allorché si è compreso che quella avviata da Israele a Gaza non era una semplice rappresaglia, per quanto dura, ma un’azione volta ad annientare Hamas sia militarmente che politicamente (se non addirittura a compiere una vera e propria pulizia etnica della Striscia), è parso evidente che questo conflitto avrebbe avuto pericolose ripercussioni regionali.
Come ho scritto nel mio libro “Il 7 ottobre tra verità e propaganda”,
Se c’è una cosa che i primi cento giorni del tragico conflitto di Gaza hanno dimostrato è che esso non sarebbe rimasto confinato a Gaza.
Asse filo-iraniano
Ciò è fondamentalmente dovuto al fatto che Hamas non è un attore isolato, ma fa parte del cosiddetto asse regionale filo-iraniano, che oltre a Teheran include le milizie sciite irachene (e alcuni raggruppamenti politici sciiti a Baghdad), la Siria del presidente Bashar al-Assad, Hezbollah in Libano, e il gruppo degli Houthi nello Yemen.
Lungi dall’essere esclusivamente agli ordini dell’Iran, tale raggruppamento è composto da attori più o meno indipendenti, seppure spesso armati e/o finanziati da Teheran, accomunati da una sostanziale convergenza di interessi, riassumibili nella lotta contro l’egemonia israelo-americana nella regione.
All’interno di tale asse, Hezbollah gioca un ruolo di particolare rilievo, divenuto ancor più prominente dopo l’assassinio del carismatico comandante della forza Quds della Guardia Rivoluzionaria iraniana, Qassem Soleimani, per mano americana il 3 gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad (su ordine diretto dell’allora presidente Trump).
Il vuoto di leadership lasciato nell’asse filo-iraniano dalla scomparsa di Soleimani è stato colmato non da un’altra figura iraniana, ma da Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah.
Il gruppo sciita libanese è il membro di questo schieramento più direttamente colpito dalle conseguenze di ciò che sta avvenendo a Gaza. Esso è insieme a Hamas uno dei due movimenti della resistenza armata araba a Israele di gran lunga più rilevanti.
Come Hamas, Hezbollah è stato impegnato nei decenni passati in una guerra esistenziale contro Israele, fin dall’invasione israeliana del Libano nel 1982.
La guerra libanese del 2006 fra Israele e Hezbollah portò alla devastazione delle infrastrutture civili del paese per mano israeliana, sebbene il gruppo armato sciita sarebbe emerso addirittura rafforzato da quel conflitto.
Con lo scoppio della guerra in Siria nel 2011, nel contesto delle rivolte che avevano investito il mondo arabo quello stesso anno, Israele e Hezbollah si erano confrontati militarmente anche in quel paese.
Unificazione dei fronti
Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, i leader del gruppo sciita libanese sapevano che, se il loro alleato a Gaza fosse stato annientato, Hezbollah sarebbe divenuto il bersaglio della prossima guerra israeliana.
Nei giorni immediatamente successivi a quella data fatidica, nell’establishment politico e militare israeliano vi era chi, come il ministro della difesa Yoav Gallant, avrebbe voluto addirittura compiere un attacco preventivo su vasta scala contro Hezbollah.
Gallant e gli altri sostenitori di questa tesi sarebbero stati fermati solo dall’intervento dell’amministrazione Biden. Secondo il Wall Street Journal, “ci vollero circa sei ore di telefonate e incontri prima che i funzionari israeliani accettassero di rinunciare”.
Gli stessi vertici di Hezbollah furono apparentemente colti di sorpresa dall’attacco di Hamas. Pur dichiarando verbalmente il loro sostegno al gruppo palestinese, essi parvero riluttanti ad aprire uno scontro diretto con Israele per sostenere il loro alleato nella Striscia, limitandosi a scaramucce sul confine.
In base alla strategia della “unificazione dei fronti”, adottata dall’asse filo-iraniano ben prima del 7 ottobre, Hamas si attendeva invece un sostegno militare più sostanziale, che inizialmente non sarebbe arrivato. In effetti, lo stesso Hezbollah aveva svolto una parte importante nella definizione di questa strategia.
Come ho scritto nel mio libro,
il partito sciita libanese – che dopo il 2006 si era confrontato militarmente con Israele anche in Siria, durante il conflitto che dal 2011 aveva insanguinato questo vicino del Libano – aveva cercato una più stretta alleanza con Hamas e con la Jihad Islamica palestinese in base a una strategia di “unificazione dei fronti” che sarebbe dovuta servire a costituire un ulteriore elemento di deterrenza contro gli attacchi israeliani.
Vi erano anche indicazioni che l’Iran avesse creato una “sala operativa congiunta”, probabilmente con sede in Libano, alla quale avevano accesso membri della Guardia Rivoluzionaria iraniana, Hezbollah, Hamas e forse altri gruppi appartenenti all’asse iraniano, al fine di garantire un maggior coordinamento tra i diversi membri del fronte allineato con Teheran e di scambiarsi informazioni di intelligence.
La strategia militare di Hezbollah
Se nei primi mesi dopo il 7 ottobre, Hezbollah avrebbe costantemente risposto “sotto soglia” agli attacchi israeliani che colpivano sempre più in profondità in territorio libanese (in modo da non favorire un’ulteriore escalation), questa tendenza sembra essersi invertita più di recente.
Per mesi, il gruppo libanese ha colpito metodicamente le torri di comunicazione israeliane, le stazioni di monitoraggio, i sensori disseminati lungo il confine libanese, accecando progressivamente le capacità di sorveglianza israeliane.
Hezbollah ha colpito più volte la base sul Monte Meron, il principale centro israeliano di controllo dello spazio aereo libanese e siriano, mettendolo di fatto fuori uso. Più di recente ha distrutto un pallone aerostatico di sorveglianza del valore di 230 milioni di dollari, in grado di rilevare missili e droni a bassa quota. Almeno tre Hermes 900, fra i più costosi e sofisticati droni di Israele, sono stati analogamente abbattuti.
Infine, Hezbollah ha cominciato a colpire le batterie del sistema Iron Dome, il perno della difesa missilistica israeliana.
Nei giorni scorsi, i vertici militari israeliani hanno approvato piani specifici per una possibile offensiva su vasta scala contro Hezbollah, lasciando temere un possibile allargamento del conflitto al Libano che avrebbe conseguenze difficilmente immaginabili.
Il gruppo libanese possiede un sofisticato e nutrito arsenale missilistico, in grado di saturare le difese israeliane, e di provocare danni ingenti alle infrastrutture del paese.
L’amministrazione Biden proprio in questi giorni ha cercato di dissuadere il governo Netanyahu dall’iniziare un’offensiva contro Hezbollah, ammonendo che le conseguenze potrebbero addirittura portare a un coinvolgimento diretto dell’Iran, e sarebbero in ogni caso catastrofiche per Israele.
D’altro canto, la condizione posta da Hezbollah per riportare la tranquillità sul fronte libanese è un cessate il fuoco permanente a Gaza. I due focolai di crisi sono ormai inestricabilmente legati, e il prolungarsi del conflitto nella Striscia rischia di incendiare inevitabilmente l’altro fronte.
I fantasmi del 7 ottobre
D’altra parte il governo Netanyahu deve fare i conti con le pressioni interne derivanti dagli oltre 60.000 sfollati che non possono tornare nelle loro case nel nord di Israele.
Queste pressioni si sommano alle crescenti divisioni tra governo ed esercito riguardanti la gestione della Striscia di Gaza. I vertici delle forze armate non intendono assumersi l’onere di gestire direttamente un protettorato militare, e vogliono che Netanyahu avanzi una soluzione politica, al momento inesistente.
A ciò bisogna aggiungere gli strascichi dovuti alla scelta del governo di rimandare alla fine del conflitto la ricerca delle responsabilità di quanto accaduto il 7 ottobre. Malgrado questa scelta, prosegue lo stillicidio di rivelazioni che smentiscono la narrazione ufficiale del governo relativa a quel giorno.
Dopo l’attacco di Hamas, si era parlato di un “epocale fallimento dell’intelligence” a proposito dell’apparente incapacità dei servizi israeliani di prevedere l’azione palestinese. Sebbene tale operazione sia stata descritta come un “fulmine a ciel sereno”, ovvero come un’azione del tutto inaspettata, numerosi segnali d’allarme provenienti da Gaza erano stati colti dall’intelligence israeliana.
Nel libro, cito perfino un reportage del Washington Post risalente a pochi giorni prima dell’attacco, in cui si parla apertamente di esercitazioni compiute da Hamas e dalla Jihad Islamica, volte a catturare soldati e attaccare gli insediamenti:
Un reportage del «Washington Post» risalente al 21 settembre 2023, pochi giorni prima dell’attacco di Hamas, afferma che l’estate di calma di cui aveva goduto Gaza sembrava stesse per finire, mentre si intensificavano gli episodi di violenza nella vicina Cisgiordania. Gli autori dell’articolo riferiscono di esercitazioni compiute dal gruppo insieme alla Jihad Islamica e ad altre fazioni armate, incentrate sul lancio di razzi, sulla cattura di soldati e sull’assalto agli insediamenti. Basem Naim, responsabile del Dipartimento Politico e di Relazioni Internazionali di Hamas, aveva detto ai giornalisti del quotidiano americano che il fuoco covava sotto la cenere.
Il New York Times avrebbe rivelato, nel novembre 2023, che i vertici militari e dell’intelligence israeliana erano in possesso, almeno un anno prima dell’attacco, di un documento denominato “Mura di Gerico” che descriveva in ogni dettaglio l’azione che Hamas avrebbe compiuto il 7 ottobre. Durante l’estate che ha preceduto tale azione, unità dell’intelligence israeliana avevano raccolto segnalazioni del tutto corrispondenti con questo piano:
Nei mesi precedenti l’attacco, in effetti, almeno tre documenti erano stati redatti da un’analista dell’Unità 8200 nei quali si segnalava che Hamas stava compiendo una serie di esercitazioni che apparivano del tutto simili al documento “Mura di Gerico”. Esse simulavano attacchi ai kibbutzim e agli avamposti militari lungo il confine con Gaza. Ma i rapporti (l’ultimo dei quali, risalente all’agosto 2023, considerava ormai imminente un possibile attacco), pur ritenuti attendibili da altre analiste dell’Unità, sono stati invariabilmente scartati dai superiori.
Nei giorni scorsi, si sono aggiunti ulteriori elementi a conferma di questi fatti. E’ emerso un documento che era in possesso della Divisione Gaza delle forze armate israeliane (IDF), dal quale emerge che esse erano a conoscenza, settimane prima dell’attacco, di un piano di Hamas per infiltrarsi in territorio israeliano e sequestrare fino a 250 ostaggi.
Il 7 ottobre, Hamas avrebbe condotto a Gaza 240 prigionieri.
Il documento, distribuito il 19 settembre 2023, descriveva in dettaglio le esercitazioni compiute dalle unità di élite di Hamas per prepararsi a tale azione. Un’altra conferma del fatto che i vertici degli apparati di sicurezza israeliani conoscevano un numero impressionante di elementi del piano di Hamas, che inspiegabilmente non sono stati impiegati per contrastare l’azione armata palestinese.
“Direttiva Hannibal”
Nel libro riferisco anche della reazione scomposta e all’insegna dell’improvvisazione, da parte delle forze armate israeliane, all’attacco di Hamas del 7 ottobre:
Diversi reportage descriveranno una situazione di completo caos e di totale confusione dei comandi israeliani, nella quale viene dato ordine di aprire il fuoco su veicoli di “terroristi” diretti a Gaza, sebbene possano contenere ostaggi. Una situazione nella quale piloti di elicotteri da combattimento e operatori di droni selezionano in autonomia i bersagli e decidono individualmente quando sparare, in un contesto in cui – per loro stessa ammissione – è estremamente difficile distinguere fra civili israeliani e “terroristi”. Una situazione nella quale anche le abitazioni dei kibbutzim vengono in diversi casi bersagliate dai carri armati o dagli elicotteri, anche se i miliziani palestinesi che le occupano spesso hanno con sé prigionieri israeliani.
Nei giorni scorsi, un’inchiesta dell’israeliano Channel 12 ha anticipato che intorno a metà luglio è prevista la pubblicazione di un rapporto delle IDF che documenterebbe come decine di vittime, quel 7 ottobre, siano cadute sotto il fuoco israeliano.
I vertici militari sono stati accusati di aver ordinato ai propri soldati di uccidere eventuali ostaggi piuttosto che permettere a Hamas di condurli prigionieri a Gaza, in base alla cosiddetta “Direttiva Hannibal”, un controverso protocollo adottato nel 1986 che si applicava al sequestro di militari israeliani da parte di forze nemiche.
Sebbene ufficialmente abrogata nel 2016, questa direttiva sarebbe rimasta a lungo una sorta di norma non scritta all’interno dell’esercito il quale, secondo diverse testimonianze, l’avrebbe applicata anche il 7 ottobre, estendendola addirittura ai civili.
Questa ipotesi ha suscitato aspre polemiche in Israele. Come scrivo nel libro,
Intervistato da «Haaretz» […], l’accademico israeliano Asa Kasher, autore del codice etico delle IDF, definisce inaccettabile l’applicazione della direttiva Hannibal ai civili. Condividendo l’opinione delle famiglie delle vittime, egli afferma che è urgente un’inchiesta ufficiale su quanto accaduto, sostenendo che è necessario cambiare l’intera cultura dell’esercito.
Da tutti questi elementi emerge che, non solo Netanyahu e altri esponenti del governo, ma anche i vertici militari e dell’intelligence hanno enormi responsabilità riguardo a ciò che è successo il 7 ottobre, e dovranno risponderne di fronte all’opinione pubblica israeliana.
In altre parole, un’intera classe dirigente, completamente delegittimata, attende la resa dei conti che inevitabilmente avrà luogo a conflitto terminato. Un’altra ragione per cui molti responsabili del governo e degli apparati di sicurezza hanno probabilmente poco interesse ad accelerare la fine delle ostilità.
Le tensioni e le divisioni interne a Israele rappresentano, dunque, un altro fattore di incertezza che si somma a quelli legati al contesto regionale, i quali nel loro complesso rendono la crisi mediorientale una delle più esplosive e pericolose dell’attuale panorama mondiale.
Se anche un allargamento del conflitto al Libano dovesse essere scongiurato nei prossimi giorni, il rischio di una deflagrazione mediorientale rimarrà incombente fino a quando non si giungerà a un cessate il fuoco permanente a Gaza.
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