CORTE UE: IL SALARIO MINIMO È VALIDO, MELONI IMMOBILE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
22197
wp-singular,post-template-default,single,single-post,postid-22197,single-format-standard,wp-theme-stockholm,wp-child-theme-stockholm-child,cookies-not-set,stockholm-core-2.4.6,select-child-theme-ver-1.0.0,select-theme-ver-9.13,ajax_fade,page_not_loaded,,qode_menu_,wpb-js-composer js-comp-ver-8.2,vc_responsive

CORTE UE: IL SALARIO MINIMO È VALIDO, MELONI IMMOBILE da IL MANIFESTO


Corte Ue: il salario minimo è valido, Meloni è immobile

Roberto Ciccarelli  12/11/2025

Non regge il minimo Respinto un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca contro un’«ingerenza» di Bruxelles. La sentenza penalizza gli sforzi per salari equi. Sul lavoro povero l’Italia è senza strumenti

In una sentenza con importanti implicazioni per i salari in tutto il continente, la Corte di giustizia europea ha mantenuto ieri una parte significativa della direttiva europea sul salario minimo, respingendo un ricorso legale da parte di Svezia e Danimarca, che sostenevano un’eccessiva ingerenza da parte dell’Unione Europea. Pur avendo ritenuto che la direttiva fosse sostanzialmente conforme ai Trattati Ue e avesse mantenuto la maggior parte delle tutele della contrattazione collettiva, la Corte ha annullato la disposizione che elencava i criteri di cui gli Stati membri con salari minimi legali devono tenere conto nella definizione e nell’aggiornamento di tali salari, nonché la norma che impedisce la riduzione di tali salari in caso di indicizzazione automatica. L’annullamento di queste misure non è utile per i futuri sforzi volti a tutelare salari equi.

QUEST’ULTIMA osservazione è stata avanzata dal gruppo «The Left» al parlamento europeo e traduce una doppia preoccupazione. La Corte Ue ha indebolito la già incerta capacità della legislazione europea di portare i governi nazionali ad adottare un salario minimo, oltre che di aggiornarlo. In secondo luogo la Corte Ue ha escluso che i salari minimi recuperino l’inflazione lì dove sono in vigore. Di solito sono i governi a prendere simili decisioni, teoricamente consultando le «parti sociali». Tuttavia, un simile indebolimento della direttiva Ue non aiuterebbe chi sostiene l’indicizzazione dei salari, per di più in un momento della loro più forte compressione, mentre i profitti non tassati manifestano una grande esuberanza in Europa, e ovunque.

LA DECISIONE della Corte di giustizia «rafforza il modello sociale europeo, basato su salari equi e adeguati e su una solida contrattazione collettiva – ha detto la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen – Perché porta sia equità sociale che benefici economici. Questa è una buona notizia per i lavoratori, soprattutto per quelli con salari bassi, e per i datori di lavoro in tutta Europa che pagano salari equi. Una pietra miliare». Dichiarazione, quella di von der Leyen che suona più che altro formale, e non risponde alla realtà. In tutta Europa, i salari hanno perso potere di acquisto a causa dell’inflazione da profitti e la contrattazione soffre di una pesante crisi. Per non parlare dell’Italia dove un salario minimo non esiste nemmeno, i salari sono bloccati da trent’anni e la contrattazione non riesce a recuperare l’inflazione accumulata nel 2022 e 2023. In questa situazione rispolverare le antiche vestigia del «pilastro sociale», come ha fatto von der Leyen, è uno sberleffo. Il «pilastro», che conterrebbe tra l’altro un reddito minimo europeo, oggi giace sepolto sotto le macerie di un Europa avviata verso l’economia di guerra.

IL PRONUNCIAMENTO della Corte Ue è stato recepito con soddisfazione dai partiti dell’opposizione e dai sindacati come Cgil e Uil. Tutti hanno sottolineato la «tenuta» della direttiva e la contrarietà ideologica pro-imprese del governo Meloni che ha liquidato il salario minimo ed è impotente rispetto ai salari che non ripartono con un maquillage fiscale sull’Irpef per di più costoso (2,8 miliardi) per i redditi medi. Meno considerati sono stati i nuovi limiti stabiliti dai giudici europei.

IL VERDETTO è stato salutato come «un grande passo in avanti» da Alleanza Verdi e Sinistra che ha invitato Meloni a «prendere atto della direzione europea». «Rifletta Giorgia Meloni – ha detto Arturo Scotto del Pd – che continua a fare ostruzionismo su una legge di civiltà». «L’Unione Europea può esistere solo se rafforza la propria dimensione sociale, tratto distintivo dell’Europa rispetto a ogni altra area mondiale – ha detto la segretaria confederale della Cgil, Francesca Re David – Il governo italiano non ha più scuse, smetta di nascondersi dietro artifici burocratici interpretativi della direttiva e faccia ciò che va fatto: avvii immediatamente un tavolo con le parti sociali».

«IN ITALIA – ha aggiunto la segretaria confederale della Uil, Vera Buonomo – la copertura contrattuale è alta ma non universale, soprattutto in settori più fragili, e la concorrenza al ribasso continua a indebolire il valore del lavoro. La direttiva va recepita e serve che si rinnovino i contratti nei tempi giusti e si rafforzi la rappresentanza».

Contratti e paghe, niente più alibi per il caso Italia

Antonio Loffredo  12/11/2025

Salario minimo La sentenza della Corte di giustizia chiude finalmente la lunga attesa sul destino della direttiva Ue sui salari minimi adeguati

La sentenza della Corte di giustizia chiude finalmente la lunga attesa sul destino della direttiva Ue sui salari minimi adeguati. Considerata la povertà degli obblighi che impone agli Stati, l’attesa era giustifica dal fatto che la direttiva affronta, anzi sfiora, uno dei nodi essenziali del conflitto nel lavoro: la questione salariale.

La Corte di giustizia aveva più volte rinviato la decisione, a conferma della difficoltà tecniche e politiche che essa nascondeva, lasciando con il fiato sospeso una platea di spettatori interessati che andava ben oltre gli addetti ai lavori. La decisione di confermare l’impianto della direttiva, pur eliminando due disposizioni che riguardavano i criteri e l’indicizzazione dei salari minimi quando questi ultimi vengono fissati per legge, ha dunque una valenza politica che va ben oltre quella giuridica.

L’approvazione della direttiva 2041 nel 2022 aveva polarizzato le opinioni sia rispetto all’opportunità politica sia riguardo alla legittimità della base giuridica. Proprio quest’ultimo aspetto aveva permesso il ricorso dei governi di Danimarca e Svezia – spalleggiati ahimè anche dai propri sindacati – visto che l’Ue non ha competenza normativa in materia di libertà sindacale, sciopero e retribuzione. E infatti, proprio per l’interferenza diretta dell’Ue nella determinazione delle retribuzioni, la Corte di giustizia ha annullato i due articoli citati.

Tuttavia, per quanto la decisione riduca il potenziale impatto della direttiva nei paesi dell’Ue che hanno un salario minimo individuato per legge (tutti eccezion fatta per Italia, Austria, Finlandia e i due ricorrenti), essa va salutata positivamente perché non solo si esprime in contrasto con le discutibili conclusioni dell’avvocato generale che aveva raccomandato l’annullamento intero della direttiva ma anche perché conferma la volontà dell’Ue di far sentire la propria (debole) voce nell’individuazione di salari minimi, anche in un momento storico in cui la voce sociale è spesso soffocata da quella bellica.

D’altra parte, se c’era tanto interesse a far scomparire dall’ordinamento una norma europea sui salari vuol dire che la direttiva non ha un’efficacia così ridotta. L’obiettivo di vedere annullata la norma, infatti, non era condiviso solo dai due paesi che hanno portato avanti il ricorso ma anche da quelli, come l’Italia, che hanno fatto da spettatori nella speranza che la Corte togliesse questo convitato di pietra dal dibattito politico e sindacale nazionale sui salari. Il tema, infatti, aveva finalmente acquisito una nuova centralità proprio grazie all’approvazione della direttiva, che si è inserita in un quadro economico caratterizzato da una stagnazione delle retribuzioni italiane da oltre trent’anni, certificata da tutte le ricerche internazionali.

A questo punto, la sostanziale conferma da parte della Corte di giustizia dell’impianto giuridico della direttiva non rende più giustificabile l’atteggiamento attendista da parte degli Stati membri e offre l’opportunità per mettere di nuovo sotto i riflettori la questione della sua attuazione anche nel nostro paese. Il che deve implicare una revisione del sistema di relazioni industriali, debilitato dalla (ormai) insostenibile leggerezza delle regole in materia di contrattazione collettiva. Del resto, se c’è un elemento certamente desumibile dalla direttiva, al netto delle sue ambiguità e punti oscuri, è proprio una promozione della contrattazione collettiva: solo i paesi nei quali si riscontra una copertura inferiore all’80% sono obbligati a un piano d’azione di sostegno alla contrattazione. In Italia, pur in assenza di dati ufficiali, ci sono stime di fonte Cnel (sulle quali alcuni studiosi nutrono seri dubbi) che ci attribuiscono una copertura pressoché totale, che depotenzierebbe gli effetti che la direttiva potrebbe avere nel nostro ordinamento. Una delle concrete conseguenze della sentenza della Corte sarà perciò quanto meno quella di obbligare il nostro paese a consegnare a Bruxelles dati ufficiali sulla copertura, che siano credibili e che spieghino come mai l’Italia rappresenti un’eccezione alla regola secondo cui i salari fissati contrattualmente e con un’estensione ampia darebbero vita a retribuzioni minime elevate rispetto ai salari medi.

Questi dati sembrano rafforzare la sensazione che in Italia sussista un problema di funzionamento del sistema contrattuale non meno urgente di quello salariale, e anzi a esso strettamente collegato. La direttiva potrebbe aiutare a dipanarlo, se fosse accompagnata da una volontà politica che sembra però del tutto assente. La direttiva, poi, può servire anche come strumento per contrastare quel drammatico ossimoro che è il lavoro povero, fenomeno che rappresenta la negazione assoluta dell’articolo 36 della Costituzione, secondo il quale la retribuzione dovrebbe garantire «un’esistenza libera e dignitosa» e non, a stento, una sopravvivenza. La questione è, perciò, non solo pratica ma anche di principio, riguarda cioè il valore economico che si vuole riconoscere al lavoro in un paese che nel primo articolo della sua Costituzione afferma proprio di fondarsi sul lavoro e non sul suo sfruttamento.

No Comments

Post a Comment

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.