CITTADINI-GUERRIERI, NOI OGGI E I GRECI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Cittadini-guerrieri, noi oggi e i greci
Maddalena Oliva 1 Aprile 2025
“Cittadino” era chi era in grado di esercitare la prima funzione dei maschi liberi, cioè la guerra. Privilegiato chi poteva farlo a proprie spese, poi valse pure per chi non era possidente. Così si creò quella comunità da cui nacque la polis
Che la democrazia sia un’invenzione greca è opinione piuttosto radicata. Dice Pericle, nel discorso che Tucidide gli attribuisce: “La parola che adoperiamo per definire il nostro sistema politico è democrazia per il fatto che, nell’amministrazione, esso si qualifica non rispetto ai pochi ma rispetto alla maggioranza”.
E prosegue: “Però nelle controversie private attribuiamo a ciascuno ugual peso e comunque nella nostra vita pubblica vige la libertà”.
Quindi, per Pericle, esiste la “democrazia” e, potremmo dire in antitesi a questa, la “libertà”. Sono molti i detrattori del governo “popolare” per cui la democrazia è un sistema liberticida. E “democrazia” era il termine con cui si intendeva metterne in luce proprio il carattere violento: kràtos indica la forza nel suo violento esplicitarsi. La parola “democrazia” – fin dalle sue prime attestazioni – è parola quindi dello “scontro”, un termine coniato dai ceti elevati a indicare lo “strapotere” dei non possidenti, quando vige, appunto, la “democrazia”. Poiché ad Atene “la povertà e la modestia del rango sociale non costituivano impedimento per chiunque avesse la capacità di operare nell’interesse dello Stato”. Democrazia come “violenza”, come coercizione esercitata da parte di un gruppo sociale di non possidenti nei confronti delle classi privilegiate e delle classi abbienti.
Ecco perché il Pericle tucidideo ne prende le distanze. Come suggerisce Luciano Canfora, “si usa democrazia per definire il nostro sistema politico semplicemente perché siamo soliti far capo al criterio della maggioranza, nondimeno da noi c’è libertà”.
Ma chi sono i “tutti” la cui libertà mette in essere la democrazia? Chi si può fregiare del diritto di cittadinanza? Se consideriamo l’esempio più conosciuto, cioè Atene, sappiamo che, sotto Pericle, a possedere questo bene sono in pochi: i maschi adulti (in età militare), figli di padre e madre ateniese e liberi di nascita. È qui che si affaccia una questione fondamentale, e che ci riporta prepotentemente all’oggi: la radice stessa della nozione di cittadinanza e di democrazia quale comunità di uomini in armi. La visione della cittadinanza, dominante in epoca classica, è racchiusa nell’identificazione cittadino/guerriero. È cittadino, fa parte a pieno titolo della comunità partecipando alle assemblee in cui si prendono le decisioni, chi è in grado di esercitare la principale funzione dei maschi liberi, cioè la guerra. I cittadini militano. E poiché per lungo tempo essere guerriero ha implicato la disponibilità dei mezzi per provvedere all’armatura, la nozione di cittadino/guerriero si identifica con quella di possidente, ovvero di chi si arma “a proprie spese”. Ma con il volgersi di Atene verso il mare, al tempo della guerra contro i Persiani, necessaria fu una manodopera bellica di nuovo tipo: i marinai, un gruppo sociale e, insieme, militare al quale non si chiedeva di armarsi in proprio, e che risultava invece indispensabile per “spingere i remi e muovere le navi”. È lì la svolta, l’evento politico-militare che determina l’allargamento della cittadinanza ai non possidenti: anch’essi così diventati, con pari dignità, dei cittadini/guerrieri.
E torniamo alla democrazia come scontro, tra chi possiede e non possiede. La democrazia è il rivolgimento di tutti i principi. Le relazioni naturali capovolte. L’arché dei padri, dei proprietari, terremotata. Azzerato il principio della nascita, cancellati i legami di sangue e di suolo: tutto. Si inaugura lo spazio della politica. Antitesi di ciò che è privato, egoistico, interessato, politico diviene sinonimo di comune. Una comunità dove i cittadini si tengono insieme solo grazie al nuovo legame politico. E cos’è la polis? Si chiedeva Aristotele nella Politica: la polis è “una pluralità”, “una moltitudine di cittadini” che si ricompone di continuo, dopo essersi divisa e ridefinita più e più volte. È una comunità il cui motore è la partecipazione.
Ma la partecipazione – e la democrazia – oggi sono sempre più in crisi. Crisi di legittimità, di rappresentanza, di funzione. Per spiegarne l’erosione, guardiamo – ci è più facile e meno faticoso – alla minaccia esterna. Oggi, come ai tempi dei Greci, siamo disposti a prendere le armi gli uni contro gli altri per contenderci il bene prezioso della cittadinanza, tutti concordi su una cosa: l’escludere ogni ipotesi di estensione della cittadinanza verso l’esterno, verso il fuori della “comunità”, verso lo straniero, verso l’altro.
Il primo a cogliere bene il nesso tra chiusura della comunità e decadenza è stato, nei tempi antichi, Tacito. Riflettendo sulle ragioni di decadenza delle città greche, secoli dopo, farà dire all’imperatore Claudio: “Cos’altro fu causa di rovina sia per gli Spartani che per gli Ateniesi, nonostante la loro forza militare, se non il fatto che escludessero – dopo la vittoria – i vinti, trattandoli come di altra razza?”. Per i Greci gli stranieri, gli “altri”, non erano solo diversi, erano anche inferiori. I barbari sono genti selvagge, crudeli, rozze, brutali, incivili, finanche bestie. Aveva dunque forse ragione Nietzsche quando scriveva che la storia greca è stata sempre scritta secondo una prospettiva ottimistica? Quanti milioni di persone sono state sterminate in nome della loro estraneità? Platone nella Repubblica diceva: “I Greci non distruggeranno certo i Greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, né bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai Barbari”.
Il senso di umanità dei Greci è migliore del nostro? Le “cose”, oggi, suscitano sempre meno lacrime, le “cose” non piangono più. Da Gaza ai migranti che lasciamo morire in mare. Siamo più chiusi, più ostili, ci sentiamo comunità, ci sentiamo popolo, sempre e solo quando è il confine, la paura dell’altro, a definire il nostro spazio. La fragilità della democrazia attuale dipende anche da noi. Che abbiamo smesso di essere cittadini e siamo diventati sudditi. E “il suddito ideale – diceva Hannah Arendt – del regime totalitario è l’individuo per il quale la distanza tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più”.
Netanyhau a Budapest, la chiamata è per l’Europa
Diritto internazionale Il viaggio in Ungheria e il salvacondotto offerto da Orbán pongono questioni radicali sul diritto. E sfidano l’Ue: è ancora una potenza civile o è già quella del riarmo?
Luca Baccelli 01/04/2025
Il primo ministro ungherese Orbán accoglierà a Budapest con tutti gli onori un latitante. Dal 20 maggio scorso sul premier israeliano Netanyahu pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra (affamamento, omicidio, attacchi intenzionali contro i civili) e crimini contro l’umanità (sterminio, persecuzione).
Sembra che si parlerà della deportazione degli abitanti di Gaza – il sogno di Trump – e Orbán appare a suo agio nel ruolo del bambino che esclama «il re è nudo». Ma il re era da tempo ben poco vestito.
Tutti gli Stati dell’Ue fanno parte della Cpi e sono obbligati a eseguire i suoi mandati, ma dopo la ripresa del massacro di Gaza il primo ministro greco Mitsotakis ha incontrato Netanyahu, con cui ha discusso di cooperazione nella difesa. È stato preceduto a Gerusalemme dall’Alta rappresentante per la politica estera dell’Ue, Kallas. E il governo tedesco ha criticato subito la decisione della Cpi facendo riferimento alla «grande responsabilità» che la Germania sente nei confronti di Israele per la Shoah: siccome i nostri bisnonni hanno sterminato gli ebrei, noi dobbiamo chiudere un occhio sulla mattanza dei palestinesi. Appena vinte le elezioni, Merz, imminente Bundeskanzler, ha dichiarato assurdo il mandato di arresto e invitato Bibi in Germania. Sempre ineffabile, il nostro Tajani dopo qualche tentennamento ha detto di aver «le carte» e che le scelte della Corte, «ispirate a principi politici», non sono fondate. Il ministro degli esteri di una repubblica democratica dovrebbe concedere qualche argomento in più ai suoi concittadini, ma noialtri i ricercati dalla Cpi li accogliamo simpaticamente o li riaccompagniamo a casa con un volo di Stato, come è avvenuto con Almasri. I francesi sono più seri: il governo ha fatto riferimento all’articolo 98 dello Statuto di Roma della Cpi. Il quale effettivamente stabilisce che nelle richieste di assistenza e di consegna la Corte non può violare gli obblighi che uno Stato ha in merito all’immunità diplomatica o a trattati sottoscritti. Ma l’articolo 27 stabilisce chiaramente che l’essere presidente, premier, parlamentare o diplomatico «non esonera in alcun caso una persona dalla sua responsabilità penale» e che «Le immunità o regole di procedura speciale eventualmente inerenti alla qualifica ufficiale di una persona in forza del diritto interno o del diritto internazionale non vietano alla Corte di esercitare la sua competenza».
Negarlo contraddirebbe il principio fondamentale della Cpi, esattamente la responsabilità penale per gli individui (articolo 25) per aggressione, genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra (articoli 5-8) . Del resto, i governi europei non si sono sognati di contestare il mandato di arresto per Putin.
Questo principio era visto dal giurista Hans Kelsen come decisivo perché si potesse realizzare la «pace attraverso il diritto». Le sue prime applicazioni dopo la Seconda guerra mondiale, nei tribunali di Norimberga e Tokio, sono state inquietanti, e per molti aspetti anche i tribunali internazionali istituiti dopo la fine della Guerra fredda hanno replicato la «giustizia dei vincitori» denunciata da Danilo Zolo. La Cpi, invece, rispetta i principi di terzietà e non retroattività (articoli 22-24). Il suo grande limite, oltre alla relativa subordinazione al Consiglio di sicurezza dell’Onu (articolo 16) sono le adesioni. Fortemente voluto dal presidente Bill Clinton nell’epoca della globalizzazione trionfante e dell’ordine internazionale liberale, lo Statuto di Roma non è mai stato ratificato dagli Usa. Gli Stati parte sono 125, ma non comprendono potenze economiche, militari e demografiche come Cina, India, Indonesia, Pakistan, Russia. E Israele. Anche per questo l’appartenenza alla Cpi è sembrata un tratto caratteristico dell’identità europea. Almeno finché la sua attività si è rivolta verso figure appartenenti a Stati minori o a formazioni sconfitte.
Fino a poco fa nessuno dei condannati e degli inquisiti dalla Cpi era bianco.
Quando la corte ha cominciato a fare su serio, inquisendo anche il leader di un alleato chiave dell’Occidente, partner privilegiato dell’Ue, ecco lo scandalo. Come se il diritto internazionale potesse funzionare solo sulla base dei doppi standard; e riguardasse i popoli civili, come pensavano i suoi padri fondatori, mentre al di là dell’Europa si dà il «libero e spietato uso della violenza».
Sul teatro di Budapest si pongono questioni radicali. Il diritto può limitare la guerra, scongiurare i genocidi e i crimini contro l’umanità? E inoltre: l’Europa è ancora una potenza civile o è quella del riarmo? Che la risposta non si perda nel vento è affidato alla responsabilità dei governi e, soprattutto, alla mobilitazione dei popoli.
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