BIDEN “RE NUDO” DOPO IL VOTO ALLE NZIONI UNITE da IL MANIFESTO
Biden «re nudo» dopo il voto alle Nazioni unite
STATO DI PALESTINA. Usa e Occidente vogliono i palestinesi non come soggetti aventi diritti, ma come ombre elemosinanti ridotte ad una subalternità che cancelli le aspirazioni umane e politiche
Tommaso Di Francesco 12/04/2024
Il voto a schiacciante maggioranza dell’Assemblea dell’Onu che riconosce il pieno titolo dello Stato di Palestina ad essere ammesso alle Nazioni unite è atto formale e simbolico, decide il Consiglio di sicurezza. Ma esistono momenti nella storia non solo dei popoli, anche individuali e di classe, in cui eventi “simbolici” acquistano una valenza ben superiore al loro effettivo contenuto.
È questo il caso della risoluzione approvata venerdì sera. Che 143 paesi, con una rilevanza del Sud del mondo e con una Europa a dir poco divisa – Francia, Spagna e Germania hanno approvato – abbiano votato a favore mentre 25 si sono astenuti e 9 hanno votato contro, non è cosa da poco mentre è in discussione l’intera esistenza del popolo palestinese.
Non si capirebbe altrimenti la rabbiosa reazione del rappresentante israeliano che accusando l’Assemblea «di avere aperto la porta ai nuovi nazisti» e «di avere fatto a pezzi la Carta dell’Onu», ha platealmente strappato nella macchina trinciacarta la Carta medesima – come se i governi israeliani non l’avessero fatta a pezzi da tempo, misconoscendo tutte le Risoluzioni dell’Onu che dal 1967 impongono ad Israele di ritirarsi dall’occupazione militare dei Territori palestinesi.
Così come non è inutile scoprire che tra gli astenuti c’è l’Ucraina che combatte contro l’aggressione russa e vuole armi per i territori occupati (del Donbass) ma si volta dall’altra parte rispetto a territori occupati palestinesi; e c’è l’Italia, ai margini della storia, a chiacchiere meloniane impegnata sul Sud del mondo con il suo neocoloniale Piano Mattei, per poi scoprire che vota all’opposto del Sud del Mondo e sui diritti della Palestina tace e acconsente; ecco poi tra i contrari le “perle democratiche” di Argentina, Ungheria e della neoatlantica Repubblica ceca.
E gli Stati uniti, che solo ad aprile hanno posto il veto su questo tema al Consiglio di sicurezza, con motivazioni balbettanti che rasentano il comico se non fossero tragiche: «L’adozione di questa risoluzione non porterà cambiamenti tangibili ai palestinesi, non metterà fine ai combattimenti a Gaza né fornirà cibo, medicinali e riparo ai civili. È qui che si concentrano gli sforzi degli Stati uniti…» ha dichiarato il portavoce della missione all’Onu Usa Nate Evans.
Siamo alla farsa, nell’imbarazzo di capire che faranno adesso gli Stati uniti dopo il voto dell’Assemblea Onu. Perché ora il re è “nudo”, Biden e Blinken sono “nudi”. Il racconto corrente, mainstream, è che la Casa bianca si sarebbe opposta strenuamente alla strategia criminale di Netanyahu; eppure nelle Università Usa non la pensano così.
Anche perché in realtà in questi lunghi e sanguinosi sette mesi la Casa bianca ha lasciato fare, ha consentito, con miliardi di forniture di armi, che fosse portato a termine il massacro che abbiamo sotto gli occhi; anche attraverso tre veti al Consiglio di sicurezza contro la proposta di cessate il fuoco e di un altro veto ad aprile proprio sull’ingresso a pieno titolo della Palestina nell’Onu; e dopo avere deciso la sospensione dei fondi all’Unrwa perché «infiltrata» – accusa mai provata -, una decisione criminale alla quale Meloni, la «cocca di Biden» secondo i media Usa, si è subito accodata.
Qual è il punto? Biden “tentenna”, tira il sasso e nasconde la mano, al punto da “scoprire” in queste ore, rivela la Cnn, che le armi fornite dagli Usa a Israele – in particolare una superbomba sperimentata già in Vietnam – «potrebbero» essere state usate contro i civili, «contro il diritto internazionale». Perché c’è un modo di bombardare i civili salvando il diritto internazionale? No, come dimostrano Iraq e Afghanistan? E poi, la carneficina è durata sette mesi e se ne accorge ora? Ben prima se n’è accorta la Corte di giustizia internazionale dove ora Israele è imputata per «plausibile genocidio».
Ma l’operazione di fondo, degli Stati uniti e dell’Occidente, è vedere i palestinesi non come soggetti aventi diritti, alla vita e alla terra, alla dignità e a uno Stato, ma come ombre elemosinanti, affamati in lamento, feriti e mutilati alla fine da supportare, insomma gli ultimissimi della terra ridotti ad una condizione di subalternità così profonda che l’indigenza cancelli le aspirazioni umane e politiche. Per altro c’è in ballo la gestione «politica» dei cosiddetti aiuti e l’affare della «ricostruzione». E tra le responsabilità della coppia Biden-Blink – gli daremo il Nobel della pace? – c’è quella di essersi spostata strategicamente a destra sul campo di Trump, continuando a mantenere in vita lo scellerato Patto di Abramo che vede Netanyahu e Arabia saudita protagonisti, firmato sulla pelle dei palestinesi esclusi.
Certo il voto dell’Assemblea generale dell’Onu non riporterà in vita i 15mila bambini uccisi nell’offensiva impari di Netanyahu scatenata a Gaza come vendetta dell’eccidio del 7 ottobre, né torneranno in vita e abili i corpi di migliaia di donne, uomini, anziani feriti e mutilati. Siamo a 35 mila morti e Il massacro non è finito. L’immagine più bella che abbiamo visto in questo periodo sono stati gli striscioni dei bambini di Gaza che ringraziano gli studenti in rivolta dei campus statunitensi.
In questo momento, mentre Rafah è sotto i bombardamenti e si contano decine di vittime, il risultato del voto all’Onu arriva a chi fugge sotto le bombe, dà futuro ai bambini che scampano la morte, coraggio a chi garantisce la sopravvivenza civile, speranza a chi combatte contro la violenza dei coloni in Cisgiordania. Sventolare oggi la bandiera palestinese è sempre più parte della difesa del diritto internazionale, è contro la guerra, è per una vera pace. Che lo dica l’assemblea dell’Onu, che non lo dica il Consiglio di sicurezza, c’è una Palestina-Mondo, secondo le parole e il pensiero di Nelson Mandela, che è misura della nostra libertà.
300mila in fuga, tank al sud
RAFAH O MORTE. Dopo la zona Est ora sotto tiro sono i quartieri centrali. Ma Sinwar non è più nella città. Trovata una nuova fossa comune allo Shifa. Morto l’ostaggio Nadav Popplewell. Hamas: è stato ucciso dalle bombe israeliane. In Cisgiordania le commemorazioni di Shireen Abu Akleh, la giornalista uccisa nel 2022 da Israele
Michele Giorgio 12/04/2024
Nidal Abu Samadana preferisce Deir al Balah. «Gli israeliani ci ordinano di andare a Mawasi e Khan Yunis, ma noi andiamo al centro di Gaza» dice mentre carica di cibo, abiti e altro sulla sua vecchia Opel con l’aiuto della moglie e dei quattro figli. «A Mawasi non c’è più posto, vanno tutti lì. A Khan Yunis non c’è nulla, è un deserto di macerie», aggiunge stringendo con una corda i materassi sottili che saranno i letti per la sua famiglia nelle prossime settimane o, forse, mesi. «Cosa sarà di noi non lo so, sappiamo solo che a Deir al Balah abbiamo qualche possibilità in più di trovare posto e di scampare ai bombardamenti», conclude Abu Samadana residente nel quartiere di Khirbat al Adas di Rafah. Da ieri è uno dei circa 300mila palestinesi, abitanti e sfollati, che negli ultimi giorni hanno abbandonato la città con ogni mezzo, anche a piedi, in seguito ai nuovi ordini di evacuazione lanciati dall’esercito israeliano che dall’est di Rafah ora comincia ad avanzare verso il centro. Un fiume umano che si ingrossa di ora in ora mentre, lo mostrano le immagini satellitari, si svuotano di pari passo le tendopoli allestite per accogliere sul confine con l’Egitto un milione di sfollati prima dal nord di Gaza e poi anche dal centro e da Khan Yunis riemersa distrutta dopo tre mesi di attacchi militari.
L’esercito israeliano avanza lungo il confine tra Gaza e l’Egitto ma colpisce anche nel nord e nel centro, con intensi bombardamenti di aerei e carri armati. «Decine di civili, fra cui un giornalista, Bahaa Okasha, sua moglie e suo figlio, sono stati uccisi a Jabaliya e altri sono rimasti feriti», scriveva ieri l’agenzia di stampa Wafa. Altre vittime a Gaza city, dove è stata colpita l’abitazione della famiglia Siam. Dieci morti anche ad Al Zawaida, nel centro della Striscia: una bomba ha polverizzato la casa della famiglia Al Khatib. Al Jazeera ieri ha mostrato immagini di corpi di vittime chiusi negli involucri bianchi divenuti uno dei simboli più tristi di questa offensiva israeliana cominciata sette mesi fa. Cadaveri, una trentina, che non possono essere conservati in attesa del riconoscimento nei frigoriferi dell’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah. Non c’è posto e vanno seppelliti al più presto.All’ospedale Shifa di Gaza city, è stata trovata un’altra fossa comune, con almeno 80 corpi, la quinta da quando le truppe israeliane hanno concluso circa due mesi fa l’«operazione antiterrorismo», in cui centinaia di palestinesi sono stati uccisi o arrestati. Sono una dozzina le fosse comuni che i palestinesi hanno denunciato in questi mesi, nei pressi di ospedali come lo Shifa e il Nasser di Khan Yunis.
Le truppe israeliane continuano i rastrellamenti a Zeitun (Gaza city), a Jabaliya e Beit Lahiya dove, secondo i comandi militari, Hamas starebbe riorganizzando le sue forze speciali, le unità Nukhba. Si tratta di combattenti che in gran parte si trovavano a Rafah e che, prima dell’avanzata annunciata e poi attuata da Israele contro la città – «per distruggere quattro battaglioni di Hamas», ripete il premier Netanyahu –, hanno abbandonato la città per evitare di essere presi in trappola. Uno sviluppo che rende ancora più amaro il destino di Rafah che rischia di finire in macerie come gli altri centri abitati della Striscia. Peraltro, gli apparati militari israeliani ammettono che il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, non si nasconde più a Rafah. Secondo informazioni di intelligence, si troverebbe in tunnel nell’area di Khan Younis.Il Times of Israel, citando funzionari governativi, scrive che molti combattenti di Hamas a Rafah si sono riorganizzati al nord e in altre aree di cui Israele nei mesi scorsi diceva di avere preso il controllo. L’esercito sa bene che il gioco del gatto e del topo andrà avanti per lungo tempo se non ci sarà una tregua, perché l’ala militare del movimento islamico dopo sette mesi è ancora ben organizzata e in grado di infliggere perdite alle forze israeliane con le tattiche classiche della guerriglia. I «successi» militari israeliani appaiono di breve durata, anche perché Netanyahu non ha trovato alcuna «parte civile» disposta ad amministrare le aree occupate di Gaza collaborando con le forze di occupazione e contro la resistenza palestinese. Le sue posizioni ideologiche, sempre più vicine alla destra radicale, gli impediscono di coinvolgere l’Autorità Nazionale di Abu Mazen perché, con l’appoggio degli Usa e dell’Europa, afferma di voler costruire uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. La destra israeliana invece vuole mantenere Gaza sotto il controllo di Israele e ricostruire gli insediamenti ebraici.
Ieri Hamas ha diffuso un video annunciando che l’ostaggio israeliano, con cittadinanza britannica, Nadav Popplewell, è «morto per le ferite riportate durante un raid israeliano» più di un mese fa. A Tel Aviv, con lo slogan «Riportate a casa i vivi e i morti», ieri sono scese in piazza le famiglie degli ostaggi per chiedere un accordo con Hamas per il loro rilascio. In Cisgiordania i palestinesi hanno commemorato Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa due anni fa a Jenin da spari di soldati israeliani durante una incursione dell’esercito nel campo profughi della città.
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