AUTONOMIA. PREMIERATO. JOBS ACT E CITTADINANZA. NIENTE TATTICISMI: OPPOSIZIONI IN CAMPO da IL FATTO
Autonomia, nuove firme per un altro referendum
Massimo Villone 30 Gennaio 2025
L’uscita dall’aula della magistratura nell’apertura a Napoli dell’Anno giudiziario trova dopo poche ore un sequel nel complottismo gridato sui social da Giorgia Meloni per l’avviso ricevuto nella vicenda Almasri. È una vendetta per la riforma e la separazione delle carriere? Ovviamente no. Anzi, ne viene un messaggio al di là della questione giustizia: che nel paese è oggi irrealizzabile l’obiettivo di riforme condivise, costruite attraverso ragionati confronti e reciproci convincimenti.
Del resto, non potrebbe andare diversamente quando chi ha in mano le leve del potere vuole “rivoltare il paese come un calzino” (copyright Meloni) e adotta univoche iniziative in tal senso. Nel suo piccolo, un trumpismo all’italiana, nella periferia dell’impero in cui altri comandano. Siamo comunque chiamati a rispondere. Ma come? Non sembra dubbio che la prima opzione sia portare il paese “da rivoltare” a dire la sua. Soprattutto in un momento di radicali e devastanti cambiamenti per popoli e paesi. Qui si coglie l’importanza di una strategia referendaria Al netto di sussurri non confermati di una voglia di Meloni per elezioni anticipate, al voto popolare si giungerà probabilmente per premierato e giustizia, se si riuscirà a evitare uno shopping di maggioranza nelle opposizioni. Per l’autonomia differenziata (Ad) ha invece provveduto la Corte costituzionale. È incorsa, dichiarando inammissibile il referendum chiesto da 1.300.000 elettrici ed elettori, in un infortunio malamente coperto dalla debole difesa di ufficio del presidente Amoroso nella conferenza stampa del 21 gennaio.
Il pensiero della Corte si trae già in chiaro in base al comunicato del 20 gennaio e alla conferenza stampa. La sentenza 192 ha prodotto – dice Amoroso – una “obiettiva non chiarezza dell’oggetto del quesito”; ciò che residua è difficilmente comprensibile per l’elettore; ne viene lesa, secondo la giurisprudenza della stessa Corte, la libera scelta dell’elettore, che spetta alla Corte tutelare; per la migliore tutela la Corte toglie all’elettore il diritto di votare dichiarando l’inammissibilità. Un ossimoro costituzionale? Tra l’altro aggravato dalla considerazione che il popolo sovrano può essere chiamato a pronunciarsi sull’Ad solo per la Calderoli, e non successivamente per le leggi approvative di singole intese, che ancora in virtù della giurisprudenza costituzionale saranno sottratte a referendum, in quanto leggi rinforzate. Con l’aggiuntivo paradosso che sull’Ad la Corte ha consentito (sent. 118/2015) il voto al popolo veneto (inesistente, sent. 192/2024), mentre lo nega al popolo italiano (quello vero).
Quindi è solo la Corte, oggi e domani, che imbavaglia il popolo sovrano, nell’esercizio di un diritto fondamentale di partecipazione democratica su un tema cruciale per il futuro. Si capisce bene il sollievo di Palazzo Chigi e dintorni per avere evitato le urne. Che non avrebbero avuto ad oggetto in principio l’art. 116.3 Cost., ma l’Ad come finora specificamente attuata con la legge 86. Un quesito chiaro anche dopo la sentenza 192. Rimedi? Volendo, una possibilità c’è. Con l’inammissibilità cessano le operazioni referendarie. Può allora partire un altro comitato, auspicabilmente più vitale di quello che chiude i battenti, con una nuova richiesta di referendum. Il quesito, a mio avviso, potrebbe utilmente riprodurre il testo riformulato dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza di dicembre. Questo, rispetto ad altre ipotesi, offrirebbe alcuni vantaggi. In primo luogo, conterrebbe in sé, con l’esplicito richiamo alla sentenza 192, la risposta alla “obiettiva non chiarezza” censurata dalla Corte. Inoltre, una richiesta avviata in tempi ragionevolmente brevi ripristinerebbe lo stimolo a una correzione legislativa secondo le linee della sentenza 192. Infine, partendo senza attendere l’incerto seguito legislativo alla sentenza, la richiesta potrebbe confluire con premierato e giustizia in una unica stagione referendaria. E darebbe intanto supporto ai referendum – sociali e cittadinanza – rimasti in campo.
Nessun ostacolo verrebbe alla battaglia in Parlamento delle opposizioni, comunque chiamate a incalzare Calderoli e il governo. Si può pensare, tra l’altro, a un ddl abrogativo della legge 86/2024. Ovvero a uno attuativo delle indicazioni date dalla sentenza 192. O ancora a un ddl che riprenda i non pochi punti di quello di iniziativa popolare promosso e sostenuto da me e dal Coordinamento della democrazia costituzionale richiamati nella sentenza 192. Intanto, a chi nelle opposizioni più o meno silenziosamente ringrazia la Consulta per aver sbarrato la strada al referendum diciamo che sbaglia. Temere il confronto non paga. Ma la possibilità di un ravvedimento operoso non si nega mai. Nemmeno al giudice delle leggi.
Jobs Act e Cittadinanza, niente tatticismi: opposizioni in campo
Sottosopra* 30 Gennaio 2025
La Consulta ha detto no, quindi avanti tutta. Non è il tempo per fermarsi, reclamare, gettare la spugna: tutto il contrario. La scorsa settimana, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il quesito referendario contro la legge sull’autonomia differenziata, ritenendo che di fatto chiedesse ai cittadini di esprimersi non su una norma, bensì su un principio ormai inserito in Costituzione. Parallelamente, i magistrati davano invece il via libera ad altri cinque referendum: quattro a tema lavoro, promossi dalla Cgil, con in cima quello cruciale contro lo sciaguratissimo, fin dal nome, Jobs Act; e uno per cambiare la legge sulla cittadinanza, per cui si sono mobilitati comitati ampissimi in rappresentanza di molte componenti della società, segno che il tema non è astratto ma al contrario investe in pieno il sentire e i problemi del Paese.
Ne discenda una primissima, banale, osservazione: tocca alle opposizioni allearsi con chi ha promosso i quesiti e spingere il carretto della partecipazione, mantenendo vivo lo spirito di cambiamento e di giustizia sociale che ha animato la raccolta firme. Non sono ammessi tatticismi per non risultare sconfitti, né – parlando di Jobs Act – per evitare dilaniamenti interni, considerato che furono proprio i democratici a guida Renzi a varare la riforma. Il messaggio deve essere chiaro: la cittadinanza vi guarderà. E lo farà anche e soprattutto rispetto all’Autonomia: la Corte ha infatti detto no al referendum, ma ha anche precedentemente smantellato l’impianto strutturalmente distorto della legge, indicando una serie di cruciali correttivi da prendere per portarne avanti la discussione. C’è, in questa indicazione, una grandissima opportunità per le opposizioni: rendere questi correttivi obiettivi concreti su cui dare battaglia. Significa, ed è necessario che sia chiaro da subito, non restare seduti ad aspettare che la maggioranza finga di metterci mano, bensì rendere le modifiche terreno di vera lotta politica, con il coinvolgimento della società civile, dell’associazionismo, dell’accademia e degli intellettuali.
I nodi identificati dalla Consulta, d’altronde, riguardano in pieno i diritti della cittadinanza, sono la ragione per cui la discussione intorno alla sanità, alla scuola e all’ambiente – in sostanza, a disuguaglianze intollerabili e già profondissime – si è animata e accesa, trascinando centinaia di migliaia di persone in piazza e a firmare contro la legge. Tre sono i punti cruciali nella sentenza, cioè gli obiettivi da perseguire, a partire dalla creazione del Fondo perequativo nazionale, già previsto dall’articolo 119 della Costituzione e rimasto lettera morta. Sarebbe una misura straordinaria di giustizia sociale, visto che la stessa Carta prevede che sia finanziato e utilizzato “per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. L’esatto opposto dell’autonomia che premia i ricchi e affossa gli altri. C’è poi il ruolo cruciale del Parlamento (non del governo!) nello stabilire le funzioni per le quali fissare i Livelli essenziali di prestazione (Lep) e infine la determinazione dei fabbisogni finanziari necessari per raggiungerli.
Il messaggio è semplice: tutti hanno diritto agli stessi servizi e di ugual qualità, perché così dice la Costituzione, e non tutto può essere devoluto, anzi. Rilievi che da soli distruggono nei fatti il concetto di autonomia differenziata come lo vorrebbe il governo: una fotografia dello status quo, e chi se ne importa dell’uguaglianza. Per l’opposizione l’occasione è ghiotta: dare battaglia per questi obiettivi significa lottare per il popolo e per i suoi diritti. Ma bisogna farlo subito, davvero.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità
Il premierato di fatto: ancora una truffa ai danni dei cittadini
SILVIA TRUZZI 30 Gennaio 2025
“L’argomento politico meno attraente del mondo, la riforma della legge elettorale, fa capolino nel dibattito politico sia a destra che a sinistra”. Noi, a differenza di Stefano Folli che così si esprime su Repubblica, pensiamo che pur essendo la legge elettorale un argomento complicato, sia il caso di occuparsene con costanza perché la legge elettorale regola il principio di rappresentanza, il rapporto tra elettori ed eletti. Non vale stracciarsi le vesti per cinque minuti quando la gente non va a votare e poi tornare ad argomenti più “attraenti”. Tra l’altro se i sistemi elettorali sono così complicati è colpa di politici che infarciscono le leggi di trucchetti incomprensibili ai più (tipo l’effetto flipper del Rosatellum), esattamente il contrario di quello che dovrebbero essere: i cittadini avrebbero diritto di capire come il voto si trasforma in seggi.
Perché si riparla, sebbene a piccole dosi per non annoiare la gente, di legge elettorale? Lo spiegava sabato il Corriere, con disarmante sincerità: “Siccome fatica a realizzare il premierato con una legge costituzionale, Giorgia Meloni ha in mente di introdurre la riforma con una legge elettorale. Ecco il piano B a cui lavora la presidente del Consiglio, che mira a cambiare il sistema modificando il meccanismo di voto senza toccare la Carta”. E Repubblica: “L’obiettivo è di riconsiderare alcuni aspetti del modello elettorale per arrivare a una sorta di premierato di fatto entro la fine della legislatura”.
Ancor più allarmanti i modelli di legge elettorale che s’intendono prendere in considerazione per apparecchiare la nuova porcheria, sempre secondo il Corriere: la legge per l’elezione dei sindaci delle grandi città e quella per l’elezione dei governatori, entrambe di stampo plebiscitario. La preferenza dei Fratelli d’Italia è la legge elettorale delle Regioni, cioè la peggiore possibile sul piano della rappresentanza: turno unico e maggioranza relativa, qualunque sia (da un’idea del camerata Tatarella). Il Corriere spiega: “Questo aspetto legherebbe di fatto la vita della legislatura alla durata del presidente del Consiglio, sbarrando la strada ai governi tecnici. Così Meloni realizzerebbe il disegno del premierato senza dover sfidare il Quirinale e senza dover passare da un referendum dall’esito incerto”. Referendum senza quorum, previsto dalla Carta nel caso di leggi costituzionali, proprio per dare l’ultima parola ai cittadini sulle questioni più importanti della vita democratica. E rispetto al Quirinale: Meloni crede Mattarella non si accorga che la forma di governo viene cambiata di fatto? Non c’è un articolo di giornale uscito in questi giorni che non riporti altre proposte horror, riesumate da Porcellum e Italicum, entrambi fatti a pezzi dalla Corte costituzionale: dal premio di maggioranza sebbene “costituzionalizzato” (che osservi cioè la prescrizione della Consulta sulla possibilità di attribuire un premio solo al raggiungimento di una soglia minima del 40 per cento) al ritorno dei capilista bloccati che, come nota Libero, sarebbero un vantaggio per i segretari di partito che “avrebbero la possibilità di portare in Parlamento i fedelissimi”.
È sconcertante che i maggiori quotidiani del Paese scrivano che la maggioranza vuole dare una picconata fatale alla Costituzione cambiando la forma di governo con una legge ordinaria come se fosse una cosa accettabile. Da oltre un ventennio le leggi elettorali sono architettate al servizio dei partiti e non dei cittadini. Saranno anche poco “attraenti”, ma sono l’architrave che regge la nostra ormai malconcia democrazia.
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