AUTONOMIA, CI SAREBBERO PURE LE REGIONI DI SERIE C da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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AUTONOMIA, CI SAREBBERO PURE LE REGIONI DI SERIE C da IL MANIFESTO

Autonomia, ci sarebbero pure le regioni di serie C

 Massimo Villone  25 Settembre 2024

Giunge in Cassazione il 26 settembre oltre un milione di firme per il referendum abrogativo della legge 86/2024 sull’autonomia differenziata (AD). Un risultato straordinario sul quale nessuno – considerando il mese di agosto – avrebbe scommesso all’avvio della raccolta. Sono stati inoltre presentati ricorsi alla Consulta da parte di Puglia, Toscana, Sardegna e Campania.

Ma qual è l’obiettivo? Lo ricostruiamo attraverso un intervento del governatore Bankitalia Panetta (Caserta, 19.09); un orientamento da ultimo emerso sui livelli essenziali delle prestazioni nel CLep presieduto da Sabino Cassese; un confronto tra Flick, presidente del comitato referendario, e Zaia, governatore del Veneto (Corriere delle Alpi, 22.09).

Panetta afferma che il divario territoriale Nord-Sud “non può essere colmato con misure di natura assistenziale e con una mera azione redistributiva, ma richiede politiche volte a stimolare lo sviluppo delle regioni meridionali”. Richiama più volte politiche sulle infrastrutture strategiche, porti, aeroporti, ferrovie, comunicazione, digitalizzazione, energia. Sottolinea che se il Sud non cresce, il paese rimane al palo. Giusto, e condividiamo. Ma allora una domanda: se quelle materie fossero regionalizzate e le funzioni essenziali trasferite dal centro in periferia, le politiche necessarie sarebbero ancora possibili? O richiedono che le scelte e l’implementazione rimangano a livello nazionale?

Il confronto Flick-Zaia in sostanza conferma che i sostenitori dell’AD il problema non se lo pongono affatto. Leggono l’art. 116.3 della Costituzione nel senso che sulle 23 materie richiamate nella norma le regioni possono chiedere tutto di tutto, in base all’assunto indimostrato e indimostrabile di un vantaggio nella qualità dei servizi, nei costi, nell’efficienza. Non contano le esternalità su altre regioni e sul sistema paese. Non si considera affatto la diversa lettura – compatibilmente con l’assetto stato-regione disegnato dal Titolo V – per cui l’art. 116.3 richiede una specificità territoriale a sostegno della maggiore autonomia richiesta.

Infine, il CLep. Gianfranco Viesti su queste pagine (20 settembre) ha svelato l’arcano. Un sottogruppo di “esperti” ha elaborato un documento che apre a differenziare i Lep, “in base alle caratteristiche dei diversi territori, clima, costo della vita e agli aspetti sociodemografici della popolazione residente”. Qui vediamo la quadratura del cerchio per realizzare l’AD. Il tutto in sostanziale segretezza e pieno conflitto di interessi, per la presenza dominante nel percorso disegnato da Calderoli di consulenti e sodali di Zaia.

Per paradosso, è un passo avanti. L’AD non spacca il paese, perché lo frantuma. Non più solo cittadini di serie A e B, giungiamo ai campionati di promozione. In pieno contrasto con le norme costituzionali sui diritti, con quella dell’art. 3.2, e con il principio fondamentalissimo della Repubblica una e indivisibile. È truffaldina la rappresentazione di unità per una Repubblica di insanabilmente diseguali.

Non per caso ho promosso e sostenuto con il Coordinamento per la democrazia costituzionale un ddl costituzionale di iniziativa popolare giunto – con il sostegno determinante dei sindacati scuola CGIL, UIL e Gilda – con 106000 firme all’aula del Senato (AS 764). È stato bocciato dalla destra nella seduta del 24.01.2024. Uno dei punti essenziali era la modifica dei “livelli essenziali” in “livelli uniformi”.

Ed ecco l’obiettivo del referendum e dei ricorsi. Il primo con il quesito abrogativo totale (non quello parziale delle regioni, che è un errore) punta ad azzerare il percorso fin qui realizzato da Calderoli. Si riparta dall’inizio. Mentre i ricorsi puntano ad ottenere dalla Consulta una lettura costituzionalmente corretta e cogente dell’art. 116.3, che ne orienti dopo la nuova partenza l’attuazione, senza rischi per l’eguaglianza dei diritti e per il sistema paese. E sono il vero paracadute nel caso la Consulta dichiari inammissibile il quesito abrogativo totale.

Ma si coglie anche un obiettivo più ampio. Il referendum sulla cittadinanza dal 6 settembre già raggiunge la soglia di 500000 firme online. Raccolte dal divano, direbbe Calderoli. Ma è un divano con cui tutti dovremo fare i conti. Si aggiungono i referendum sociali promossi dalla CGIL. Cosa se ne trae? Vediamo il paese chiedere – sui temi che corrono nel profondo del sentire collettivo – diritti, eguaglianza, partecipazione. Mentre l’indirizzo di governo va in senso opposto, nell’esecrabile ddl sicurezza, nella deterrenza per la critica, il dissenso e la libera informazione, nelle riforme promosse tra cui l’AD.

Traspaiono nella stagione referendaria primi elementi di una politica nuova e di un’alternativa di governo. In breve, di una Italia futura che è possibile costruire.

L’inganno dei Lep fatti in questo modo: i diritti sotto il minimo

Costituzione stravolta L’autonomia differenziata avanza nell’ombra: il processo di identificazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) si svolge nel modo opaco che ha raccontato ieri il manifesto, il sistema di garanzia uniforme […]

Lorenzo Spadacini  25/09/2024

L’autonomia differenziata avanza nell’ombra: il processo di identificazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) si svolge nel modo opaco che ha raccontato ieri il manifesto, il sistema di garanzia uniforme dei diritti civili e sociali si spoliticizza. E si tradisce l’obiettivo del regionalismo voluto dalla Costituzione.

Esso derivava dall’avversione ai caratteri centralisti che il fascismo aveva accentuato per sopire ogni dissenso delle comunità locali, ed era volto a rafforzare la partecipazione democratica alle decisioni pubbliche nell’ambito di una articolazione solidale della Repubblica.

È un percorso verso l’innovazione e la partecipazione che le regioni avevano timidamente intrapreso negli anni Settanta. Del tutto smarrito con l’introduzione dell’elezione diretta dei loro presidenti e la degradazione dell’elezione dei Consigli regionali a mera conseguenza meccanica dell’elezione dei vertici dell’esecutivo.

Gli effetti negativi sulla partecipazione democratica sono stati a lungo sottovalutati, tanto che il centrodestra ha imperniato sulla stessa logica la sua proposta di premierato.

Sistemi simili concentrano la legittimazione politica nel vertice dell’esecutivo e svalutano il ruolo delle assemblee rappresentative. Ne consegue che il processo di composizione delle decisioni pubbliche non è più articolato sul ruolo dei membri delle assemblee, in relazione plurale con i cittadini per il tramite dei partiti. Esso è svilito a rapporto tra elettorato e leader. Ma in questo modo si rischia di fuoriuscire dalla democrazia costituzionale per approdare a forme di populismo identitario.

Anche la realizzazione dell’autonomia nella solidarietà si allontana. Infatti, non si dà attuazione all’articolo 119 della Costituzione, che è il cardine del funzionamento solidale del nuovo sistema di autonomie. Esso prevedeva l’istituzione di «un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante», sufficientemente capiente da assicurare il finanziamento completo di tutte le funzioni regionali.

Solo un’integrale perequazione, del resto, consente di realizzare quel sistema fondato su autonome decisioni tributarie delle Regioni che avrebbe fatto da contraltare alla loro autonomia di spesa.

Anziché attuare un sistema di autonomia impositiva integralmente perequato, si è invece mantenuto il vecchio meccanismo di trasferimenti statali: lo stato stabilisce l’ammontare dei fondi da trasferire alle regioni (e la loro destinazione) e la quota che spetta a ciascuna di esse viene calcolata con un meccanismo che, nel sistema della legge Calderoli, ha completamente snaturato la funzione dei Lep.

I livelli essenziali delle prestazioni sono richiamati dalla Costituzione allo scopo di consentire allo stato di limitare l’autonomia regionale in tutti i casi in cui intenda assicurare omogeneamente sul territorio determinati diritti. Tali livelli, peraltro, dovrebbero essere superiori a quelli minimi, che derivano direttamente dalla Costituzione e non sono nella disponibilità delle maggioranze parlamentari. Figuriamoci se possono essere relegati agli organi tecnici organizzati con il sistema delle scatole cinesi che ha raccontato ieri il manifesto.

Nel sistema della legge Calderoli, infatti, i Lep sono ridotti a indici per la ripartizione tra regioni dell’ammontare delle risorse stanziate dallo stato.

È un sistema in cui lo stato tassa e le regioni spendono, con la conseguenza che l’ammontare stabilito dallo stato per la garanzia dei diritti sarà inevitabilmente limitato al finanziamento dei soli livelli minimi o, più probabilmente, di una loro frazione.

Ne è prova ciò che già oggi accade in sanità con un meccanismo del tutto analogo. Invece, l’attuazione dell’autonomia impositiva regionale restituirebbe alle regioni la possibilità di usare la propria capacità fiscale e il fondo di perequazione per finanziare livelli di servizio superiori.

Non solo si accentuerebbe il sistema di responsabilità politica delle maggioranze regionali verso i cittadini, ma si aprirebbero spazi di partecipazione democratica decentrata più concreti.

Anche per chi crede che il sistema delle autonomie regionali andrebbe potenziato per favorire la partecipazione democratica all’interno di un quadro responsabile e integralmente solidale, come vuole la Costituzione, la legge Calderoli è un ulteriore passo indietro. Ciò basta e avanza per impegnarsi per la sua abrogazione.

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