AUSCHWITZ E LA SCELTA DI SISIFO, LA SFIDA PER COSTRUIRE IL DOMANI da IL MANIFESTO
Auschwitz e la scelta di Sisifo, la sfida per costruire il domani
Giorno della Memoria Intervista a David Bidussa, autore di «Pensare stanca», per Feltrinelli
Lia Tagliacozzo 25/01/2025
«La prima cosa da dire è che la liberazione di Auschwitz non è avvenuta ottant’anni fa ma è entrata nella coscienza collettiva solo quando abbiamo davvero cominciato a narrare per raccontarla». Storico delle idee, David Bidussa, a lungo direttore della Fondazione Feltrinelli, studioso della contemporaneità con molti titoli all’attivo (l’ultimo è Pensare stanca: passato presente e futuro dell’intellettuale, Feltrinelli, pp. 224, euro 18), ha risposto alle domande del manifesto sul significato del Giorno della memoria, a ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz da parte delle truppe dell’Armata rossa.
Ha senso continuare a ricordare Auschwitz o è una memoria che va lasciata andare. È forse giunto il momento di consegnarla all’oblio?
Ciò che racconti è il preambolo per ciò che vuoi fare dopo. Ritengo che celebriamo la liberazione di Auschwitz perché, in qualche modo, siamo capaci di costruire un domani: la liberazione del più grande campo di sterminio invece, nella mia opinione, è un tempo e un territorio di nessuno. Non è ancora «domani».
Auschwitz, quindi, è fuori dalla storia?
No, affatto, significa che è il momento più profondo dell’esserci nella storia. Usiamo un’immagine letteraria: quella di Albert Camus sul mito di Sisifo. Sisifo può decidere di rimanere seduto a guardare la pietra che sta in fondo al baratro. In quel frangente è sconfitto. Può però decidere di scendere nell’antro e ricominciare a spingere: nel momento in cui prende quella decisione, si alza in piedi e scende verso l’antro, lui è più forte della pietra. Penso che per noi Auschwitz abbia senso esclusivamente se lo immaginiamo come Sisifo che si rialza e scende: fin quando semplicemente guardiamo l’antro e il masso che sta in fondo, siamo subordinati a quella pietra.
E cosa significa oggi «scendere nell’antro»?
Significa non assumere come scena della riflessione solo e prevalentemente la figura della morte, la figura del degrado del corpo e provare a considerare un’altra forma della politica.
Come si può restituire una prospettiva alla politica dopo Auschwitz?
Significa per prima cosa sapere che si può sbagliare. Esci da quel buco se hai dubbi, non se hai certezze. È uno dei difetti della politica di questi tempi ritenere che si possa rispondere ai disastri immaginando di aver ragione: devi mettere in discussione il tuo paradigma culturale perché non è esente da quell’esito.
È possibile pensare Auschwitz senza un’idea di futuro?
Il futuro si può immaginare esclusivamente con la consapevolezza dell’errore, se sai che potresti non possedere tutto il sapere per costruire un’alternativa. Futuro è prima di tutto la possibilità di ibridare. Non credere che la tua cultura abbia tutte le risposte per reagire al tempo presente. La scena di Auschwitz comporta una richiesta: se vuoi superarla, devi indagare le premesse culturali e politiche che l’hanno resa possibile. È importante farsi carico di un’analisi delle culture politiche che hanno fatto parte complessivamente di quell’esito.
In tutto ciò, che ruolo ha la memoria, così come la raccontiamo ai ragazzi, destinatari della legge sul Giorno della memoria e a tutti coloro che sono i destinatari delle iniziative legate a questa data?
Dovremmo raccontare tutte le numerose strade tra loro diverse – in alcuni casi intenzionali, in altre non intenzionali, in altre ancora casuali – che conducono a quella scena. Sono convinto che tutti i processi di genocidio e di sterminio siano il risultato della costruzione di un nemico inteso come entità con cui è impossibile coabitare e che io devo eliminare. Perché questo avvenga, però, non basta semplicemente che qualcuno agisca in qualche modo, perché nel Novecento le politiche sono state proprio costruzione di opinioni pubbliche.
E nel Duemila?
La prima necessità è comprendere che i fenomeni di questo genere avvengono puntando sulla dimensione dell’obbedienza. Una volta che analizzi la macchina che è stata Auschwitz, la prima domanda che devi farti non è come sia stato possibile, ma dove fosse l’opposizione. Dov’era un’opinione pubblica che non era d’accordo? Possiamo farci atterrire dalle condizioni fisiche di chi è stato trovato sopravvissuto il 27 gennaio mattina, ma quel sopravvissuto non è altro che l’ultimo step di un lungo percorso in cui, all’origine, c’è un’opinione pubblica che è stata costruita perché quel percorso possa avvenire. Quindi, il primo dato su cui ragionare è se noi ci raccontiamo una storia che riguarda le convinzioni nazionali, come costruisci la categoria di amico-nemico, quale sensibilità politica e culturale viene messa in campo. Dobbiamo cominciare a riflettere sulle società civili acquiescenti e senza opposizioni.
Adesso che i testimoni stanno scomparendo, che i luoghi della memoria sono sottoposti all’usura del tempo, quali strumenti adoperare?
C’è una sfida che si va ad aggiungere: è una sfida in termini di creatività, di capacità di provare emozione. Riguarda tanto l’abilità di tessere un discorso storico quanto la capacità in termini creativi, letterari, cinematografici. C’è un fronte dei sentimenti sul quale si gioca una partita importante.
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