ASSALNY da IL FATTO e IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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ASSALNY da IL FATTO e IL MANIFESTO

“Se estradato in Usa, Assange può essere condannato a morte”

LIBERTÀ A RISCHIO – Il giorno della difesa. I legali: “Vi ricordiamo che la Cia ha già tentato di rapirlo e ucciderlo”. Ufficialmente rischia 175 anni di reclusione

STEFANIA MAURIZI  21 FEBBRAIO 2024

Alle 7:30 di ieri mattina davanti all’imponente edificio vittoriano della Royal Court of Justice di Londra, era già pronto un carnevale di attivisti, con nastri gialli, striscioni, cartelloni e magliette. Free Julian Assange! Dall’altra parte della strada, iniziava a formarsi una lunga fila di telecamere e reporter, in attesa del primo giorno di udienza davanti alla High Court del Regno Unito che dovrà decidere se rigettare o meno il ricorso contro l’estradizione negli Stati Uniti, presentato dal fondatore di WikiLeaks. In primo grado, la giudice Vanessa Baraitser l’aveva negato esclusivamente perché aveva ritenuto fondato il rischio che, se trasferito negli Usa, Assange commetta un suicidio, ma le autorità americane, che vogliono estradarlo e processarlo per la pubblicazione di 700 mila documenti segreti, hanno offerto garanzie per cercare di mitigare questo rischio suicidio. E per ben due volte la High Court del Regno Unito ha accettato le argomentazioni degli americani.

Questa è la terza volta che la difesa di Assange si appella alla High Court. Stavolta la Corte salverà in extremis Julian Assange? Alle nove di mattina di ieri, primo giorno di dibattimento, noi giornalisti siamo stati ammessi all’udienza e siamo stati invitati a salire su una stretta scala a chiocciola in pietra, stile castello di Hogwarts della saga di Harry Potter, in quel maestoso edificio gotico-vittoriano che è l’Alta corte per assistere all’udienza da una galleria con austeri sedili di legno, sprovvista delle più basilari dotazioni del Ventunesimo secolo: non un tavolo dove appoggiare i nostri computer o prendere appunti, non una presa elettrica. Alle 10:30 quando l’udienza davanti ai due giudici della High Court è iniziata, riuscire a capire una sola parola di quello che veniva discusso era letteralmente impossibile, tanto che alcuni reporter hanno mollato. Solo nel pomeriggio siamo riusciti a seguire il dibattimento in modo adeguato. Una delle ragioni per essere lì di persona era osservare da vicino le condizioni fisiche di Julian Assange: l’ultima volta che noi giornalisti l’abbiamo visto era l’ottobre del 2021, quando si era collegato in videoconferenza dalla prigione di Belmarsh, in cui è detenuto dall’11 aprile 2019, in attesa che la giustizia inglese decida sulla sua estradizione. Quell’ottobre del 2021, Assange era apparso in condizioni terribili: fortemente invecchiato, tanto da sembrare un anziano malato e depresso. Avremmo saputo soltanto dopo perché era in quelle condizioni.

Ieri invece non era proprio in aula: stava male. Nel corso dell’udienza di ieri i due legali di Assange, Mark Summers ed Edward Fitzgerald hanno illustrato gli argomenti della difesa, mentre stamani sarà l’accusa, il governo degli Stati Uniti, a presentare le sue. Summers ha sottolineato come in primo grado la giudice Vanessa Baraitser non avesse valutato in modo adeguato l’interesse pubblico delle rivelazioni di WikiLeaks per cui Julian Assange è incriminato e rischia 175 anni di prigione negli Stati Uniti: si tratta di rivelazioni che hanno permesso di far emergere crimini di guerra, torture, uccisioni stragiudiziali con i droni, così importanti, che per esempio hanno permesso di far cessare gli attacchi con i droni in Pakistan. Summers ha argomentato come queste attività giornalistiche siano protette dall’articolo 10 della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo. La difesa di Julian Assange ha anche affrontato in grande profondità tre questioni chiave: i piani della Cia – allora comandata dal trumpiano Mike Pompeo – per ucciderlo o rapirlo; le dichiarazioni delle autorità americane secondo cui Assange, non essendo un cittadino americano, non è protetto dal First amendment, la fortissima protezione costituzionale che gli Stati Uniti garantiscono alla stampa, e che nel 1971 permise al New York Times e al Washington Post di pubblicare i Pentagon Papers; infine il rischio che le autorità americane, una volta trasferito Assange sul suolo degli Stati Uniti, possano riformulare le accuse contro il fondatore di WikiLeaks in modo da prevedere la pena di morte.

Anche la fonte di WikiLeaks, Chelsea Manning, in un primo tempo era stata incriminata con l’accusa “di aver aiutato il nemico” che è punibile con la pena capitale. “È pura follia che in questa udienza stiamo a parlare delle ragioni per cui l’uomo che ha rivelato crimini di Stato, non dovrebbe essere mandato in prigione per 175 anni nella nazione che ha pianificato di rapirlo o assassinarlo. Quella stessa nazione di cui lui ha rivelato i crimini”, ha dichiarato il giornalista di WikiLeaks, Joseph Farrell al Fatto Quotidiano.

«Con l’Espionage Act vogliono rinchiudere Assange per punire tutti»

INTERVISTA. Alan Rusbridger, direttore del Guardian per vent’anni – e un po’ lo scopritore di Wikileaks: “Il punto di queste leggi è che non c’è difesa, non si può dire “ecco il motivo per cui l’ho fatto”, come nella maggior parte degli altri crimini. E non è un caso”

Leonardo Clausi, LONDRA  21/02/2024

Alan Rusbridger è il direttore di Prospect Magazine, il principale mensile politico del Regno unito. Ha diretto il Guardian per vent’anni, dal 1995 al 2015.

Negli ultimi cinque anni della sua direzione, il giornale ha pubblicato svariati scoop seguiti a livello globale, in particolare le rivelazioni dei cablogrammi diplomatici di Wikileaks, la divulgazione di torture ed estradizioni illegali e, nel 2013, le rivelazioni di Edward Snowden sulla sorveglianza di massa da parte della Nsa.

Ho visto che sei stato molto esplicito su questo caso, e hai preso posizione. Qual è la posta in gioco?
Beh, penso che sia una cattiva idea usare l’Espionage Act contro qualcuno che sta facendo quello che Julian stava facendo. Non credo che nessuno pensi seriamente che si trattasse di spionaggio. E il pericolo è che se si estrada qualcuno negli Stati Uniti con successo, i giornalisti che al momento non stanno prendendo molto sul serio questo caso potrebbero ritrovarsi con un brutto precedente.

Qual è la tua scommessa sul possibile risultato di questo appello?
Nessuna. Questa è la terza, terza volta che è stato in tribunale. E finora, hanno vinto una volta ciascuno. Potrebbe andare in entrambi i modi.

Se va male è una situazione di non ritorno in tutti i sensi.
Penso che sia una tendenza pericolosa dei governi che usano la segretezza di Stato e la legislazione sullo spionaggio. E il punto di queste leggi è che non c’è difesa, che non si può dire “questo è il motivo per cui l’ho fatto”, cosa possibile nella maggior parte degli altri crimini. Quindi non è un caso per me che stiano usando quella legge, perché vogliono solo rinchiuderlo e punire altri, dissuadendoli dallo scrivere di ciò che si vuole mantenere segreto.

E perché pensi che il Regno Unito abbia adottato una posizione così subordinata rispetto agli Stati Uniti? A causa della Special relationship?
Prova a pensarci. Immaginiamo se fosse un giornalista americano che vive in Gran Bretagna a scrivere del programma nucleare indiano. Riuscite a immaginare che l’America accetterebbe che un giornalista americano venga gettato in prigione in India? Non accadrebbe mai. Quindi mi sgomenta che questo stia accadendo.

Assalny

marco travaglio  21 FEBBRAIO 2024

Mentre in Russia i media di regime (tutti) dedicano poche righe a Navalny e grande spazio al ritorno in tavola delle banane e dei gamberetti, che finora scarseggiavano per le sanzioni, in Italia i media di regime (tutti tranne due o tre) riservano pagine e pagine a Navalny e neppure una riga all’udienza dell’Alta Corte di Londra sull’estradizione di Assange negli Usa. Repubblica, come sempre, batte tutti: 7 pagine su Navalny e non una sillaba su Assange, recluso da 12 anni a Londra, prima nell’ambasciata d’Ecuador poi in carcere, che ora rischia di marcire in una galera americana per il resto dei suoi giorni per aver documentato i crimini di guerra della Nato. Anziché vergognarsi, Stefano Cappellini rivendica la censura: “Chi si impunta a cambiare discorso per parlare di Assange lo fa con un obiettivo chiarissimo e ripugnante: sminuire la morte di Navalny e suggerire che l’Occidente fa come o peggio di Putin”. E va capito: chi fa pseudogiornalismo embedded non riesce a concepire il vero giornalismo contro il potere. Il poveretto finge di non sapere che l’udienza su Assange è una notizia e va data a prescindere dal giudizio (poteva parlarne e poi chiedere la garrota). O forse pensa che il Fatto si sia messo d’accordo mesi fa con l’Alta Corte per fissare l’udienza il 20 febbraio dopo aver saputo da Putin (e da chi se no?) che Navalny sarebbe morto il 16.

Ribaltare il suo sragionamento a pene canino sarebbe facile: chi cambia discorso per parlare di Navalny lo fa allo scopo ripugnante di sminuire la persecuzione di Assange. Ma significherebbe ridursi al suo livello, cioè sottozero. Noi, per strano che possa sembrargli, proviamo lo stesso sdegno per i perseguitati da tutti i regimi: Navalny (malgrado le sue idee razziste), Assange, Khashoggi (segato a pezzi dai servizi di Bin Salman), Gonzalo Lira (il blogger cileno e cittadino Usa arrestato perché criticava Zelensky e morto in un carcere ucraino), Andrea Rocchelli (il reporter italiano assassinato dalle truppe ucraine nel 2014 mentre documentava la guerra civile in Donbass e ancora in attesa di giustizia). Versiamo le stesse lacrime per i civili caduti in tutte le guerre: ucraini uccisi dai russi, ucraini del Donbass ammazzati dagli ucraini di Kiev, israeliani trucidati da Hamas, palestinesi sterminati da Israele. E siamo antifascisti contro tutti i fascisti: quelli italiani ed europei (inclusi i fascio-atlantisti finlandesi e baltici), quelli russi della Wagner e del nazionalismo navalnyano, quelli ucraini dell’Azov e di alcuni partiti filo-Zelensky. E non vediamo l’ora che qualcuno stili la hit parade dei crimini di guerra per scoprire se “l’Occidente fa come o peggio di Putin”. Nell’attesa, l’Occidente ha già stravinto a mani basse un campionato: quello dell’ipocrisia.

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