ALLA CORTE DELL’AJA L’UMANITÀ È AL BIVIO da IL MANIFESTO
Alla Corte dell’Aja l’umanità è al bivio
ISRAELE/PALESTINA. Davanti alla Corte, da una parte c’è lo spiraglio di una simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati. Dall’altra la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali mutandosi in guerra
Roberta De Monticelli 19/01/2024
Israele a processo davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. E la pronunzia di quel nome terribile che squarcia tutti i tabù e gli interdetti, genocidio, suscitando raffiche di riprovazioni e negazioni sparate dai politici, israeliani e no. Anthony Blinken in testa, secondo il quale l’azione legale sudafricana «distrae il mondo». Da cosa? Come se un’accusa di genocidio fosse una fola che non merita di essere presa sul serio!
E invece proprio all’Aja l’umanità è al bivio, per citare Luigi Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra (Feltrinelli 2022). Lo è la nostra comune umanità, quella già macchiata dai cento giorni di bombe su Gaza, secondo il capo dell’Agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati palestinesi, Philippe Lazzarini. È a un bivio fra l’abisso e la speranza. E non solo per la sorte di Gaza, o la speranza che la Corte accolga la richiesta di misure precauzionali, fra cui il cessate il fuoco, se riterrà plausibile l’accusa: perché ne seguirebbe l’obbligo di fermare l’eventuale consumazione di questo reato dei reati. La nostra umanità è al bivio fra lo spiraglio di questa simbolica riaffermazione della prevalenza del diritto internazionale sulla potenza degli stati, e la spirale di una politica di potenza che già ovunque nel mondo, dove ha potuto, ha rotto i vincoli legali, mutandosi in guerra. Ma è proprio lì, in quell’ammasso di dolore e rovina che è la Striscia di Gaza, che ora brucia l’anima del mondo. Perché lì si consuma quotidianamente una strage che non è solo di corpi e di anime, è di significato e verità. Forse in nessun altro osservatorio tragico del mondo si vede così bene quanto il bivio fra la speranza e l’abisso, fra la civiltà e la guerra mondiale, prenda avvio dal linguaggio.
La prima biforcazione è lì: fra chi lo usa sentendosi impegnato a riconoscere il vero – impegno con cui comincia l’etica – e chi delle parole abusa, per ignorare il vero senza neppure confessarlo a se stesso. Per cancellare i nomi dell’altro. Per chiamare democratico uno Stato che si regge sull’esclusione di una parte dei suoi cittadini dai diritti di nazionalità (Nation-State Act del 2018) e sulla soggezione degli altri, non-cittadini, a un regime d’occupazione sempre più feroce, in quella terra che Israele sognò «senza popolo».
E soprattutto per chiamare «guerra», ora, ciò che «guerra» non è e non può essere, perché il nemico, Hamas, non è uno stato; perché non ha il controllo sul territorio, sulla moneta, sulle frontiere, sull’energia, sull’economia e perfino sulle basi della sopravvivenza: l’acqua, il pane, il lavoro. Perché prima di questa ecatombe Gaza ne ha subite altre cinque, minori certo in estensione e durata, ma simili nell’impossibilità per gli innocenti di fuggire dalla «più grande prigione a cielo aperto». Perché chiamare «guerra» questa ecatombe di civili, quando il territorio bombardato è a tutti gli effetti soggetto alla potenza occupante (cui il diritto internazionale accolla invece responsabilità di protezione nei confronti dei civili, per severa che possa essere la pena per i responsabili delle milizie di resistenza armata), è una violazione della logica e dell’etica dagli effetti devastanti. Pari solo allo sdoganamento, nel linguaggio prima e negli atti poi, di ciò che viene prima dell’assetto civile delle società umane, che appartiene al loro strato più arcaico e tribale: la vendetta.
Se cancellassimo la distinzione radicale fra la violenza senza limiti di legge (come quella di Hamas il 7 ottobre) e quella soggetta a tutti i vincoli di uno Stato di diritto e del diritto internazionale, se la cancellassimo anche dal linguaggio (sempre più cinico e corrivo) della maggior parte dei politici e dei commentatori, cosa resterebbe della civiltà rinata dalle ceneri della guerra, cosa resterebbe perfino della memoria delle vittime della Shoah? Più nulla.
Ed ecco perché la voce dell’accusa che si è levata l’11 gennaio alla Corte dell’Aja è parsa a molti «più intima del proprio intimo» – come il richiamo di una possibile salvezza. Grandi attori di tutto il mondo ne hanno rilanciato in rete le frasi cruciali. A molte orecchie esse sono parse, come altre già incise nella memoria umana universale, «legiferanti». Che è molto, molto di più di «giuridicamente stringenti». Perché parevano una restitutio, una re-instaurazione del mondo nato da quel «mai più»: quel patto di convivenza pacifica fra tutti i popoli della terra che fu stipulato con la carta dell’Onu nel 1945 e con la Dichiarazione universale nel 1948.
Una questione di memoria, come scrisse Kant all’inizio dell’età dei diritti. Non si dimentica più, diceva, la proclamata «primazia del diritto» sulla forza. E mentre l’Europa tace e gli Usa mandano bombe, è come se nelle parole dei sudafricani fosse risuonata la voce profonda di Nelson Mandela, che già una volta aveva rinnovato il mondo. «E farò nuovi cieli, e nuova terra»: all’Aja parve possibile una renovatio mentis, che strappava l’anima del mondo a quella catastrofe intellettuale prima che morale che è la menzogna politica, mostrando come la politica senza il diritto non sia solo cieca, ma anche criminale.
E la difesa di Israele? Una questione di memoria, anche questa. Tragica. Non la memoria del diritto, ma la politica della memoria. Anche di questa bisognerà parlare, alla vigilia del Giorno della Memoria.
Quei protettori impresentabili degli ebrei italiani
SHOAH. Una minoranza può legittimare il nemico che rischia di opprimerla? La domanda torna di fronte alle linee guida dell’Ucei sulla Giornata della memoria
Bruno Montesano 19/01/2024
Le linee guida interne dell’Unione delle comunità ebraiche sul giorno della memoria dopo il 7 ottobre propongono una difesa di Israele da impropri accostamenti al nazismo, attraverso altrettanto improprie riduzioni ad antisemitismo di molte critiche al governo israeliano.
Ma una simile operazione rischia di far finire chi la compie in cattive compagnie. Il problema non è nuovo. Per assicurarsi protezione, una minoranza può strumentalmente legittimare il nemico che rischia di opprimerla? E se decide di farlo che prezzo potrebbero pagare altre minoranze? È la domanda su cui da tempo ci si interroga in relazione al rapporto che alcuni esponenti della comunità ebraica italiana hanno deciso di avere con l’estrema destra di governo.
Ultimo episodio è stata la presentazione di un libro sull’antisemitismo al Maxxi di Roma con l’attuale presidente, Giuli, un «fascista intelligente», secondo vari avversari, e il ministro della Cultura Sangiuliano, già fascista nel senso di camerata di Almirante. Noemi di Segni, presidente dell’Ucei ha partecipato. Al contempo, una settimana fa, dopo Acca Larenzia, Di Segni aveva rilasciato un’intervista a La Stampa in cui contestava che fosse possibile opporsi all’antisemitismo e, contemporaneamente, difendere le idee di Vannacci. Siamo lieti di questa presa di posizione – che ricalca in parte una pregevole lettera inviata a Repubblica circa un anno fa contro l’ipocrisia postfascista.
Tuttavia la stessa coerenza politico-morale sarebbe stata utile nel decidere con quali interlocutori fare una manifestazione contro l’antisemitismo a inizio dicembre 2023. Salvini era alleato dei neonazisti ripuliti della Afd anche allora. Eppure ha parlato dal palco. Certo il recente ritrovo vicino Wannsee tra vecchi e nuovi nazisti, dove alcuni esponenti del secondo partito tedesco nei sondaggi hanno discorso su come rinnovare le antiche capacità razziste, ha ricordato che tipo di alleati e interlocutori i nostri principali partiti di governo abbiano.
Desta quindi sorpresa che le linee guida interne dell’Ucei siano concentrate solo sulla difesa di Israele e non anche su come rapportarsi criticamente ad un governo postfascista che non ha reciso – se non in modo rituale – i suoi legami con le proprie origini antisemite e razziste. Giustamente, si vogliono respingere sciocche banalizzazioni e relativizzazioni della Shoah. Ma i toni sono da propaganda, vige un manicheismo che mal si attaglia alla complessità – e violenza – di quanto accade in Israele-Palestina. Se, ad esempio, il Guardian, in un editoriale redazionale, invita a riflettere sul processo all’Aja contro il governo israeliano al fine di fermare il massacro a Gaza, forse potrebbe essere utile non liquidare ogni critica come antisemita.
Non a caso il dibattito ebraico globale, italiano e israeliano è molto più pluralistico di quello che questa comunicazione interna dell’Ucei mostra. Questo indebolisce sia la coerenza delle posizioni assunte, sia la vivacità critica che la diaspora ebraica può esprimere. L’identificazione tra ebrei diasporici e governo di estrema destra israeliano non serve a nulla – o meglio serve, oggettivamente, a Netanyahu ma non credo che sia questo l’obiettivo della rappresentanza istituzionale dell’ebraismo italiano. E non si tratta di aumentare o diminuire l’antisemitismo che purtroppo precede quanto avviene in Israele-Palestina e certo gli sopravviverà. Si tratta di rompere il nesso nazionalista tra una cultura e uno stato che la militarizza e la etnicizza ai danni di un’altra popolazione.
Ciò detto, non meno preoccupante è il cedimento sul fronte della memoria da parte di alcune aree della sinistra, come l’evento Anpi in provincia di Firenze mostra. Da tanti anni, e oggi quindi ancora di più, il Giorno della memoria è usato come una clava contro gli ebrei. La retorica è questa: da vittime a carnefici, gli ebrei hanno appreso gli strumenti dei loro aguzzini. Sono diventati come i nazisti, se non peggio. È un’accusa perversa che raddoppia il torto subito. Ed è un’accusa utile a chi la fa per autoassolversi. Il Giorno della memoria, infatti, se a qualcosa serve – ed è da discutere se sia efficace in questo senso -, dovrebbe servire a riflettere su quel che l’Europa ha prodotto tra gli anni Venti e gli anni Trenta. Su come il razzismo omicida abbia avuto una lunga gestazione, una circolazione tra metropoli e colonia e ritorno.
Riflettere sulla Shoah dovrebbe portare a riflettere su come fare quello che trivialmente si potrebbe chiamare un «buon uso» della memoria. Ossia un impiego nel presente del poco che le tragedie insegnano agli autori o comunque ai loro discendenti – più che alle vittime, in questo caso, prevalentemente ma non solo, gli ebrei d’Europa.
E allora a che serve pensare che lo scandalo del mancato buon uso della memoria sia in Israele e non qui, dove migliaia di migranti muoiono ai confini d’Europa, dove milioni di migranti vivono segregati nelle nostre città e nazioni, dove al governo decidono – o a breve decideranno – gli eredi di quella cupa esperienza genocidaria tutta europea? A nulla, a pensare che il male è altrove. E che noi siamo sentinelle. Anche se il fortino è dei nemici.
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