PERCHÈ AL FEMMINISMO SERVE CAPIRE GLI UOMINI da IL FATTO e IL MANIFESTO
Perché al femminismo serve capire gli uomini
MADDALENA OLIVA 26 NOVEMBRE 2023
Stavolta non bastava parlarne o scriverne. E infatti, dopo tempo, in tantissime (e fortunatamente in tantissimi) abbiamo deciso di scendere in piazza, di contarci, di sentire quel filo rosso che ci lega come donne, anche le più diverse l’una dall’altra, noi che sapevamo, nemmeno tanto in fondo, che Giulia Cecchettin non era solo sparita. Perché? Perché Giulia domani possiamo essere tutte, posso essere io. Perché Giulia – un’altra Giulia, magari più fortunata nel fuggire in tempo dal suo assassino – puoi averla seduta a fianco, senza che nemmeno te ne accorga.
Quanto poco sappiamo delle persone che ci circondano, perfino le più care. Quanto poco sappiamo degli altri. Quanto davvero non conosciamo gli uomini. E Filippo. Pur essendo un “figlio nostro”, un “figlio sano del patriarcato”, come ha detto la sorella di Giulia, Elena. Un figlio anche di noi femministe. Abbiamo difficoltà a dare un nome a questa paura, a scoprire chi può diventare nostro figlio, marito, compagno, fratello. Ci affrettiamo a dire che non ci riguarda, che a noi non potrebbe succedere. Sia che siamo uomini, sia che siamo donne. Ma rifuggire, così come etichettare tutti gli uomini come violenti oppressori e tutte le donne come vittime è, oltreché un errore, un modo per distrarci dalla realtà profonda che ci restituisce questa storia: tra tante cose dolorose, la nostra ignoranza sugli uomini. A partire da oggi, dalla grande marea fucsia in piazza, possiamo forse fare di più: rendere gli uomini reali ai nostri occhi. Senza per questo giustificarli o assolverli. Ingabbiati anche loro dai “miti della forza” di quella stessa società patriarcale che hanno contribuito per secoli a mantenere, sono spinti “a indossare maschere sempre più convincenti per evitare di esprimere ciò che sentono davvero e rivelare così la loro incapacità di gestire relazioni profonde e aperte”, scriveva Bell Hooks. Maschere che possono diventare di rabbia e violenza, quelle con cui compiono i delitti su centinaia di donne ogni giorno. Ma gli uomini non possono cambiare se non esistono modelli di cambiamento. E le nuove soggettività e relazioni vanno costruite assieme: parlandosi, anche arrabbiandosi, se gli uomini sono disposti a rinunciare a un pezzo di sé, del loro dominio e potere.
Gino, il papà di Giulia Cecchettin, ha scritto che dalla morte della figlia “deve nascere qualcosa. Vanno bene i messaggi, i minuti di silenzio o di rumore, ma poi finiranno. Io voglio che tutti i giorni ognuno di noi guardi nella propria vita e provi a fare anche solo un pensiero su cosa fare per migliorarla… nei confronti della persona amata, delle persone vicine, degli amici, soprattutto delle donne. Analizzate la vostra vita e fate un esame di coscienza su quello che si può migliorare”. C’è molto da fare e ci vorrà tempo. Ma qualcosa finalmente si sta muovendo. Lo dimostrano le piazze pienissime di ieri, la catena umana di sorellanza tra giovanissime e non. Lo dimostra il fatto che in questi giorni, in famiglia, al bar, nei luoghi di lavoro, in tv, si sia ripreso a parlare come non usava più. Le parole “patriarcato” o “femminismo” sono riapparse nella discussione pubblica. Prova a dire alla maggior parte degli uomini che sei femminista e diventi il nemico, generalmente: una che odia gli uomini. Ma questo non sta accadendo, ora. C’è il bisogno di parlarsi, uomini e donne, per provare a capirsi.
Giulia aveva 22 anni. Come Filippo. Sono le donne, sempre più decise e autonome, a rendere gli uomini più aggressivi, più incapaci di non reggere il confronto, tanto da chiedere alla persona a fianco di “rallentare”? A essersi intossicate sono le relazioni? O sono i ragazzi a non aver sviluppato la “resilienza al fallimento”, ad avere difficoltà ad accettare la propria fragilità e frustrazione? Ci sono forse un po’ di tutte queste domande dietro la morte di Giulia, ma anche dentro le nostre vite. Da una cosa però non si può non partire. Per una donna, per una ragazza, è l’essere storicamente ineguale a farti debole, a rendere te e il tuo corpo bersaglio della violenza in casa e per strada. Giulia non sarebbe stata uccisa se non fosse stata donna. La violenza di genere non è solo un problema di relazioni, di sfera privata, di fragilità psichiche: è il segno più evidente dello squilibrio di potere che nella società esiste tra donne e uomini.
Quando le femministe hanno detto al mondo che il patriarcato incoraggia l’odio per le donne, la risposta è stata: siete troppo estreme. Quando invece certi uomini che non sapevano nulla del femminismo hanno affermato che le femministe odiavano gli uomini, nessuna reazione. Eppure nessuna femminista ha mai ucciso un uomo. Nessuna viene arrestata per le sue violenze contro gli uomini. La gran parte degli uomini non ha scelto il patriarcato, è vero, ma quel sistema resta per tutti – uomini e donne – la gabbia in cui ci muoviamo e che, nel profondo, abbiamo introiettato. Non è vero che gli uomini non sono disposti a cambiare. È vero che molti hanno paura di farlo. Ma, per cambiare, abbiamo bisogno di loro.
La rivoluzione dolce nella casa delle donne in Messico
L’INTERVISTA. Sandra Cardona coordina una rete messicana di centri per l’aborto che ha assistito oltre 20mila donne. Ed è recente, dopo la sentenza shock della Corte suprema, l’arrivo di molte statunitensi
Daniele Nalbone 26/11/2023
«Basta mandarci una mail. Oppure bussare direttamente alla porta della nostra casa». Unica regola: «Ingresso vietato agli uomini». Le donne che devono abortire «possono venire da sole o accompagnate da madri, sorelle amiche. Ma per gli uomini la casa è inaccessibile». Sandra Cardona ha fondato nel 2016 il gruppo Necesito Abortar (Devo abortire) nella città di Guadalupe, oggi di fatto un quartiere periferico di Monterrey, capitale del Nuevo León.
Nonostante dallo scorso settembre la Corte suprema abbia stabilito che abortire in Messico non è più un crimine, in questo stato al confine con gli Usa l’interruzione di gravidanza è consentita solo in caso di stupro o di rischio per la la salute della donna, pena una condanna fino a un anno di carcere. Cinque anni è invece la pena massima stabilita dagli stati di Chihuahua e Tamaulipas, addirittura sei da quello di Sonora.
Al nord del Messico, soltanto in Baja California e Coahuila è possibile oggi interrompere una gravidanza senza incorrere in procedimenti penali.
Tutto ha avuto inizio su Facebook, ci racconta, e l’obiettivo era dare informazioni e assistenza a chi voleva interrompere la propria gravidanza: nemmeno lei si aspettava, in pochi anni, di arrivare ad aiutare oltre ventimila donne.
Soprattutto, mai avrebbe pensato di dover assistere cittadine statunitensi, come avviene da quando il Texas, nel settembre 2021, ha vietato l’aborto e la Corte Suprema, il 24 giugno 2022, ha annullato la storica sentenza Roe vs Wade del 1973 che garantiva l’accesso costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza in tutti i cinquanta stati. La contattiamo a ridosso della giornata del 25 novembre.
Sono tante oggi le donne statunitensi che si stanno rivolgendo a voi?
Da quando abbiamo aperto la “casa”, un luogo in cui venire per abortire farmacologicamente in maniera sicura, lontano dallo stigma sociale che accompagna l’interruzione di gravidanza in un paese come il Messico, capitava in media una volta al mese di essere contattate e aiutare donne statunitensi. Principalmente venivano da noi donne messicane o migranti. Ma negli ultimi due anni il numero è aumentato sensibilmente. Oggi sono almeno cinque o sei le donne che ogni settimana arrivano dagli Stati Uniti qui in Nuevo León.
Non avete paura a operare in luoghi così pericolosi, soprattutto per le donne, come gli stati del Nord del Messico?
Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a lavorare addirittura a Ciudad Juárez, al confine col Texas, nonostante i rischi che comporta organizzarsi e soprattutto scendere in strada in quello che è uno dei luoghi più pericolosi al mondo per una donna.
Ma il nostro ruolo oggi ci obbliga a convivere con la paura. Dico convivere perché è impossibile non averne. La cosa che ci ha sorpreso è che le minacce contro le nostre attiviste sono aumentate da quando abbiamo iniziato ad accompagnare le donne statunitensi. Evidentemente questa “apertura” è stata malvista non solo dai gruppi criminali ma anche dagli antiabortisti.
Come funziona l’accesso alla casa di Guadalupe? E quali sono le maggiori difficoltà che incontrate nella vostra attività?
Dopo averci contattato, prendiamo un appuntamento e si procede con l’aborto: tutto molto semplice. La donna arriva la mattina e nel primo pomeriggio può già tornare a casa. Qui ha tutto il necessario per interrompere la gravidanza in tutta tranquillità.
Nella parte anteriore della casa c’è lo studio in cui si viene ricevute; nella parte posteriore ci sono le stanze con tutto il necessario per rilassarsi, libri, impianto stereo, televisione, divani. La parte più difficile del nostro lavoro è sicuramente fuori dalla casa, nella società.
Qual è il momento invece più bello delle vostre “giornate tipo” nella casa?
Da tanto tempo vorrei realizzare un progetto fotografico per raccogliere i ritratti delle donne che accompagniamo prima e dopo aver abortito. La loro espressione cambia radicalmente. Quando arrivano sono tese, preoccupate, spaventate. Quando escono, sorridono. Poter finalmente avere accesso ai propri diritti cambia la vita. E i loro volti ne sono la prova, ogni giorno.
Siamo ormai alla fine del mandato presidenziale di Andrés Manuel López Obrador. Com’è oggi la situazione in Messico? Qualcosa è cambiato?
La nostra rete sta crescendo ogni giorno di più. Il che ovviamente per noi è un grande risultato ma, al tempo stesso, è una brutta notizia perché significa che oggi abortire in sicurezza è ancora un problema. La desaparición e i femminicidi sono il problema più noto del Messico. Ma la violenza di questa società si mostra ogni giorno in modi meno visibili, negando diritti di base.
Oggi in Messico non si può incriminare nessuna donna per aver abortito. O meglio, non si potrebbe. Città del Messico non è il Messico: lontano dalla capitale la situazione è molto critica. Di fatto, non è cambiato niente, nonostante la sentenza della Corte suprema.
Sandra Cardona
L’importanza che il 25 novembre ha assunto a livello mondiale è un riconoscimento alle donne che lottano ogni giorno per i propri diritti
Qual è, in Messico, il valore di una giornata come quella del 25 novembre?
L’importanza che il 25 novembre ha assunto a livello mondiale è un riconoscimento alle donne che lottano ogni giorno per i propri diritti. E non parlo solo delle attiviste. Noi, per restare al nostro caso, accompagniamo casi di violenza sessuale e aiutiamo donne che hanno deciso di abortire. Ma sono loro che stanno affrontando davvero la società.
Rivoluzionario, oggi, in Messico è dire a una mamma e a un papà di volersi separare dal proprio marito perché è violento. Rivoluzionario è comunicare a un’amica la decisione di abortire. A essere rivoluzionaria è una sorella che ti accompagna a farlo.
Mi hanno colpito i disegni e i colori che caratterizzano report, studi e tutto il materiale che avete sul sito per raccontare il vostro lavoro. Perché questa scelta?
Perché qui diamo centralità ai diritti. E i diritti sono vita. E la vita è a colori. Anche in un luogo come il Nord del Messico. Anzi, soprattutto in un luogo come il Nord del Messico.
Daniele Nalbone
Giornalista specializzato nell’ideazione e costruzione di prodotti editoriali digitali. Il suo primo viaggio in Messico, per la precisione in Chiapas, risale al 2007. Da allora ogni volta che può torna lì per dare voce ad attivisti, movimenti e giornalisti in quello che è il Paese più pericoloso al mondo per chi fa questo lavoro.
Cina, tolleranza zero per violenza domestica
VIOLENZA MASCHILE. Anche in Cina si muove qualcosa nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: la Corte suprema, annunciando la sua decisione su quattro casi, ha ribadito la «tolleranza […]Anche in Cina si muove qualcosa nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: la Corte suprema, annunciando la sua decisione su quattro casi, ha ribadito la «tolleranza zero» nei confronti della violenza domestica.
E non solo contro la violenza fisica ma, in un significativo passo avanti, anche quella psicologica.
In uno dei casi infatti a una donna è stata garantita un’ingiunzione di allontanamento a seguito delle ripetute minacce del marito di commettere suicidio. Cosa che non le arrecava un danno fisico ma la lasciava in uno stato di «paura perenne».
Dalla Turchia all’America latina: origami e atti di resistenza
INGOVERNABILI. Manifestanti fermate a piazza Taksim, a Istanbul. «Cimitero delle donne» davanti al governo messicano
Giovanna Branca 26/11/2023
Già il 24 novembre le strade di Istanbul erano state blindate, in particolare l’accesso a piazza Taksim e alle vie centrali della città, sorvegliate da poliziotti in tenuta antisommossa. Questo non ha fermato qualche centinaio di manifestanti femministe e di associazioni Lgbtq+, che si sono messe in marcia dal quartiere di Mecidiyekoy, dirette a piazza Taksim – dove sono state fermate dalla polizia – nella Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Manifestazioni che si sono tenute anche in altre città turche, dalla capitale Ankara a Izmir, Tunceli, Eskisehir. A Konyaaltı, nella regione di Antalya, è stato organizzato un evento ispirato alla leggenda giapponese degli Orizuru, gli origami a forma di gru: mille donne ne hanno appesi altrettanti agli alberi per avverare il desiderio della fine della violenza contro le donne, particolarmente feroce in Turchia – uscita nel 2021 dal protocollo di Istanbul per volere di Erdogan – dove i dati della Federazione delle associazioni delle donne turche parlano di 323 vittime fra gennaio e settembre di quest’anno, la maggioranza uccise dai mariti o i partner. Eppure proprio ieri il presidente turco ha affermato pubblicamente che lasciare il Protocollo contro la violenza di genere «non ha avuto la minima ripercussione negativa».
NUMERI altissimi anche in America latina secondo i dati raccolti dall’Osservatorio sull’uguaglianza di genere dell’America Latina e dei Caraibi: 4.050 donne uccise nel 2022 – vuol dire che «ogni due ore una donna è morta violentemente» -, nei soli 26 paesi della regione che hanno comunicato le informazioni relative al proprio territorio.
Un cimitero, come quello rappresentato alla vigilia della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne dalle famiglie delle vittime di femminicidio a Città del Messico, davanti al Palazzo nazionale. Decine di lapidi di carta con l’iscrizione «femminicidio», foto delle vittime e candele che illuminano la manifestazione silenziosa davanti alla sede del governo federale, mentre alcune madri delle vittime si spingono fino alla residenza del presidente Andrés Manuel López Obrador per lasciare dei messaggi da parte di coloro che non ci sono più: «Stato femminicida», «Non mi sono suicidata, mi hanno uccisa».
La capitale messicana è stata poi teatro, ieri, della manifestazione contro la violenza di genere partita alle 10 del mattino dalla Colonna dell’Indipendenza e diretta verso Piazza della Costituzione. Insieme a decine di altre piazze latinoamericane, da Bogotà a Buenos Aires alla Plaza Uruguaya di Asunción, in Paraguay, la patria delle mariposas, le tre sorelle Mirabal, uccise dal dittatore Trujillo, a cui è dedicata la Giornata.
O A EL SALVADOR, dove le organizzatrici della manifestazione denunciano a La Prensa che il Paese «è diventato uno dei tre dell’America Latina più pericoloso per donne e ragazze»: sono 5.203 i casi di violenza sessuale nel 2022 (un aumento del 47% rispetto al 2021), mentre negli ultimi tre anni sono stati documentati 28 femminicidi. Cioè accertati, perché le sparizioni di donne e ragazze nel solo 2022 raggiungono quota 306.
A La Paz, in migliaia hanno marciato già il 24 novembre: insieme alle associazioni manifestavano sindacati, contadini e alcuni rappresentanti delle istituzioni pubbliche. Nella Plaza Murillo della capitale boliviana, sede del Congresso, ci si è appellati ai parlamentari perché approvino le «modifiche fondamentali» alla legge 348 (per garantire alle donne una vita senza violenza). Manifestazione anticipata alla vigilia del 25 anche in Cile, dove nella capitale Santiago si è sfilato al grido di «non un passo indietro». Nel Paese si sono registrati quest’anno 40 femminicidi e proprio ieri il ministero delle Donne e dell’uguaglianza di genere ha lanciato la campagna «Arriviamo a zero. Contiamo tutti per ridurre la violenza contro le donne». In Cile le vittime non denunciano le violenze subite, ha affermato la ministra Antonia Orellana. «In primo luogo perché sentono che non otterranno giustizia».
MANIFESTAZIONI anche in tutta Europa: due a Madrid – la mattina e la sera – ad Atene, Parigi e anche in varie località della Serbia. A New Delhi, nella capitale del Paese dove la violenza contro le donne è un’epidemia, un gruppo di donne ha sfilato per strada in un semplice, e pericolosissimo, gesto di sfida: camminavano senza uomini ad accompagnarle.
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