SOLIDARIETÁ | di Scandurra, Perna, Drago e Bevilacqua
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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SOLIDARIETÁ | di Scandurra, Perna, Drago e Bevilacqua

di Enzo SCANDURRA, 11 dicembre 2017

La solidarietà ha una base biologica e scientifica

Nel 1859, stesso anno in cui esce il Manifesto del Partito Comunista, viene pubblicata L’origine della specie, che esaurisce in un solo giorno tutte le copie stampate. Darwin si convinse che la “lotta per la vita” fosse uno dei motori principali dell’evoluzione intuendo il ruolo selettivo dell’ambiente sulle specie viventi. L’ambiente, infatti, non può essere la causa primaria nel processo di evoluzione (come invece sostenuto nella teoria di Lamarck) in quanto tale ruolo è giocato dalle mutazioni genetiche, in gran parte casuali. L’ambiente entra in azione in un secondo momento, nella determinazione del vantaggio o svantaggio riproduttivo che quelle mutazioni danno alla specie mutata, in poche parole, al loro migliore o peggiore adattamento. Gli individui che sopravvivono, quindi i più adatti, riproducendosi, trasmettono ai loro discendenti le caratteristiche vantaggiose, definite adattamenti.

Darwin ci pensò a lungo prima di pubblicarla. Era un intellettuale radicale, ma anche un liberale in politica, un difensore di moderate riforme sociali e un appassionato difensore della schiavitù. Ricco nobiluomo di campagna, educato in quell’ambiente, non volle mai rinunciare ai privilegi della sua comoda esistenza. Pensava che la sua teoria sarebbe stata male accettata, perché in essa si affermava che l’evoluzione è cieca, non ha nessun fine, è casuale.

Tuttavia la sua opera ebbe sin da subito uno straordinario successo, dovuto forse più a degli equivoci. Mentre nella sua opera la parola “evoluzione” non compare mai, essa fu introdotta da Spencer e assunse il significato di “progresso”. Darwin non approvò mai la parola evoluzione (tantomeno progresso) e la tollerò perché essa era ormai entrata, con Spencer, nel linguaggio corrente. La teoria base della selezione naturale non fa nessuna affermazione sul progresso in generale (“non bisogna dire più in alto o più in basso”, diceva Darwin) mentre la cultura occidentale pose il progresso al centro della teoria evoluzionistica (sempre Darwin affermava che: “i meccanismi fondamentali della selezione naturale producono solo adattamenti naturali, non un progresso generale”).

Un altro equivoco nacque a proposito della sopravvivenza del più adatto che fu interpretato come la sopravvivenza del più forte. Nell’equivoco cadde anche Marx che pensò che quella di Darwin fosse una teoria che poteva essere utilizzata a sostegno della lotta di classe. Ma adatto non significa più forte. Questi equivoci, sempre smentiti da Darwin, autorizzarono molti a dire che ormai c’era una teoria scientifica a sostegno del progresso e che nella lotta per la sopravvivenza era destinato a soccombere il più debole. Da cui l’espressione darwinismo sociale per indicare la competizione tra gli individui per assicurarsi la sopravvivenza.

Kropotkin, anarchico russo ma anche scienziato e filosofo, agronomo e zoologo, pubblicò nel 1902 un piccolo libro: Mutual Aid: a factor of evolution, per reagire alla interpretazione di Herbert Spencer. La descrizione di Kropotkin nel Mutuo Appoggio e, successivamente nell’Etica, della capacità di vivere in società come di una tendenza naturale degli esseri viventi, è la negazione dell’esistenza di una malvagità intrinseca dell’uomo, pensiero centrale della filosofia politica dell’età moderna, dai giusnaturalisti, da Machiavelli e da Hobbes fino a Kant. Nel suo libro vengono analizzati i comportamento cooperativi di molte specie animali (lupi, pipistrelli, api, e anche molte piante), spiegando come la cooperazione, e non la competizione, sia vantaggiosa per la specie.

L’uomo, in quanto prodotto di una natura in cui la cooperazione e il mutuo appoggio sono elementi determinanti al fine della conservazione e dell’evoluzione, è dotato di forti istinti sociali o meglio solidali, anche se questi possono venire meno per innumerevoli cause esterne. Del resto quando Marx parlava, nei suoi scritti giovanili, di individuo sociale alludeva a una coscienza che era la coscienza di specie (non di classe), ovvero di appartenenza alla terra e all’universo.

Il “darwinismo sociale” diventava una possibile risposta alle esigenze di emancipazione dei gruppi sociali sfruttati e forniva una “teoria” in grado di legittimare le pratiche imperialistiche degli europei nei territori d’oltremare. Non era facile, pena l’isolamento scientifico, contrapporsi al darwinismo sociale dell’epoca. Kropotkin non fu il solo a contestare le concezioni proprie di tale teoria, ma fu l’unico a farlo nel modo più completo. Kropotkin non effettuò una critica ideologica: egli accettò la teoria evoluzionistica darwiniana quale fondamento “scientifico” dell’analisi della convivenza umana, ma ne modificò da un lato il concetto di “lotta per l’esistenza” e dall’altro aggiunse un secondo fattore, altrettanto importante, proprio dell’evoluzione: il mutuo appoggio. Kropotkin, partendo dall’analisi della lotta per l’esistenza come fattore evolutivo, arrivò concludere che la specie più adatta alla sopravvivenza non era quella caratterizzata dalla lotta interna tra gli individui della specie stessa, ma quella maggiormente capace di attuare al suo interno il mutuo soccorso e la cooperazione.

In proposito egli cita le lotte che, nel cruciale periodo di formazione, i nascenti stati nazionali intraprendono con le autonomie locali. Queste lotte, che sono generalmente interpretate come confronto con le resistenze feudali (che ci sono), sono da Kropotkin inquadrate invece come scontro per l’autonomia e l’autogoverno comunitario, contro l’individualismo ed il razionalismo centralizzato. Né il possesso in comune della terra è accettato solo per il “superiore” bisogno di un’agricoltura moderna e più tecnicizzata (ovvero con aratri, animali, concimi e organizzazione).

 

La teoria dei giochi e il dilemma del prigioniero

Il dilemma del prigioniero (preso dalla Teoria dei Giochi) può fornire qualche spiegazione sul comportamento contradditorio dell’individuo (da una parte cooperante, dall’altra egoista). Due individui accusati, senza prove, dello stesso delitto sono in carcere. Essi sono detenuti in celle separate e senza possibilità di comunicazione, perché il giudice tenta di ottenere da ciascuno di esse una confessione di denuncia dell’altro. Ogni prigioniero ha quindi a disposizione due comportamenti: autodenunciarsi oppure denunciare l’altro. Se A si autodenuncia si aprono due possibilità: o B fa altrettanto e allora le due autodenunce si annullano e i due detenuti vengono liberati, oppure B denuncia A e allora l’esito è inevitabile e la condanna di chi si è autodenunciato e la liberazione dell’accusatore. Oppure se A denuncia B e questi si autodenuncia, A viene liberato mentre B sconta la pena prevista. Se invece anch’egli denuncia A entrambi saranno condannati alla pena minore prevista per calunnia.

Il dilemma del prigioniero dimostra come, in situazioni in cui non è in grado di comunicare con gli altri, per l’individuo che pure ricaverebbe l’utile maggiore fidandosi dell’altro, il comportamento più razionale è quello di non fidarsi, ovvero la cooperazione non è una strategia razionale dal punto di vista individuale.

 

La tragedia dei Comuni

Hardin Garrett, noto ecologo americano, sfidò (1968) gli economisti del suo tempo proponendo questo dilemma. C’è un pascolo in comune dove diversi pastori portano le loro pecore. Un giorno uno di questi pastori spinto dal desiderio (legittimo in sé) di migliorare le proprie condizioni acquista una nuova pecora. Se il suo comportamento fosse messo in atto da tutti gli altri pastori, il pascolo non sarebbe più sufficiente a garantire il cibo per le pecore e collasserebbe. Garrett con questo dilemma voleva dire che non esiste una difesa per i beni comuni, essi sono sempre a rischio.

 

Tuttavia gli esempi di cooperazione esistono

In molti casi (Hirschman) la distinzione netta tra costi e benefici dell’azione scompare, poiché gli sforzi, che dovrebbero stare dalla parte dei costi, risultano essere invece dalla parte dei benefici. L’economista italiano Federico Caffè racconta un episodio. Una giovane turista in cerca di fotografie interessanti, sale su una ripida collina da dove può ammirare il paesaggio. Giunta in cima si siede per riprendere fiato dopo la salita. Ad un tratto vede una ragazza con in braccio un bambino, salire anch’essa in cima. La turista le dice, in tono di simpatica complicità: “Bella fatica vero, con tutto quel peso?”. Al che la ragazza guarda il bambino che ha in braccio e le risponde: “No, è mio fratello piccolo”. Dunque i costi (salire sulla collina) si sono trasformati in benefici.

Esempi di azioni onerose, ma vissute come gratificanti, sono numerosi. Il pellegrinaggio, ad esempio, o la militanza in un Partito, o l’assistenza ai bisognosi, o la cooperazione internazionale.

P.S. mi scuso per la semplificazione con la quale ho trattato argomenti assai complessi. L’urgenza di avviare un dibattito mi è stata utile scusa per questa brevità.

***

12 dicembre 2017

Molto bello.

Mi permetto di aggiungere che la cooperazione cellulare, come ci insegnano i biologi, è fondamentale per la vita. E ancora che esistono diverse forme di solidarietà come ha sostenuto  Emile Durkheim: quella “meccanica”, o di sangue comune, che è tipica dei clan familiari, e quella “organica” che riguarda l’uomo come animale sociale. Vorrei aggiungere un’immagine. Mi è capitato più di una volta, nella lotta impari per tenere le formiche lontano dal lavello della mia cucina (visto che vivo dentro un magnifico giardino ed ho una moglie ecologista, ma non sopporta le formiche) che buttando dell’acqua per farle andare via, le sopravvissute all’alluvione sono andate incontro a quelle che annaspavano nelle pozze d’acqua e le hanno tirate fuori. Oppure, ho davanti agli occhi una scena incredibile: un gruppo di formiche nostrane (quindi piccole) che si danno una mano (zampa) l’una con l’altra per portare verso l’alto un pezzo di formaggio una decina di volte più grande e pesante di ognuna di loro.

Tutto questo per dire che la solidarietà, ha regione Enzo, è alla base della vita e sopravvivenza delle specie viventi. Quello che sta succedendo in questa fase storica è una sistematica riduzione dei nostri impulsi solidali, mentre cresce un individualismo sfrenato che ci porta verso l’autodistruzione. […]

Tonino Perna

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12 dicembre 2017

Carissimo Enzo,

ho letto con grande interesse il tuo testo e l’ho trovato davvero molto bello (e sorprendente). La prospettiva ‘biologica’ è feconda e carica di potenzialità. Anche quella giuridica può fornire, a mio avviso, spunti di riflessione inattesi.

Una pietra miliare è, in questo senso, il lavoro di Stefano Rodotà: Solidarietà. Un’utopia necessaria. Rodotà considerava l’umanità come parte agente di un disegno politico universale, non come il rifugio nelle vecchie sovranità dello Stato nazione. E fondante era la sua interrogazione sul soggetto della solidarietà: l’”umanità” come soggetto storico e incarnato, dentro i dispositivi del potere e i conflitti politici, sociali e giuridici che ne derivano. Il che equivale a considerare la solidarietà come pratica che mette al centro i diritti sociali (insieme a quelli politici e giuridici).

È quanto messo in atto dal movimento operaio: la consapevolezza orgogliosa della dignità degli uomini e delle donne che diventa principio di azione collettiva.
Proprio su questi principi gli esclusi si sono auto-organizzati per costituire una serie di soggetti che agiscono collettivamente in vista di un interesse comune. E questo ha portato al riconoscimento dell’esistenza libera e dignitosa di cui parla la nostra Costituzione.

È questo il riconoscimento della solidarietà come pratica politica e non come legame caritatevole con gli esclusi, che consente di ricomporre l’eterogeneità e la frammentarietà del “sociale” e di superare la separazione tra politica e sociale. La solidarietà è insomma un agire della cooperazione fondato sui diritti sociali. Oggi questo ruolo propulsivo è venuto meno: si parla di «poveri» e non di vittime della lotta di classe. La situazione dei soggetti più deboli viene affrontata con una logica caritatevole, mentre bisognerebbe riscoprire gli strumenti dell’organizzazione politica e dell’emancipazione degli oppressi.

In questo senso, la solidarietà può essere la pratica che riforma i legami, ricompone un soggetto necessariamente più ampio del precedente, produce un’attitudine cooperativa lì dove sembra scomparsa. È un antidoto al realismo dei rapporti di forza, demolisce la nuda logica del potere e la piccola patria dei simili che si rafforza contro gli stranieri e i più deboli tra i deboli. La solidarietà è la possibilità di aprire l’orizzonte oltre le miserie del presente.

Tiziana Drago

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17 dicembre 2017

Care e cari amici,

[…] credo che Enzo abbia fatto bene, nel suo contributo, anche per evitare lo scivolamento in un approccio ideologico o moralistico, a partire dai fondamenti naturali su cui poggia la nostra società. Ora a questo proposito – essendo io uno storico e non uno scienziato – premetto di rifarmi a un punto di riferimento scientifico che ritengo molto affidabile e soprattutto aggiornato.

Edgar Morin è forse il pensatore che ha più profondamente analizzato la natura attraverso le discipline scientifiche contemporanee. E dai suoi studi la natura, il mondo della vita, non appaiono dominati da una tendenza univoca. In natura solidarietà e antagonismi si mescolano, competizione e cooperazione si alternano o si intrecciano in maniera spesso inestricabile. Scrive Morin ne La vita della vita (1980; ed. it. Cortina, 2004): «Nelle foreste gli alberi si sono innalzati facendo ressa verso il sole, le piante lottano per la luce, si prendono per il collo, si arrampicano l’una sull’altra, conducono guerre chimiche sotterranee attraverso l’emissione di inibitori, di ormoni, di antibiotici,combattono da radice a radice per un pugno di molecole».

Ma esistono anche forme svariatissime di cooperazione. Tra mondo animale, nel regno vegetale, tra questo e il mondo animale. Tanto per fare un esempio, che io prendo dagli studi di Giorgio Celli, le formiche aiutano gli afidi (i pidocchi) nella loro opera di fitofagi, scacciando le coccinelle che se ne nutrono, perché gli afidi secernono una mielata di cui sono ghiotte. Ma la cosa più straordinaria è che gli alberi, quando vengono aggrediti da questi parassiti, lanciano nell’aria dei richiami ormonali per attirare le coccinelle ed altri antagonisti perché vengano in loro aiuto.

Morin sintetizza bene la situazione del mondo naturale, che può racchiudere e rappresentare anche la condizione degli umani: «Antagonismo e complementarietà non si escludono a vicenda.Niente è più complementare delle interazioni che costituiscono la catena trofica, che alimenta e riorganizza la vita di un eco-sistema; questa è però nel contempo una catena fagica in cui il predatore mangia la preda, che mangia la pianta, che si nutre della decomposizione di tutte le morti accumulate e messe insieme». Anche noi siamo dentro questa catena fagica, di divoratori necessitati, che opprimono e uccidono altre creature e lo hanno fatto per millenni con inconsapevole e serena ferocia.

Che cosa c’entrano queste riflessioni con la soldarietà? C’entrano perché esse mostrano come la solidarietà costituisca un progetto culturale dell’uomo, impegnato a uscire dai ceppi della sua “catena fagica”, dai conflitti e dalle guerre che essa comporta, e a domare la sua originaria ferinità distruttiva.

Non c’è bisogno di ricordare che fin dai loro esordi gli uomini e le donne che si son mossi sulla terra hanno cercato di dare forma simbolica e spirituale a questo bisogno di cooperazione interumana, necessaria alla sopravvivenza e alla conservazione della specie. La nascita delle religioni viene anche dal fondo di questa necessità antropologica, rispondono a questa profonda esigenza utilitaria.

Peraltro, alcuni filosofi morali, come ad esempio Eugenio Lecaldano (Un’etica senza Dio, Laterza 2006), sostengono che nella specie umana alcuni principi morali elementari sono innati. È innata la cura delle madre per i figli, così come appare innato l’istinto di protezione per i bambini e i cuccioli in genere. La solidarietà in questo caso non perde affatto la sua dimensione di progetto culturale, ma trova più profonde radici nelle origini remote dell’umana natura. Del resto, il legame madre-figli conserva ancora una carattere di solidarietà necessaria, che contribuisce ancora a dare valore e tessuto connettivo a una società, come la nostra, a rischio di dissoluzione.

Laura Marchetti ha scritto una pagina di grande fascino su questo aspetto ne La Fiaba, la Natura, la Matria (Il Melangolo, 2014) che non ho mancato di porre in rilievo nella mia prefazione.

È evidente che la solidarietà è stato uno dei grandi valori fondativi del movimento operaio, del socialismo, della sinistra. Un collante straordinario che ha tenuto insieme storie e psicologie diverse, che ha fornito nutrimento spirituale, appagamento, vicinanza sentimentale agli individui e al tempo stesso forza politica per sostenere i conflitti di classe. La solidarietà in questo caso, oltre a quella della catechizzazione religiosa, costituiva una forma di creazione di società “altra” dentro il processo disgregativo della modernità. E non c’è bisogno di ricordare che quando dall’orizzonte dei partiti della sinistra è scomparsa la necessità di organizzare e promuovere conflitti, anche la necessità strumentale e spirituale della solidarietà si è dissolta. Se non dobbiamo più lottare contro un avversario comune, quale bisogno si pone di aiutarsi reciprocamente? Dunque si afferma un ipertrofico Io e scompare il Noi, come ricorda l’utile libro di Vincenzo Paglia, Il crollo del noi (Laterza, 2017).

E per le necessità dell’oggi e del domani? Credo che la solidarietà sia un valore difficilmente conculcabile. Se esso appare infatti come il carattere più nobile della specie, costituisce, tuttavia, un tratto intrinsecamente utilitario. Gli uomini e le donne hanno bisogno di solidarietà non solo per evitare che la loro vita si aggiri in un desolato deserto – come tende a fare il nichilismo consumistico della nostra epoca – ma anche per raggiungere scopi inderogabili, da cui dipende la sopravvivenza di tutti. La minacce ambientali, oggi costituiscono una nuova condizione di necessità, che obbliga a riscoprire le ragioni primigenie della solidarietà. Come i primi uomini apparsi sulla terra che avevano bisogno di difendere i propri nati, i parenti, la famiglia, la tribù, dalle avversità della natura.

Infine una considerazione su di noi. Credo che noi tendiamo ad esaltare fuori misura il potere modificatore della politica. È la ragione per cui spesso restiamo delusi del poco che riescono a realizzare i partiti di sinistra quando arrivano al governo. Occorre guardare con più attenzione all’efficacia dell’azione collettiva dal basso. Vecchio discorso, ovviamente. Ma in tema di soldarietà dovremmo rammentare il ruolo che noi stessi in prima persona potremmo svolgere. La qualità della nostra società e del nostro vivere può dipende anche da noi, oltre che dall’azione e dalle scelte del ceto politico. Provate a immaginare come sarebbe la nostra vita se d’improvviso diventassimo tutti gentili, generosi, attenti alle ragioni degli altri, rispettosi delle regole comuni. Prefigurare una nuova società possibile dipende anche da noi. Che cosa fanno le donne e gli uomini impegnati nel volontariato, se non realizzare nei fatti, una società solidale, costruire frammenti di mondi che anticipano l’uscita dagli orrori della nostra epoca?

Piero Bevilacqua

***

17 dicembre 2017

Ben ha fatto Piero ad addurre altre considerazioni alla solidarietà, io mi ero attenuto solo alla teoria darwiniana e dintorni. Sulla quale torno un attimo per precisare meglio.

A proposito della sopravvivenza del più adatto o lotta per la sopravvivenza (struggle for life), Darwin distingueva due forme.

«Si può affermare con certezza che due canidi, in periodo di carestia, lottano l’uno contro l’altro per carpirsi l’elemento necessario alla vita (competizione biotica). Ma diremmo pure che una pianta al limite del deserto lotta per la vita contro la siccità, benché sarebbe più esatto dire che la sua presenza dipende dall’umidità (competizione abiotica)» (Darwin).

Per Darwin la competizione va intesa in senso strettamente naturale. Non c’è alcun giudizio morale in essa. Il vantaggio strategico della cooperazione consiste nel fatto che la specie (animale o vegetale o umana) si coalizza per raggiungere l’obiettivo della sopravvivenza (l’esempio degli alberi citato da Piero, supra). Questo non ha nulla a che vedere col fatto che la specie umana uccida degli animali per sopravvivere, anzi l’esempio rafforza il concetto. La cooperazione si dimostra alla lunga una strategia vincente (della specie) contro le altre specie e può portare a un miglioramento della stessa specie rispetto alla selezione naturale (correre di più, vivere più a lungo, pensare meglio).

Lo sterminio ad opera di un gruppo di individui ai danni di altri membri della stessa specie non ha nulla di naturale, a meno che non si teorizzi il superuomo o la superspecie, oppure a meno che le risorse non siano sufficienti a sfamare tutti e allora si potrebbe (secondo Darwin) giustificare una competizione biotica.

Gli uomini e le donne, insomma la razza umana ha una forte coscienza di specie (come affermava il Marx giovanile) che spinge alla sopravvivenza e lotta naturalmente contro qualsiasi ostacolo minaccia la specie.

La competizione selvaggia (dell’uomo contro l’uomo) non ha nulla di naturale perché si risolverebbe in un conflitto ai danni della stessa specie. Ergo, l’individualismo è bandito dalla natura ed è un prodotto unicamente culturale. Del resto è lo stesso Morin a sostenere che l’uomo è 100% natura e 100% cultura.

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