LAVORO. MERCATO. DIRITTI. DIGNITÀ. da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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LAVORO. MERCATO. DIRITTI. DIGNITÀ. da IL MANIFESTO

Una riforma per i diritti comuni del lavoro

Lavoro. Vanno riviste le vecchie “casse integrazioni”, con la riorganizzazione degli orari di lavoro. E nuovi istituti di integrazione salariale per difendere l’occupazioneLuigi Agostini, Duccio Campagnoli  10.08.2021

Una riforma deve essere vista ora come una delle riforme indispensabili e prioritarie connesse al Pnrr. Si dovrebbero allora considerare innanzitutto le questioni nuove e strategiche sulle quali intervenire, per determinare una riunificazione sociale e politica di tutte le parti del lavoro ora distinte e immerse in una selva di condizioni diverse e corporative, come si è drammaticamente visto nell’emergenza.

Siamo di fronte ad una condizione nella quale conviveranno per lungo tempo crisi e rilancio, con processi di grandi riorganizzazioni, spinti ancor più̀ dalle radicali innovazioni tecnologiche ed ecologiche che caleranno, e in modo accelerato, in tutti i settori. E’ questo lo scenario nel quale si inserisce la stessa proposta europea di “New Generation“: non un albero di cuccagna ma un grande e ben difficile banco di prova anche e soprattutto per l’Italia; per il necessario “salto di produttività”.

Si dovrà affrontare non solo il problema di “non poter mantenere posti di lavoro in aziende obsolete – come recita di nuovo la vulgata padronale – ma soprattutto la necessità di governare processi di ristrutturazione-innovazione, che richiederanno un mix inedito di interventi pubblici, sostegni finanziari per investimenti e per nuova organizzazione del lavoro. Assicurando quindi una eguale tutela e protezione del lavoro nelle micro e piccole imprese e nei settori (commercio, turismo, logistica, intrattenimento, servizi alla persona) che ora possono essere i principali ambiti di un’onda lunga soprattutto di ulteriore precarizzazione del lavoro.

Occorre una Riforma Universalista per unire il lavoro con Nuovi Diritti Comuni. Si dovrebbero non solo estendere ma reimpostare le attuali, attempate “casse integrazioni”, con una visione comprensiva del tema generale della riorganizzazione degli orari di lavoro. E quindi formulare nuovi istituti definibili Contributi di integrazione salariale per la salvaguardia dell’occupazione, ponendoli esplicitamente come alternativi in prima istanza alle riduzioni di organico con licenziamenti collettivi “in tronco”, mettendo a terra così pure “lo spirito” della “raccomandazione” a cui si è giunti per moral suasion del presidente Draghi.

Da un lato un Istituto (per il quale Inps potrebbe erogare direttamente attraverso le imprese eliminando i ritardi di pagamento) di compensazione alle riduzione di salari e stipendi per temporanee riduzioni di orario, definite con accordi sindacali, derivanti da riduzioni parziali di attività per motivi oggettivi di mercato o di ristrutturazione.
E dall’altro lato, un Istituto che sostenga, ove inevitabili e necessari, percorsi di riconversione professionale o di ricollocazione dei lavoratori effettivamente organizzati in collaborazione tra impresa ed Enti pubblici preposti, che dunque assicuri per un tempo congruo, sia il salario/stipendio sia l’impegno formativo, se davvero non si vuole più lasciare il lavoratore nella solitudine della disoccupazione e nell’affanno della ricerca solo individuale o tra tanti Enti, di altre effettive opportunità.

Non si tratta di chimere: esiste già da tempo l’esempio del “ Kurz Arbeit “ tedesco, il “lavoro breve”, cioè con orario ridotto, con salari e stipendi compensati dall’intervento pubblico, esplicitamente rivolto ad evitare riduzioni di organico, consolidato durante il lockdown; così come sul modello tedesco di intervento nei processi di ristrutturazione d’azienda è stato pensato l’altro Fondo europeo “Sure”, che quindi l’Italia non dovrebbe utilizzare solo per finanziare le attuali casse integrazioni.

Questa del resto è la via dei contratti di solidarietà, sostenuta giustamente da Cgil, Cisl e Uil, che però lasciata solo alla contrattazione, è rimasta e resterebbe, se pure irrobustita con qualche incentivo in più, circoscritta ai casi delle migliori possibilità e di maggior forza. Si tratta peraltro di soluzioni del tutto sostenibili anche in punta di diritto: è stato già argomentato da autorevoli giuslavoristi, che una finalità di “prevenzione delle riduzioni d’organico”, è in effetti presente e fondante nel principio giuridico dell’attuale intervento pubblico con le “Casse Integrazioni”. Dunque potrebbe essere così riargomentata anche una riforma della legge 223/93, che disciplina ancora i licenziamenti collettivi, affermando che “il datore di lavoro deve esperire l’uso degli istituti alternativi ai licenziamenti o dimostrarne l’inattuabilità”.

La Riforma poi deve introdurre veramente Istituti eguali per tutti i lavoratori, quindi assorbendo sia pure progressivamente anche i tanti “Fondi bilaterali”, succedanei ridotti di cassa integrazione e d’altra parte facendo diventare compiutamente Istituto generale l’attuale indennità di disoccupazione, invece che introdurre altre diverse previdenze: allargandola in forme congrue alle interruzioni del lavoro parasubordinato o autonomo o a tempo determinato, ed estendendola a disoccupati di più lungo termine e inoccupati in cerca di lavoro, proprio per contrastare il fenomeno, invece in questi mesi cresciuto, dell’abbandono e dell’inabissamento .

Appare anche opportuno, per consolidare, riformandolo, connettere lo stesso Reddito di Cittadinanza a tale Indennità invece che farlo arretrare a causa degli insuccessi per l’ avviamento al lavoro, a Sussidio di povertà, finendo per rinunciare all’intervento, come integrazione a redditi parziali e insufficienti rispetto ad una soglia minima, in tutto il variegato mondo del lavoro semi o del tutto irregolare, che invece il reddito di cittadinanza ha colto. Per tutti i percettori di tale Indennità dovrebbero essere previsti infine opportunità e obblighi condizionali di formazione ben più efficaci di qualsivoglia attività ispettiva.

Infine anche da queste necessità di una Riforma riunificante di tutti gli istituti di protezione sociale dalla disoccupazione, appare opportuna una soluzione legislativa che dia corpo al principio costituzionale del diritto “all’”esistenza dignitosa” dell’Art.36 nella forma di un minimo vitale concretizzato in una soglia di reddito minimo, che possa essere assunto come riferimento unificato delle diverse previdenze sociali oggi ancora incomprensibilmente diversificate.
Si tratta, in definitiva di passare da una forma di protezione su base assicurativa, differenziata per quante sono le situazioni, che lascia scoperto il lavoro più fragile e marginale, ad una forma di protezione su base fiscale, valida per tutte le forme di lavoro, salariato e autonomo. Una forma di protezione uguale per tutti.

Danièle Linhart, il profitto nell’arena del mercato

SCAFFALE/ 2. «La commedia umana del lavoro», un saggio della sociologa francese per Mimesis

Carlo Crosato  10.08.2021

Si esigono inventiva, grande forza di volontà, abnegazione: il mercato non fa sconti e il modello di gestione delle imprese pretende da dirigenti e dipendenti completa devozione alla causa. Non è solo questione di definire pratiche o disciplinare i movimenti entro specifici spazi e tempi: non si tratta di governare i corpi, ma anche e soprattutto di trasformare le menti, di rendere manipolabili i valori degli individui in funzione dell’obiettivo finale, il profitto dell’azienda nell’arena del mercato. Ne La commedia umana del lavoro (Mimesis, pp. 166, euro 14, prefazione di Enrico Donaggio, traduzione di Ginevra Scarcia), Danièle Linhart scompagina tutte le strategie mediante cui il manager contemporaneo fa dei propri subordinati materiale grezzo da modellare.

IL PROFESSIONISTA, dotato di un bagaglio di conoscenze maturate con l’esperienza lavorativa e relazionale, viene letteralmente annichilito, ridotto all’amnesia: sballottato fra continui cambiamenti, disorientato fra trasformazioni raccontate come innovazioni tecnologiche volte a stimolare le sue più vere attitudini e la sua intraprendenza, il lavoratore si ritrova in realtà spogliato delle proprie capacità, impedito a dare un concreto e autonomo contributo, decostruito a puro materiale umano e ricostruito secondo i valori che la gestione manageriale gli imporrà.
La retorica che ricopre tale processo è proprio quella di un ritrovato umanesimo, di un’autenticità che appiana le divergenze, ricuce le opposizioni fra sfere dirigenziali e sfere subordinate: tutti umani, ci si rivolge alle sofferenze, all’emotività, ai talenti come si fosse tutti una grande famiglia in cui il manager dosa sapientemente cooperazione e competizione.

Come opporsi a una così calda vicinanza umana? Sollevato questo strato mellifluo, però, si riscopre la realtà di un’autonomia personale calpestata, di un paternalismo che minaccia ciò che l’individuo intende mettere in campo nell’ambiente lavorativo e pubblico, al fine di arrivare al nucleo più intimo, e piegarlo all’economia dell’impresa. Primo prodotto da creare è l’umanità dei dipendenti: «Non considerare la professionalità dei dipendenti – scrive Linhart – permette di escluderli in quanto attori dall’organizzazione del lavoro», generando un cortocircuito tanto più flagrante nell’epoca della performance, perché non prendendo sul serio le competenze dei lavoratori si possono piegare i loro corpi e le loro menti a oltranza, renderli flessibili e funzionali, ma si rinuncia all’apporto che essi potrebbero offrire, preferendo rivolgersi a ingegneri del lavoro che del vero lavoro conoscono poco o nulla.

NONOSTANTE si presenti come una presa di distanza dalla macchinizzazione dell’umano alla catena di montaggio, integrato al sistema e privo di rivendicazioni, quella neoliberale è una umanizzazione ipocrita, assai solidale con la disumanizzazione scientifica di taylorismo e fordismo. È profonda e convincente la dimostrazione con cui la sociologa francese affianca, pur nelle loro specificità, la strategia taylorista e la strategia manageriale neoliberista, entrambe esibite come volontà di aiutare, governare gentilmente, ascoltare, di liberare il lavoratore dei compiti onerosi di cui ora si occuperà il padrone.

Un mondo alternativo prima del punto di non ritorno

Tempi presenti. «AI-Work» di Sergio Bellucci (pubblicato da Jaca Book) è un’audace riflessione sui cambiamenti del lavoro digitale

Teresa Numerico  10.08.2021

Dopo più di quindici anni dal suo libro E-Work (DeriveApprodi, 2005), Sergio Bellucci torna sul rapporto tra tecnologia e lavoro con un nuovo testo corale che viene introdotto da un articolo sulle sue analisi più recenti. AI-Work (Jaca Book, pp. 312, euro 25) offre una panoramica riflessione corale sul lavoro che cambia modello di estrazione del plusvalore usando la dimensione immateriale dell’informazione.

LA TESI AUDACE del progetto è che le innovazioni dei processi produttivi come il capitalismo della sorveglianza e delle piattaforme, su cui si discute spesso, sarebbero in atto da tempo e non sarebbero che la punta dell’iceberg di un cambiamento più profondo, una vera e propria transizione. Tale passaggio consentirebbe perfino di eliminare il riferimento al capitale per la produzione e di rivitalizzare pratiche artigianali o le relazioni di scambio senza riferimento al denaro tradizionale.
Per costruire tale esito della transizione sarebbe necessario un grande progetto di revisione politica delle relazioni per la produzione e il trasferimento delle merci. Il ragionamento interessante di Bellucci è che il ruolo dell’immateriale sarebbe così rilevante nella nuova forma digitale della produzione da permettere di evitare il possesso dei mezzi industriali, finora necessari al funzionamento delle strutture capitalistiche.
Non si rinuncia a elencare le modalità dell’attuale stato del mondo del lavoro nel quale a vari livelli si assiste a forme di sfruttamento nuove di clienti e partecipanti ai servizi delle piattaforme che mettono a lavoro tante pratiche prima escluse dalla mercificazione. Dall’acquisto dei biglietti aerei alle attività sociali online, ogni gesto viene usato per alimentare il plusvalore. Tutto ciò, però, potrebbe essere solo l’effetto di uno sguardo miope sulla transizione in corso, che potrebbe anche essere quella definitiva, che renderebbe impossibile una riconversione dello status quo. Un ultimo stadio dello sfruttamento, in attesa che il sistema sia in grado di riorganizzarsi con pratiche di cooperazione, sottraendosi alla morsa del capitale.

AL CENTRO DEL CAMPO discorsivo c’è una diversa interpretazione del futuro del lavoro salariato. La sinistra non dovrebbe limitarsi a difenderlo. È evidente che questo tipo di contrattualizzazione della prestazione lavorativa si offre allo sfruttamento perché si fonda su una asimmetria inequivocabile tra chi offre il lavoro e le relative tutele e chi ne accetta le condizioni. L’attività sindacale del Novecento si è concentrata sulla costruzione delle tutele dei salariati, mentre l’equivoco del capitalismo era la previsione che lo sviluppo avrebbe prodotto anche la piena occupazione con la conseguente protezione di tutti i lavoratori.
Così non è avvenuto anche a causa di una sottovalutazione della componente della finanziarizzazione del capitale che non è stata sottoposta né a vincoli, né a processi di redistribuzione. Al centro dell’azione sindacale c’era il lavoro salariato, che prevedeva di cedere le proprie capacità lavorative in cambio di una garanzia sulla sicurezza dell’occupazione e sulla socializzazione dei rischi del lavoratore.
Un elemento ulteriore messo al centro della scena è la necessità di un reddito di esistenza o di cittadinanza, una volta accertato che il capitale non produce la piena occupazione e quindi una parte sarà sempre esclusa dalle tutele, talvolta anche quando è parzialmente inclusa in attività lavorative.

NE SONO UN ESEMPIO i rider, che rappresentano solo la punta a vista di un fenomeno complesso di parzializzazione, standardizzazione e spezzettamento dei lavoretti prodotto dalla tecnologia. Questo risultato produce un doppio sfruttamento: da parte dei datori di lavoro che richiedono prestazioni senza una vera e propria contrattualizzazione e da parte di piattaforme, di cui Mechanical Turk di Amazon è solo l’esempio più famoso. Sappiamo che l’intelligenza artificiale si nutre del lavoro di etichettatori sottopagati e invisibili spesso collocati nel sud globale, mentre i suoi frutti si colgono nel mondo industrializzato.
Tra chi propone di andare oltre il capitalismo e chi chiede una tassazione più equa di piattaforme e ricchezze finanziarie non c’è un vero conflitto, ma solo una diversa visione strategica sui tempi delle rivendicazioni e delle azioni da esercitare.
Su un punto ci sarebbero da sollevare alcune perplessità, la digitalizzazione con conseguente distanziamento e dematerializzazione di molte funzioni di lavoro datoriali non significa che manchi una forte infrastruttura industriale, che invece è geo-politicamente globalizzata e si avvantaggia della propria delocalizzazione. Il fatto che una parte di questa infrastruttura consista di conoscenze tecniche, informazioni – aggiungerei di ideologia dominante – non rende questi conglomerati più scalabili dal basso, ancorché tecnicamente sarebbe forse possibile.

SAREBBE NECESSARIO un progetto politico animato da una visione del mondo alternativa a quella basata su profitto, accumulazione, competizione, valutazione ai fini dell’esclusione della diversità. Se non si condivide un’idea di società che tuteli la natura, di cui siamo parte, è difficile costruire soluzioni diverse dal capitalismo. Ma forse l’obiettivo del libro è mettere un tassello teorico in favore di un progetto di convivenza antagonista a quello vigente.

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