CRESCITA, LAVORO, PENSIONI da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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CRESCITA, LAVORO, PENSIONI da IL MANIFESTO

Tra i luoghi comuni da sfatare, al primo posto c’è la crescita

Pierluigi Ciocca  03.11.2021

Classe politica, mondo degli affari e media diffondono informazioni spesso svianti, idee che radicano luoghi comuni. Ne evochiamo sei sulla condizione economica e sociale del Paese.

Dopo la recessione del 2020 dovuta alla pandemia, si afferma che il 2021 sarà un anno di crescita del Pil, e molto forte, dell’ordine del 6%. In un singolo anno era dal 1976 che non si registrava un simile aumento del prodotto.

Ma qualificare il fenomeno come crescita è decisamente improprio. La parola è da non usare. Può parlarsi di crescita quando l’incremento dell’attività produttiva è sostenuto nel tempo e si fonda su una tendenza ascendente degli investimenti, del progresso tecnico, della produttività, della domanda globale.

Da oltre un ventennio di questa tendenza nell’economia italiana non vi è traccia. All’opposto, ha prevalso la tendenza al ristagno, punteggiata da diminuzioni, delle quattro cruciali variabili. L’aumento del Pil previsto nel 2021 è un mero rimbalzo della produzione dopo che la pandemia era sfociata nel 2020 in cedimento delle aspettative di famiglie e imprese e nella chiusura profilattica delle attività produttive.

La manovra di bilancio per il 2022 sconta un ulteriore disavanzo alimentato da una miriade di spese correnti e di sgravi. Soprattutto, non è imperniata su una linea chiara di investimenti pubblici, massicci e capaci di moltiplicare il reddito e innalzare la produttività, quindi senza debito aggiuntivo. Si afferma inoltre che la cosiddetta crescita in atto nell’economia italiana – che crescita non è – sarebbe comparativamente più rapida che altrove.

Ciò è smentito dai dati. Nel 2020 il Pil dell’Italia era caduto dell’8,9%, rispetto al -3,1% del Pil mondiale, al -3,4% di quello statunitense, al -6,3% nell’area dell’euro.

Secondo il Fondo Monetario, quest’anno il mondo e gli Stati Uniti registreranno un aumento di prodotto nettamente al disopra della flessione del 2020 e l’aumento previsto nell’area dell’euro (+5,0%) sfiorerebbe l’80% della flessione, mentre il rimbalzo italiano non supererebbe i due terzi della flessione. Persino la tartaruga Europa recupera, in termini relativi, più dell’Italia…

Ancora, è diffusa la lamentazione retorica secondo cui sulle generazioni future graverà con pesanti conseguenze il debito pubblico accumulato dagli antenati. A fine 2021 il debito non sarà lontano dai tre trilioni di euri. Sebbene enorme, esso è tuttavia di molto inferiore al patrimonio che almeno la prossima generazione, a differenza delle precedenti, erediterà da genitori e nonni.

La ricchezza delle famiglie italiane – al netto delle passività – è fra le più cospicue al mondo, pari a più di 8 volte il loro reddito disponibile. Costituita per il 60% da cespiti reali e per il 40% da attività finanziarie, si aggira sui 9-10 trilioni di euri. È quindi pari a tre volte il debito pubblico.

I giovani italiani vengono compianti anche perché meno istruiti dei coetanei europei, peggio pagati, in maggiore percentuale (30%) senza lavoro, ovvero indotti (nel 5% circa dei casi, tra il 2008 e il 2020) a trovarlo all’estero. Vero, ma le responsabilità vanno ripartite fra lo Stato che non rilancia l’economia, le imprese che cercano i profitti senza investire.

Al fondo, il problema è tuttavia radicato nella limitata domanda di lavoro e di lavoro qualificato espressa da imprese che non ricorrono nemmeno a giovani stranieri più preparati di quelli italiani. Il problema si ridimensionerebbe, se l’economia italiana tornasse alla vera crescita, se dalle imprese scaturissero accumulazione di capitale, innovazione, progresso tecnico, richiesta di lavoro, se lo Stato investisse nell’istruzione e nella ricerca favorendo i giovani più bisognosi e meritevoli.

Viene altresì presentato come infuocato, cruciale, il – mediocre – dibattito politico sui pregi e i difetti dell’attuale «reddito di cittadinanza» e sulle scarse risorse a ciò devolute. Di fatto, si sottovaluta e non si affronta alla radice la principale piaga sociale ed economica del Paese: un tasso di povertà assoluta – l’indigenza – prossimo al 10% della popolazione.

Questo dato è pari alla media mondiale, ma il Pil pro capite italiano è pur sempre il doppio della media mondiale. La quota italiana dei poveri è da economia sottosviluppata. Sei milioni di persone costrette a sopravvivere a stento con poche centinaia di euri al mese sono una autentica vergogna. Inoltre sottraggono al progresso del Paese il potenziale contributo dei tanti privi dei mezzi da impiegare nella propria professionalità. Occorrono posti di lavoro, interventi redistributivi, un welfare specificamente orientato alla soluzione della piaga.

Infine, le comunità del Belpaese colpite da inondazioni, frane, terremoti, valanghe, cambiamento climatico chiedono di essere risarcite con danaro pubblico. Il luogo comune da sfatare è che si tratti, quasi ineluttabilmente, solo di calamità naturali.

È invece gravissima la responsabilità di chi governa. A cominciare dalla messa in sicurezza di un territorio fragilissimo, la politica al centro e in periferia non ha applicato le norme e ha trascurato le infrastrutture idonee a prevenire quei disastri e quei danni, vite umane comprese.

Un dato di sintesi è davvero desolante: dal 2009 alla vigilia della pandemia, mentre la spesa corrente, gli sprechi e l’evasione dei tributi continuavano allegramente a dilatarsi, gli investimenti della Pubblica Amministrazione in infrastrutture sono stati tagliati di un terzo (del 50% nella sanità!).

Non si è neppure approfittato dei tassi di interesse bassissimi, anche inferiori all’1%, sui titoli di Stato che il mercato finanziario ha proposto negli ultimi due anni. È quindi vergognoso che a disastri avvenuti i rappresentanti del popolo si limitino a dichiararsi disposti a compensare chi ne ha subito le conseguenze, accattivandosi così il loro consenso. Avrebbero dovuto provvedere per tempo, dovrebbero provvedere con urgenza, scoprendo la lungimiranza di cui finora, colpevolmente, non hanno dato prova.

La «Fornero» penalizza tutti

Pensioni. Nei dieci anni trascorsi, specialmente dopo la crisi pandemica, i fatti hanno mostrato chiaramente i danni creati dalla filosofia dell’«austerità espansiva» del governo Monti e dalla sua applicazione al sistema pensionisticoFelice Roberto Pizzuti  03.11.2021

Nell’attuale dibattito pensionistico ci sono due equivoci di fondo: che la normalità cui si dovrebbe tornare sarebbe l’assetto stabilito dalla riforma Fornero nel 2011 e che essa favorirebbe i giovani. Nei dieci anni trascorsi, specialmente dopo la crisi pandemica, i fatti hanno mostrato chiaramente i danni creati dalla filosofia dell’«austerità espansiva» del governo Monti e dalla sua applicazione al sistema pensionistico.

PRIMA ANCORA che la riforma Fornero venisse applicata, furono subito segnalate le sue incongruità anche tecniche che davano luogo a fenomeni economicamente e socialmente insostenibili come la creazione degli «esodati», persone che improvvisamente venivano a trovarsi senza salario e senza pensione, ad onta di ciò che dovrebbe fare la previdenza sociale. Bisognò correre subito ai ripari procedendo alle cosiddette misure di salvaguardia.

Nel corso degli anni ne sono state fatte nove, portando a circa 250.000 la platea dei lavoratori «salvaguardati» dalla «normalità» della legge Fornero. Peraltro, giustificata sostenendo pure che alzando l’età di pensionamento sarebbero aumentati gli attivi e gli occupati; ma mentre il primo effetto era statisticamente ovvio, il secondo era una colpevole illusione. Infatti l’occupazione non aumentò poiché proprio le politiche governative ostacolarono la crescita. Quanto all’effetto sui giovani, trattenere forzosamente in attività chi stava per andare in pensione, ridusse i posti disponibili per i nuovi ingressi nel mondo del lavoro; cosicché, oltre a penalizzare le aspirazioni complementari degli anziani e dei giovani, si ridusse il turnover e la sua spinta all’innovazione e alla dinamica della produttività.

«QUOTA 100» È STATO un altro tentativo di compensare i problemi generati dalla riforma Fornero, ma è stata una misura sopravalutata sia dai suoi sostenitori sia dai suoi detrattori. In una fase di grande precarietà economico-sociale, la sensibile riduzione di reddito che già si verifica nel passaggio dalla retribuzione alla pensione, accentuata dalla penalizzazione per l’anticipazione del pensionamento nel sistema contributivo, ha consentito solo ai lavoratori più benestanti, prevalentemente maschi, di usufruire di «Quota 100».

Questa, dunque, da un lato, si è rivelata una misura inadeguata e discriminante rispetto all’obiettivo, d’altro lato, è stata meno costosa del previsto. Ma se oggi, alla prevista scadenza di «Quota 100» l’intervento del governo si riduce alla sua progressiva eliminazione tramite «quote» intermedie (102, 103, …) per tornare alla legge Fornero, non solo non si realizza il bene dei giovani falsamente decantato, ma si continuano ad ignorare i problemi strutturali sempre più urgenti del nostro sistema previdenziale e dei suoi effetti negativi sugli equilibri economico-sociali.

DA ANNI NEL RAPPORTO sullo stato sociale redatto in Sapienza si richiama l’attenzione sulla «bomba sociale» in arrivo: quasi il 60% di quanti hanno iniziato a lavorare a metà degli anni ’90, a causa dei salari bassi e instabili finora avuti, permanendo gli assetti del sistema previdenziale e del mercato del lavoro, matureranno una pensione inferiore alla soglia di povertà. Alle stesse generazioni che nell’età attiva subiscono le conseguenze di politiche controproducenti che pregiudicano perfino la loro possibilità di fare figli, si sta prospettando una anzianità con condizioni di vita ancora peggiori. Preoccuparsi per i giovani significa offrirgli sia opportunità di lavoro e di realizzazione oggi, sia prospettive di sicurezza da anziani, sapendo che le prime e le seconde interagiscono tra di loro. Assicurare ai giovani d’oggi una anzianità almeno decente, mettendola a riparo dall’automatica riproposizione delle precarietà lavorative attuali, ridurrebbe l’ansia che induce risparmi eccessivi, favorendo la crescita del reddito (attuale e futuro) da cui poter attingere anche il finanziamento delle pensioni (attuali e future).

RICONOSCERE una contribuzione figurativa ai lavoratori involontariamente disoccupati è la strada per ridurre strutturalmente le conseguenze negative sulle loro pensioni derivanti dalla attuale precarietà del mondo del lavoro; ciò, peraltro, non graverebbe sul bilancio pubblico attuale e offrirebbe le maggiori certezze favorevoli alla crescita e ai bilanci pubblici anche futuri. Dare ai singoli lavoratori elasticità di scelta dell’età di pensionamento (e della prestazione maturata) in un arco temporale variabile anche in relazione alle mansioni svolte, nel sistema contributivo non avrebbe effetti sul bilancio previdenziale di medio periodo, ma contribuirebbe a favorire le sicurezze personali e gli equilibri economici. Ecco perché è necessario smetterla con i rattoppi di una riforma tecnicamente sbagliata inserita dieci anni fa in un disegno economico-sociale dimostratosi disastroso che, per di più, alimenta immotivate e pericolose contrapposizioni generazionali che ricordano i capponi di Renzo.

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