ANTIFASCISMO, LIBERTÀ e RAGIONE da IL MANIFESTO
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
Cultura, Saperi, Università, Dialogo
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ANTIFASCISMO, LIBERTÀ e RAGIONE da IL MANIFESTO

Antifascismo, libertà e ragione: pietre miliari e radici storiche

SCAFFALE. «Un’altra Italia», l’ultimo libro di Pietro Polito pubblicato da Aras edizioni

Peitro Gobetti e Ada Prospero Marchesini Gobetti

Francesco Pallante  12.02.2022

È un’Italia in cui sarebbe bello vivere, quella descritta da Pietro Polito nel suo ultimo libro: Un’altra Italia (Aras edizioni, pp. 261, euro 19). Un’Italia antifascista, libera, non violenta, democratica – una democrazia basata sui partiti e sulla centralità del parlamento –, universalista, che rifugge ogni dogmatismo e alimenta lo spirito critico, laica, anticlericale, solidale, fondata su un lavoro dignitoso e non alienante, antirazzista, mite, illuminista, europeista.

UN’ITALIA POPOLATA da Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi, Aldo Capitini, Franco Antonicelli, Paolo Gobetti, Alberto Cabella, Alessandro Galante Garrone, Ernesto Rossi, Benedetto Croce, Silvio Trentin, Leone Ginzburg, Guido Dorso, Pier Paolo Pasolini, Ada Gobetti, Camilla Ravera, Bianca Guidetti Serra, Carla Gobetti, Liliana Segre, Umberto Campagnolo, Renato Treves, Norberto Bobbio: le «maggiori» e i «maggiori» dell’autore, figure di esemplare impegno morale, intellettuale e politico, che costellano il suo appassionato percorso di ricerca.

PIERO GOBETTI è il perno intorno al quale ruotano le riflessioni di Polito – e non potrebbe essere altrimenti, considerato che del Centro studi Piero Gobetti egli è direttore, oramai, da quasi dieci anni. Tutti i protagonisti del libro sono raccontati nella loro relazione, di consonanza e talvolta anche di dissonanza, con l’intellettuale torinese prematuramente scomparso: quel «prodigioso giovinetto» – come ebbe a definirlo Norberto Bobbio, alla cui scuola Polito si è formato – che, in maniera tanto rapida quanto intensa, attraversò il primo Novecento italiano, lasciando un segno profondo e duraturo.
Gobetti fu tra i primi a inquadrare correttamente il fascismo come un totalitarismo violento e illiberale, dimostrandosi capace, pur da studioso ancora in formazione, di una lucidità d’analisi superiore a quella dei suoi maestri Benedetto Croce e Luigi Einaudi, che da Mussolini si fecero inizialmente ammaliare.

E ANCHE LA FAMOSA qualificazione gobettiana del fascismo come «autobiografia» della nazione italiana risulta assai più pertinente del tentativo, posto in essere da Croce alla fine della guerra, di trattare il ventennio alla stregua di una parentesi, chiusa la quale avrebbe potuto riprendere corso la monarchia liberale – così come, archiviata l’invasione degli Hyksos, era ripreso il dominio dei faraoni sull’antico Egitto. L’antifascismo «istintivo», discendente «da ragioni soprattutto morali, ideali», incentrato sull’idea dell’assoluta dignità di ogni vita umana, è, in ogni caso, il principale filo che, nella ricostruzione di Polito, lega l’uno all’altro i suoi autori. Si aggiungono altri due fondamentali tratti comuni: la «passione di libertà illuminata dalla ragione» e l’illuminismo pessimista – perché «l’ottimismo comporta pur sempre una certa dose di infatuazione, e l’uomo di ragione non dovrebbe essere infatuato» (Bobbio) – che mai, però, si traduce in rassegnazione. Considerati nel complesso, questi tre elementi – antifascismo, libertà e ragione – rappresentano le pietre miliari su cui, già durante il ventennio, gli antifascisti rievocati da Polito progettarono la ricostruzione non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa a venire.
A partire da queste basi, il libro intreccia alcuni dei più significativi elementi biografici delle vite delle donne e degli uomini che lo animano con la ricostruzione dei profili intellettuali, più o meno conosciuti, del loro pensiero. Ne emergono medaglioni intriganti, di godibilissima lettura, attraverso i quali ci si affaccia vividamente sull’esistenza, non solo intellettuale, di alcuni tra i più straordinari protagonisti dell’antifascismo azionista e liberale.

CENTRALE è l’attenzione dedicata da Polito alle sue «maggiori», di cui richiama, come valori di riferimento, la chiarezza, la dignità e la coerenza (Ada Gobetti), la passione per la lotta e per la pace (Camilla Ravera), la consapevolezza della fragilità e della difficoltà della democrazia (Bianca Guidetti Serra), l’animazione e la formazione culturale (Carla Gobetti), l’obbligo morale di non perdonare, non odiare, non dimenticare (Liliana Segre). A completamento del volume, un’appendice testuale mette il lettore direttamente a contatto con pagine scelte di Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Benedetto Croce, Leone Ginzburg, Ada Gobetti, Norberto Bobbio. Pagine altissime: purtroppo, terribilmente lontane dal nostro quotidiano. Ma che valgono a testimoniare che un’altra Italia è possibile.

Carlo Doglio, la fionda per superare tutte le disuguaglianze

Scaffale. Una raccolta degli scritti dell’urbanista nel libro «Il piano aperto» a cura di Stefania Proli, per elèuthera

 Maurizio Giufrè  12.02.2022

Un legame stretto tiene insieme l’attività di urbanista di Carlo Doglio (Cesena 1914, Bologna 1995) e la sua militanza nell’anarchismo: si coglie in modo netto nella raccolta degli scritti curati da Stefania Proli, nel libro Il piano aperto (elèuthera, pp. 199, euro 17), che si aggiunge a quella precedente di Chiara Mazzoleni: Carlo Doglio, Selezione di scritti 1950-1984, Iuav, 1992).
L’importanza di tornare a riflettere sul pensiero teorico di Doglio ha un interesse, soprattutto adesso, non solo di carattere storiografico. L’urbanistica, a distanza ormai di un lustro dai testi del nostro «esperto pianificatore» risalenti al decennio degli anni 60, ha rinunciato a porsi in maniera problematica e critica nei confronti delle trasformazioni della città e del territorio. È superfluo illustrare ora le molteplici ragioni che l’hanno condotta ad essere subalterna ai processi di «privatizzazione», se non corresponsabile della deregulation urbanistica.

DOGLIO NON VIDE l’aggravarsi dei riprovevoli effetti che i nuovi fenomeni prodotti dalla finanziarizzazione immobiliare avrebbero prodotto nelle città e nei territori, tuttavia intuì con largo anticipo alcune cause che ne hanno favorita l’espansione: da un lato la «tecnocrazia», dall’altro il «mondo astratto dei partiti». Comprese come la tecnica e politica, insieme, avrebbero disperso la «carica tramutativa» dell’urbanistica e con i loro «principi d’autorità» e «gerarchie» impedito che la pianificazione diventasse un’«opera d’arte collettiva» secondo quanto formulato dal pensiero di Geddes e Mumford e idealmente contenuto nelle tesi libertarie di Kropotkin, Bakunin, Proudhon: i suoi autori prediletti e dei quali curò alcune loro edizioni. Attraverso l’esposizione di una serie di suoi concetti, quali quelli di «crescita organica», pianificazione a «misura umana», «rapporto uomo-ambiente» o «sviluppo organico nonviolento», si torna con Doglio ai valori fondanti l’urbanistica che per lui consisteva nel «superamento, non solo formale, delle necessitazioni socio-economiche» e di conseguenza il sapere costituente la «struttura portante, e biologicamente vivente, della vita».
Con il piano «armonico» e «aperto» originato dal basso e modificabile perché collegato a «l’unica realtà che è quella di (biologicamente) esistere», Doglio pensò possibile ordinare l’ambiente urbano allo scopo di frenare gli egoismi individuali e salvaguardare gli interessi comuni.

Carlo Doglio

LE PAGINE della sua urbanistica «libertaria» sono ricche di episodi vitali e appassionanti. In particolare quello accaduto in Sicilia e che ebbe inizio nell’autunno del 1960 nell’incontro con Danilo Dolci.
Prima di raggiungere l’isola aveva trascorso un lungo periodo a Londra, inviato lì da Adriano Olivetti, per studiare la pianificazione territoriale sulla quale esprimerà le sue critiche dalle pagine della rivista Comunità definendo le Unions dei «mammouth che impacchettavano le volontà individuali».

A PARTINICO dove stabilì la sua residenza, Doglio si calò nei problemi della comunità agricola di quella parte centro-meridionale della Sicilia inaugurando una stagione di piani comprensoriali la cui sperimentazione faceva ben sperare soprattutto nella fase della ricostruzione post-terremoto del Belice.
All’indomani del drammatico evento accaduto nel 1968, vi era l’«occasione di tagliar corto con un passato di staticità». Un peccato che nel conflitto tra Stato e Regione s’inaridì, invece, quella meritevole iniziativa rappresentata dalla «pianificazione intermedia», ovvero l’applicazione di strumenti urbanistici a scala comunale o di più comuni consorziati, per la quale Doglio si batté con strenuo impegno.
Nel 1969, quando lasciò la sua libera docenza a Palermo, chiamato da Giuseppe Samonà all’Istituto universitario di architettura di Venezia. Non smise di pensare al suo «paese del cuore» e con Leonardo Urbani, nel 1972 (anno del suo ordinariato), darà alle stampe La fionda sicula, un saggio in forma di racconto, dal quale la nostra autrice ha tratto un ampio stralcio per il capitolo finale della sua raccolta.

CON LA METAFORA della «fionda» immaginava di superare l’arretratezza e le disuguaglianze isolane. Un vertice della forcella era costituito da una «vitalizzazione economica interna ad alto livello tecnologico» insieme a un «sistema di grandi comunicazioni» in grado di connettere la Sicilia al resto del mondo. L’altro vertice, invece, era rappresentato dalla specificità dei territori con la loro storia in grado di generare quell’intrinseca forza che estroflettendosi avrebbe determinato un concreto mutamento. Le «corde-elastiche» della fionda erano figurate dai territori trasformati del Belice e dalle valli del Platani e del Salso che sulla base delle loro singole economie, agricoltura e industria mineraria, si sarebbero conformate alla domanda dei mercati. Il sasso, alla fine, era la regione del Corleonese in grado per la sua vicinanza alla costa (Palermo e Termini Imerese) di assolvere il compito di «attacco», quindi di connessione con l’esterno. In questa «suggestione formale» era contenuta un’idea per nulla astratta e romantica delle possibilità di riscatto sociale ed economico di aree marginalizzate nella loro immobilità.
Nessun risultato si ottenne, ma la lezione di Doglio è ancora lì a dimostrare che dalle sue riflessioni si dovrebbe ripartire per contrastare le deviazioni dell’urbanistica: sapere capitale per il destino delle nostre città.

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