Roma. In viaggio per le occupazioni
di Roberto CICCARELLI, da “il manifesto“, 11 luglio 2018
Il viaggio nelle occupazioni romane dovrebbe diventare un’appuntamento fisso. Una giornata di educazione civica, un momento per stringere alleanze e essere solidali, un modo per combattere i pregiudizi razzisti o sostituire l’alternanza scuola-lavoro per gli studenti delle superiori. Domenica 8 luglio i movimenti per il diritto all’abitare di Roma, insieme a Giorgio De Finis – il vulcanico neo-direttore del Macro, ideatore del museo dell’altro e dell’altrove (Maam) nell’occupazione Metropoliz, hanno organizzato R/Home tour, un tour delle occupazioni abitative con ospite il vicesindaco e assessore alla cultura della Capitale Luca Bergamo. Due autobus sono partiti dal Campidoglio, a bordo docenti di urbanistica e dottorande di ricerca, artisti e urbanisti, alcuni esponenti dei movimenti della casa, Paolo Di Vetta, Irene di Noto, Luca Fagiano, Cristiano Armati; il segretario dell’Unione Inquilini Massimo Pasquini; Tano D’Amico, presenza delicata e saggia, fotografo e testimone anche delle lotte per la casa a Roma nell’ultimo mezzo secolo; Lorenzo Romito degli Stalker, architetti e artisti dello storico gruppo di esploratori urbani, Carlo Infante di Urban experience e il pittore, fumettista e scrittore Pablo Echaurren. Doveva partecipare anche l’assessore all’urbanistica Luca Montuori, ma per un impegno familiare è arrivato alla fine. Bergamo ha seguito il percorso del tour, ha ascoltato, ha detto che per lui è stato un’occasione per conoscere la realtà.
Non era scontato. È la prima volta che accade, a mia conoscenza, che un politico condivida un autobus con i movimenti della casa. Di solito, sulla casa e gli spazi sociali, il conflitto è duro con il Campidoglio. E non era nemmeno facile: la giunta Raggi non si è particolarmente distinta nelle politiche abitative, uno dei nodi strutturali della città. Ha condiviso il codice di condotta di Minniti per gli sgomberi dopo quello drammatico di piazza Indipendenza nell’agosto 2017; non applica il piano di emergenza varato dalla Regione Lazio su spinta dei movimenti, né investe 200 milioni dei fondi ex-Gescal; tiene in vita la delibera 50 dell’ex commissario Tronca sugli sgomberi. Il nodo con la giunta è l’assegnazione di case popolari a famiglie “extra graduatoria”: i movimenti sostengono che la maggior parte degli occupanti è in graduatoria, per il Campidoglio non è così. Tensione produce il criterio centrato sulle “fragilità” scelto dall’assessora Laura Baldassarre:alle case dovrebbero accedere una quota di disabili, anziani, e mamme con minori, distinti dai padri e dagli altri membri della famiglia. Gli occupanti non intendono dividere le famiglie e si oppongono.
Il blitz
Una sola volta il vicesindaco si è irrigidito. Poco prima di arrivare a Rebibbia, sulla Tiburtina il pullmann ha accostato. Dal lato della strada è sopraggiunto un corteo dei rifugiati sudanesi sgomberati in via Scorticabove. Sventolavano bandiere italiane, mostravano uno striscione: “Dov’è la nostra protezione internazionale?”. “Questo non era previsto – ha detto a Paolo Di Vetta dei Blocchi Precari Metropolitani (Bpm). “No, siamo la stessa cosa” qualcuno gli ha risposto. A bordo è salito Adam, sudanese. E ha raccontato la storia dell’ultimo sgombero a Roma: “Dal 2005 c’era una cooperativa che gestiva il centro. Se ne sono andati senza dire niente. Da allora ci siamo autogestiti. Nessuno ci ha mai detto nulla. Nel 2016 abbiamo chiesto un incontro anche allora nessuna risposta. Ora siamo in strada. Noi non vogliamo cooperative. Sappiamo gestirci da soli”. Una posizione rilevante nella città di mafia capitale: i rifugiati sono sottomessi alla cooperazione, trattati come merci di scambio. In questo caso rivendicano l’autonomia in una vicenda dove il Campidoglio ha tenuto un profilo basso, offrendo assistenza nei centri accoglienza extra Sprar. Giovedì dovrebbe esserci un incontro con l’assessora Laura Baldassarre. Per il momento 120 persone restano sotto il sole in via Scorticabove. Per parlare con il Campidoglio i rifugiati hanno intercettato un autobus in una terra di nessuno.
Un flash
Teatro di Marcello, ore nove. Quattrocento metri più giù, dove via del teatro di Marcello si appiana e diventa via Petroselli, un ricordo di quattro anni fa. Centinaia di manifestanti assediavano il palazzo dell’anagrafe. Era il tempo della legge Renzi-Lupi: la guerra contro le occupazioni abitative passava dalla negazione della residenza, l’impedimento di andare a scuola per i bambini, il taglio delle utenze alle occupazioni. Una guerra agli umani. In una città dove l’emergenza è acutissima i municipi hanno però trovano una soluzione solidale: la “residenza fittizia”. Visto che non è possibile risiedere in un luogo occupato, lo ha stabilito l’articolo 5 della legge Lupi, è il municipio a farsi garante di queste persone. Accade soprattutto nel secondo, quello che amministra la Tiburtina Valley dove si addensano il 60% delle occupazioni della capitale. Ci sono file d’attesa che durano anche tre mesi. Il “contratto” del nuovo governo promette di tornare a fare la guerra, con strumenti ancora più violenti.
L’emergenza è strutturale. Roma moderna è nata in uno stato di emergenza urbanistico. Quella contemporanea replica una geografia del postfordismo: deindustrializzazione e turistizzazione, quartieri fantasma oltre il raccordo anulare e dentro la città storica; proletarizzazione delle classi medie e immiserimenti dei poveri urbani; speculazioni immobiliari a suon di compensazioni e isteria sul decoro e “cleaning” etnico (la parola “cleaning”, “pulizia”, fu adottata dalle istituzioni per giustificare lo sgombero di piazza indipendenza nell’agosto 2017). In questa cornice, questi i dati dell’emergenza conclamata forniti da Massimo Pasquini (Unione Inquilini).: 7 mila sentenze di sfratto all’anno, 3500 famiglie (15 al giorno) sfrattate; 12.500 nelle graduatorie, 1,5 case popolari affittate al giorno. Di questo passo ci vorrà un secolo per dare un tetto a tutti. Tremila persone vivono nei residence, 250 famiglie hanno il “buono-casa”. Ci sono 85 mila studenti fuorisede, solo 2 mila i posti letto con contributo regionale. Al resto pensa il mercato nero degli affitti. E poi 10 mila persone – è una stima – che vivono nelle occupazioni formali e informali. Almeno cento quelle censite.
Nelle società fondate sull’apartheid finanziaria, questo non interessa, o viene criminalizzato. I poveri, gli esclusi, i rifugiati, i migranti vanno tenuti lontani, e sono utili solo quando servono.
“Vogliamo case pubbliche”
Arriviamo al Porto Fluviale, un ex magazzino militare occupato da 15 anni. Un capolavoro ci accoglie sui muri esterni: è il murales di Blu, lo street artistinvisibile e onnipresente nelle occupazioni italiane. I tour operator dell’Ostiense, nuovo avamposto della gentrificazione in una zona universitaria, organizzano itinerari che comprendono anche il murale. All’interno è un’altra storia. Immaginiamo Porto Fluviale come un nastro di Moebius: il lato esterno si intreccia con quello interno. Entrambi sono avvolti da un movimento unico nel quale l’enorme struttura si apre e rivela una comunità di quasi 300 famiglie. Insieme hanno fatto un miracolo di auto-costruzione. Questo solido quadrato, incastrato tra i binari e il ponte di ferro che porta a Garbatella, all’origine era un rudere. Ora è un prototipo sociale.
“Abbiamo trasformato i magazzini in case- racconta Danilo – il cortile in spazio pubblico aperto al quartiere. Vogliamo smettere di essere occupanti, vogliamo case pubbliche non di nostra proprietà dove paghiamo l’affitto sociale”. Danilo racconta al vicesindaco Bergamo la storia di un’architettura ripensata da una nuova moltitudine multinazionale che ha imparato a conoscersi operando insieme per risolvere problemi vitali. Ad esempio la separazione delle acque nere dalle acque chiare. Oppure il problema dell’elettricità e quello della prevenzione degli incendi. Le stanze ricavate da un’attenta pianificazione degli spazi, modificabile in base alla composizione dei nuclei familiari, sono il prodotto di un pensiero collettivo. A cominciare dalla scelta dei materiali, dallo studio della statica dell’edificio.
La profezia sul Welfare (che non c’è)
Destinata alla vendita nel circuito della finanza immobiliare, l’Ex palazzina Inpdap in viale delle province 196 è stata occupata dai Blocchi Precari Metropolitani (Bpm) nel 2012 al tempo del primo “Tsunami tour”, un’ambiziosa risposta alla scandalosa emergenza abitativa. In pochi mesi hanno trovato un tetto migliaia di persone: italiane, africane, latinoamericane. A un paio di chilometri da qui c’è Spin Time, in via di Santa Croce in Gerusalemme, come questo un palazzone con un auditorium occupato da Action. Anche qui sono centinaia i nuclei famigliari sottratti alla strada. Siamo seduti su una bomba sociale, quella previdenziale, e non ci diamo peso. I movimenti della casa in questo sono profetici. Stanno reinventando la funzione sociale della proprietà in mano agli istituti previdenziali al tempo della sua finanziarizzazione. Una riappropriazione sociale del Welfare che milioni di persone, italiane e straniere residenti, non avranno mai. Lavorano precariamente, non hanno una casa. Non avranno una pensione. Nell’attesa, chissà quanto ancora tragicamente lunga, questi movimenti hanno improvvisato una soluzione. Dovrebbero essere premiati. E invece sono perseguitati.
Uno dei quotidiani palazzinari della Capitale ha raccontato che viale delle province ècome “un fortino” dove “lo stato non entra”. E’ entrato il vicesindaco di Roma, ed è stato accolto in maniera amichevole. Queste comunità cercano un confronto, vogliono risolvere il loro problema, sono organizzazioni sociali intelligenti che rispondono ai problemi di reddito, agli sfratti, alle malattie sulle persone che non hanno reti di salvataggio. Sulle scale arcuate, pensate da un architetto in vena di virtuosismi, mi avvicina un marocchino di una sessantina d’anni, baffi spessi, viso scavato. Mi ha scambiato per un poliziotto, un agente in borghese, un funzionario dei servizi sociali. Prova a parlarmi, non lo capisco. Mi porge un faldone di documenti. Leggo la sua storia: ha un linfoma di Hodgkin, è stato sottoposto a sei cicli di chemioterapia. Nessuno dei suoi sei fratelli in Marocco è disposto a donargli il midollo. La Asl lo ha dichiarato inabile al lavoro, mi mostra il permesso di soggiorno. Mi chiede di considerare la sua situazione. Cerco di fargli capire che non sono la persona che crede io sia. Lui mi sorride: “Grazie”.
Nella hall incontro un uomo alto più di un metro e ottanta. Ha ottantadue anni, lavorava alla Sapienza, facoltà di biologia. E’ cieco, a causa di un intervento alle cataratte non riuscito. Si appoggia sulle spalle di una piccola donna eritrea. Lei è forte, piena di energia, ha i capelli crespi, lunghi, tendenti al rosso. Lo cura con ironia, lo tiene per mano, lo guida. Ha una presa energica, conta i passi incerti dell’uomo. Guardo le sue scarpe, ha piedi enormi. Si parlano amorevolmente, anche lei vive qui, con la sua famiglia. Lo assiste, piano piano arriviamo in un micro-appartamento, ben ordinato, le imposte semichiuse in una domenica di luglio. Tutto è calmo: le tende mosse da un alito di vento, una poltrona, un piccolo bagno. Una tranquilla popolosa solitudine.
Entro con il vicesindaco Bergamo nel saloncino dove una donna emigrata dal Perù ha trasportato i resti della casa che lasciò quando il suo salario non è bastato a pagare un canone da 800 euro al mese. Non attese lo sfratto. Lasciò al padrone di casa tre mesi di caparra e, poi, uscì. Da sola. “Litigavo ogni giorno con mio marito – racconta – I soldi non bastavano mai. Io ero disperata, l’ho lasciato, volevo tornare a casa, ma qui ho la mia vita, i miei figli sono nati in Italia, sono italiani”. La scelta di occupare ha salvato la vita di questa famiglia venuta da un altro mondo. Ora la coppia si è riunita, vivono nella comunità. La figlia maggiore va all’università, a due passi da qui. Il figlio più piccolo può giocare a calcio. “Perché anche questo è un costo”. L’occupazione è una riappropriazione di reddito per questa lavoratrice: versa i contributi, lavora a servizio presso le famiglie romane. E ora ha un tetto.
Rafael è un rifugiato politico venezuelano. E’ uno degli spiriti attivi dell’occupazione di viale delle province. Sta organizzando una biblioteca popolare che vuole aprire al quartiere. Parla con entusiasmo della scuola che organizza per i bambini dell’occupazione che sciamano accanto ai noi visitatori alieni. Parla del metodo di Paolo Freire, icona dell’educazione popolare anti-gerarchica: “Da noi – racconta Rafael – non c’è insegnamento verticale, ma orizzontale. Una volta che il bambino e l’adulto hanno imparato una nozione la insegnano agli altri”. Scrive saggi di filosofia e anche storie per bambini in spagnolo, in Venezuela insegnava storia dell’arte, con noi parla di teologia della liberazione. Mi chiede: “Ma tu sei un giornalista? Sai che io leggevo l’Unità? E ho letto i Quaderni di Gramsci. Ho studiato quello che scrive sulla scuola, la sua idea di educazione popolare. Qui da voi Gramsci è letto poco. Negli ultimi 50 anni in tutta l’America Latina noi l’abbiamo studiato”.
“Roma si barrica!”
Siamo in viaggio verso l’occupazione di Casal Boccone, un’ex palazzina Inpdap occupata dopo la dismissione di un centro assistenza per malati di alzheimer nel 2013. Siamo a pochi passi dal raccordo anulare, davanti a noi si perde a vista d’occhio il parco della Marcigliana. Dietro c’è il parco Talenti arso dal sole di luglio. Accanto c’è l’ex stabilimento Almaviva da cui sono stati licenziate 1666 persone. Quando accadde, gli occupanti insieme agli abitanti del quartiere, hanno manifestato con i lavoratori.Le periferie non sono terre di nessuno a Roma. Nascono forme di solidarietà inaspettate.
Nell’anfiteatro incontro Mady, una ragazza rom, una delle portavoce dell’occupazione. Ha i capelli biondo tinti, sprizza energia da tutti i pori, mentre parla con il vicesindaco Bergamo insieme a Mercedes, una donna argentina, lo guarda negli occhi, non li abbassa mai. Qui è una festa: le donne eritree e somale preparano il caffé secondo l’usanza del loro paese. I bambini si inseguono, giovani uomini indossano cappellini e canotte e si fanno vedere accanto alle loro donne incinte. Qualcuno prepara i caffè con le cialde: “Farò il cialdarrostaio” dice un ragazzo di origini libiche vestito come un rapper, cappellino a rovescio, occhiali da sole tondi e una grossa catena al collo. La comunità si presenta al vicesindaco: c’è l’occupazione di colle salario da vent’anni: “Attorno a noi ci sono i fascisti, ma noi siamo rispettati, gli abitanti si fidano, ci mandano i bambini per il doposcuola, tutto è gratis. Con l’”Altro colle” abbiamo un progetto di laboratori sociali”. Anche qui ci viene offerto un banchetto. E a Bergamo viene fatto un regalo. Una grappa barricata. Accompagnata da uno dei cori del movimento della casa nella Capitale: “Roma si barrica!”. Il vicesindaco sorride imbarazzato.
Irene mi racconta una storia di resistenza. Eravamo nel 2013, i movimenti erano impegnati in una manifestazione in centro. Ci furono cariche ed arresti. Alla fine della manifestazione andarono in presidio al commissariato Trevi. Giunse la notizia che la questura aveva ordinato lo sgombero di Casal Boccone, si precipitarono. Nel frattempo erano entrati. Furono le donne a opporsi, piano per piano, fino a rifugiarsi sui tetti con i bambini. C’è una foto con un elicottero sospeso, mentre un occupante ha in mano un estintore. Ultimo segno di resistenza. Dalle quattro del pomeriggio alle 22 scenari di guerra. Le truppe alla fine si ritirarono dalla ritorsione. Quando si entra nel cortile di Casal Boccone si vede un murales colorato con lo slogan: Casal Boccone resiste! E poi anche un altro: “Welcome Trouble”, benvenuti guai. Ogni battaglia ha la sua memoria. E la tramanda con un hashtag.
Un vascello nella tempesta: Metropoliz
Diventato il luogo simbolo delle occupazioni per necessità della Capitale, oggi Metropoliz ospita il Maam ed è un vascello di nuovo nella tempesta. Il ministero dell’interno dovrà risarcire i proprietari dell’ex salumificio sulla Prenestina, occupato dal 2009 per quasi 30 milioni di euro all’impresa Salini, specializzata anche in costruzione di grandi opere in tutto il mondo. Il ministro dell’Interno sarebbe responsabile della «carente attività di prevenzione» e della «altrettanto carente attività di repressione delle occupazioni abusive». Su questo terreno doveva sorgere un condominio da 50 mila metri cubi di appartamenti con cessione di parte degli alloggi al Campidoglio. Ma prima della variante necessaria per la costruzione, arrivata dopo dieci anni di trattative nel 2013, questo rudere è stato occupato da una comunità di peruviani, marocchini, tunisini, ucraini, polacchi, rom ed eritrei. Così è stato a poche centinaia di metri da qui, con il cosiddetto “5 Stelle”: occupato da 5 anni da 100 famiglie.
Un risarcimento esemplare, come per Metropoliz, è stato chiesto al ministero dell’Interno anche per l’occupazione di via del Caravaggio da parte del coordinamento per la lotta per la casa. E’ un ex sede dell’assessorato della casa della Regione Lazio, ora di proprietà della famiglia Armellini. La cifra richiesta al ministero dell’Interno è di 162 mila euro per ogni mese di occupazione. E’ stata occupata dal 2013 da circa 200 famiglie, 350 persone, un centinaio di minori, un microcosmo composto da senegalesi, marocchini, etiopi, italiani, una popolazione meticcia che lavora come ambulante nei mercati, negli alberghi oggi vive con l’incubo di uno sgombero. Senza alternative.
La discussa creazione del Museo dell’Altro e dell’Altrove (Maam) è stata un’intuizione dei Bpm e da De Finis, scelto da Bergamo come curatore del Macro a partire da ottobre per il prossimo anno e mezzo. Hanno convinto gli artisti a interpretare criticamente il loro ruolo e a usare la loro arte come una “barricata” a difesa di un’occupazione. E’ un’altra piega della storia intellettuale degli urbanisti e degli architetti: l’arte, e la professione, usate a sostegno dei movimenti.
La barricata d’arte potrebbe non bastare. L’invito è allo sgombero, al di là dei costi sociali che potrebbe provocare. «L’esecuzione degli sgomberi forzati – si legge nella sentenza -può certamente determinare immediati, ma evidenti e limitati, turbamenti dell’ordine pubblico. Ma la tolleranza delle occupazioni abusive, al contrario, può determinare situazioni di pericolo meno evidenti ma decisamente più gravi nel medio e nel lungo periodo». La stilettata è rivolta anche alla giunta Raggi. “Le occupazioni abusive di interi stabili nella sola città di Roma assommano almeno a un centinaio e tale situazione è da sola sufficiente a dimostrare l’inadeguatezza della complessiva azione preventiva e repressiva delle autorità preposte”.
Il conflitto in corso è stato così descritto dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Albamonte pochi giorno dopo il drammatico sgombero di piazza Indipendenza: «Il diritto alla casa non è rivendicabile davanti a un giudice, a differenza del diritto di proprietà, e noi da questo non possiamo prescindere” ha detto. Secondo l’avvocato Francesco Romeo “Il diritto alla casa non è considerato un diritto fondamentale della persona – commenta, prima di scendere dall’autobus – Se così fosse non dovrebbe essere sottoposto al diritto di proprietà”. Uno stato a difesa del diritto di proprietà. Oggi inteso in modo assoluto, oltre la moderazione sociale impressa a questo “terribile diritto” (così lo chiama Stefano Rodotà in un celebre libro) dalla Costituzione.
Nuove alleanze
I poveri devono sparire. Dove? Ovunque. E in nessun luogo. Mentre le città sono piene di appartamenti vuoti, nei centri e nelle periferie si moltiplicano ruderi urbani disabitati, si mantiene una decorosa desolazione. Sempre più persone, incapaci di mantenersi economicamente, saranno costrette a vivere in formicai spettrali. Saranno cacciate, e disperse. Mentre sotto gli occhi della cittadinanza “decorosa” si apriranno ettari di terre perdute, palazzi abbandonati. E fantasmi umani popoleranno ruderi abbandonati. Questa distopia esiste e si trova sulla via Tiburtina, a pochi passi dal carcere Rebibbia. A pochi metri dalla strada sorge un palazzo scheletrico, abbandonato da anni. E’ l’ex fabbrica della pennicilina che un tempo occupava 1700 operai. Oggi, dentro questo edificio sventrato, abitano 600 persone in condizioni disumane. Un luogo inabitabile si è riempito di baracche costruite anche con l’amianto. E’ un ghetto alimentato dagli sgomberi di via Vannina avvenuti nel 2017. Lungo una strada dove sono nati come funghi Casinò, compro-oro, autosaloni e prostituzione è difficile anche che arrivino i movimenti che costituiscono un argine alla ghettizzazione.
“Dal lago della Snia Viscosa a Metropoliz – racconta Carlo Cellamare, docente di urbanistica a Ingegneria Sapienza – il ruolo dell’autorganizzazione è storico e importantissimo. E’ un patrimonio prodotto dalle lotte che producono più politica pubblica delle amministrazioni. Bisogna allearsi con queste forze sociali per ripensare la città. Non sono un pericolo pubblico da sgomberare per difendere il diritto di proprietà, ma un alleato per creare un nuovo diritto”.
E’ una teoria della coalizione sociale: Di questa alleanza fanno parte anche gli intellettuali. A Roma si tramanda una tradizione progressista e radicale, oggi presente nelle università di Tor Vergata, Roma Tre e Sapienza, che li vede impegnati nella progettazione, nell’immaginazione e nella pratica costruzione di una città diversa. Scrivono libri, creano mappe, intrecciano i loro lavori con quello degli artisti. È uno dei dati più interessanti emersi dal “convegno nomade” sui bus. Ne è stato un esempio Antonello Sotgia che mi ha raccontato la storia dei “rossi e degli esperti”. Espressione ricorrente nel Pci, ma presente in tutti gli ambiti di movimento, e non solo nella lotta per la casa. Antonello non si è prestato a quella deriva che ha trasformato gli intellettuali in tecnici della speculazione, consiglieri del principe. È sempre partito dagli oppressi. Il suo obiettivo è stato quello di elaborare strumenti per farli impadronire del loro destino. È una tensione presente nella storia sociale dell’urbanistica, sin da Roma Moderna di Italo Insolera (Einaudi). E la si ritrova nel più recente Roma alla Conquista del West (DeriveApprodi), scritto con Rossella Marchini. Un metodo etnografico e partecipativo, la capacità concreta di progettare, l’organizzazione di alleanze: questo è il modello che emerge dalle lotte per la casa.
“Per me è un’esperienza commovente – racconta Rossella Marchini, architetta e urbanista – In molte occupazioni sono stata il primo giorno, ora vedo come sono state trasformate. Vivere in occupazione è un’esperienza dura e faticosa. Sei costretto a creare comunità con estranei, ad affrontare mille conflitti. Oggi si pensa che la povertà sia una vergogna da nascondere, qui invece si dimostra che ci si può riscattare, è possibile emanciparsi e condurre una vita degna”.
La storia di questi intellettuali è parte di una storia politica. L’ha raccontata Cristiano Armati, autore di La Scintilla: dalla Valle alla metropoli, una storia antagonista della lotta per la casa (Fandango). La resistenza che a Roma ha assunto caratteri di massa ed è intrecciata con la storia dell’urbanistica. Le masse espulse per lasciare spazio ai progetti urbanistici del fascismo che hanno sventrato la città storica erano il bacino della resistenza. Dopo la guerra i comitati di liberazione nazionale furono convertiti in comitati di quartiere che iniziarono la lotta per la casa”. Inizialmente i risultati furono notevoli. Finché le politiche pubbliche per la casa sono durate. E’ stato un periodo in fondo breve. Con la fine del Welfare, e la trasformazione della politica, la precarietà abitativa è cambiata. La data simbolo è il 1989, lo sgombero della Pantanella. Qui è nata la nuova generazione dei movimenti entrati in contatto con i migranti, fatta da loro stessi.
Questa idea di alleanza tra gli intellettuali, gli artisti, gli attivisti e i movimenti per la casa è di straordinaria importanza in un tempo in cui i poveri sono compatiti, e nascosti, mentre gli intellettuali si odiano, oppure prendono posizioni eburnee da social network. Gramsci sosteneva che l’”intellettuale nuovo” deve “mescolarsi attivamente alla vita pratica” e che tutti gli uomini, e le donne, indipendentemente dal loro ruolo sociale, esplicano “una qualche attività intellettuale”, perché non vi è attività umana – neppure la più pratica – “da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale”. Questo vale per l’urbanista, l’architetto, o l’artista, e non solo. E vale per i loro alleati, gli occupanti, di qualsiasi provenienza, dentro questi processi. Impadronirsi degli strumenti e dei concetti, condividerli, è una prospettiva di emancipazione, la costruzione di una forza. Dalla lotta per una casa dignitosa nasce una vita nuova.
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