La città contro il potere sovrano
Saperi. In assenza di un grande collettore politico prevalgono le specializzazioni, manca il dialogo tra i saperi e la frammentazione blocca le potenzialità del pensiero critico. Una parziale cartografia degli studiosi italiani di varie discipline
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La città contro il potere sovrano

di Peppe ALLEGRI e Nicolas MARTINO, da “OperaViva“, 21 giugno 2018

Per capire esattamente che cos’è il potere sovrano ci viene in soccorso, non a caso, un’immagine, quella della copertina della prima edizione del Leviatano di Thomas Hobbes del 1651: un gigante sta letteralmente «sopra», ovvero sovrasta un territorio, tenendo in una mano la spada, simbolo del potere temporale, e nell’altra il pastorale, simbolo del potere religioso. A guardare bene ci accorgiamo che il corpo di questo gigante è composto da tanti piccoli uomini che, tutti insieme, sono racchiusi nel e fanno il corpo del sovrano. Quello che abbiamo di fronte è di fatto un processo di riduzione delle differenze che riporta la moltitudine, pericolosa e ingovernabile secondo Hobbes, alla volontà dell’uno che tutte le differenze contiene e vorrebbe rappresentare.

Ecco che cos’è il potere sovrano, un processo di reductio ad unum. Eccola la sovranità, che nasce indissolubilmente legata a processo di costituzione e affermazione degli Stati sovrani, in un’Europa attraversata dalle guerre di religione. Nulla sta sopra di lui, al di là del potere sovrano, perché sovrano è colui che superiorem non recognoscens, il suo è un potere assoluto, ovvero legibus solutus. Dal Leviatano di Hobbes alla Rivoluzione francese il passo è breve, giusto il tempo di rovesciare il potere sovrano nella sovranità popolare, ma cambiando l’ordine dei fattori, verrebbe da dire ricordando una filastrocca matematica, il risultato non cambia. L’uno continua a essere sovrano, è questa l’ossessione antica del potere occidentale.

E se ne era già accorto, un secolo prima di Hobbes, Étienne de La Boétie, che apriva, polemicamente, il suo Discorso sulla servitù volontaria o Contr’uno, del 1576 citando l’Iliade di Omero: «No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re», e continuava, sferzante, ricordando come l’Uno «stando sopra a tutti e non avendo alcun compagno pari a lui, è già fuori dai confini dell’amicizia», che può fiorire solo su un terreno di eguaglianza. Il legame che tiene insieme i molti, legati al potere sovrano dell’Uno, insiste La Boétie, non è nient’altro che un malencontre, una disonesta perversione, un maledetto errore. Dal quale, augurabilmente, occorrerebbe liberarsi.

L’amicizia allora, che invece è «santa», è l’unico legame «politico» onesto tra gli uomini, e si dà solo tra pari, lì dove non c’è potere sovrano, ovvero tra fratelli. È interessante allora notare che la parola fratello è un diminutivo di frate, contrazione del latino frates che deriva a sua volta dal sanscrito bhratar, che rimanda alla radice bhar-, legata all’idea di sostentamento e nutrizione. Fratello, insomma, è colui che sostiene, che accompagna ed è accompagnato da altri fratelli. Ma dove si può dare questo legame «santo», se non è all’interno dello Stato, spazio per eccellenza del potere sovrano che esclude l’amicizia?

In realtà lo sapevano bene sia La Boétie che Hobbes, come lo sapeva bene Machiavelli: è lo spazio tumultuario del comune ovvero della città, quello spazio dove le differenza tra i fratelli non vengono neutralizzate ma, al contrario, si alimentano a vicenda, facendo più grande la libertà di tutti. Perché, è importante ricordarlo, il legame tra gli amici non dà luogo a una sterile armonia, ma al contrario a un equilibrio conflittuale e produttivo. La Boétie però riteneva che quello spazio fosse andato irrimediabilmente perduto, Hobbes invece lo temeva così tanto da volerlo esorcizzare. Quello spazio, dove si può dare un legame tra pari, è tornato, finalmente, a essere uno dei protagonisti della geometria politica contemporanea, una volta che si è iniziata a sgretolare, pezzo per pezzo, la macchina dello Stato sovrano.

E, saltando dalla storia alla cronaca, ne abbiamo avuto la prova qualche settimana fa: da una parte il rigurgito «criminale» di un Leviatano che non finisce di tramontare e si ripresenta sulla scena nella forma dell’incubo neosovranista e identitario che ordina di chiudere le frontiere, per proteggersi da quella invasione di «barbari» che già secondo la Profezia di Pasolini del 1962, arriveranno «su navi e vela e a remi» e «sbarcheranno a milioni, vestiti di stracci». Dall’altra le città dell’Europa mediterranea, Napoli, Barcellona, Palermo, Valencia e via via le altre, che si sono dichiarate pronte ad aprire i porti e accogliere gli stranieri. Nella consapevolezza che la città è lo spazio dei molti, della differenza mai riducibile a unità, lo spazio dei fratelli che producono ricchezza nel sostegno reciproco e costruiscono una vita migliore nel conflitto e nella cooperazione. La città, porto sempre aperto, è allora l’orizzonte che si spalanca oltre e contro il potere sovrano.

«L’aria della città rende liberi, dopo un anno e un giorno». Così pare recitasse un antico proverbio tedesco di origine medievale, quando ai servi, fuggiti dal potere sovrano esercitato dal loro padrone fuori dalla città, bastava restare per un anno e un giorno all’interno delle mura cittadine per conquistare la libertà e affrancarsi dalla precedente condizione servile. Città vuol dire da sempre libertà, quindi, come detto sopra, ancor prima che lo Stato nazionale e sovrano nascesse, ancor di più dopo, a volte anche contro lo Stato nazionale e sovrano. Perché la città può sentirsi autonoma e indipendente dal potere (del) sovrano e al contempo tessere reti solidali, federate, «municipali consorzj», per dirla con i termini utilizzati dai nostri visionari e isolati fautori di un’Italia ed Europa di città: Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Carlo Cattaneo (1801-1869), che ha sempre sostenuto La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858).

Perché la città è intesa come dimensione ideale di cooperazione sociale e invenzione costituzionale di strumenti di reciproco sostegno e promozione culturale, artistica, economica, produttiva, per affermare un ordinamento istituzionale aderente alle domande di autogoverno e sicurezza delle cittadinanze, di autonomia e solidarietà, per l’appunto. Potremmo chiamarlo diritto di città aperta: luogo in cui sedimenta lo stratificato sapere collettivo che immagina e realizza istituzioni garanti della libertà civile, sociale e politica, della sicurezza collettiva e dell’apertura agli scambi e all’accoglienza, tenendo insieme dignità individuale, autogoverno sociale e benessere collettivo.

Per utilizzare ancora le parole dei nostri Maestri delle città federate, in particolare Romagnosi, lo spazio urbano, non ancora metropolitano, è luogo che favorisce la «cooperazione alla scambievole sicurezza e soddisfazione e sopra tutto il soccorso in caso d’impotenza», con l’affermazione di «una protezione solidale della Comunanza a favore dell’associato», il cittadino, che parte dalla «sicurezza» e giunge al «soccorso», in una visione mutualistica, cooperativa, solidale dello spazio cittadino vissuto tra pari che si autogovernano.

E forse ancora oggi, la città può essere ri-pensata in questa chiave di reciproco sostegno tra cittadinanze che scelgono di vivere nella dimensione urbana, non per ignorarsi o danneggiarsi, ma per sostenersi reciprocamente. Viene in mente l’idea di sodalizio metropolitano, che parla anche alle singolarità produttive, artistiche, culturali, comunicative che tessono la rete cittadina e quella immateriale, digitale, a partire dalle più giovani generazioni. E d’altra parte l’idea di sodalizio ci conduce a quello artistico. Un nuovo diritto collettivo alla città può essere pensato e praticato solamente dal dialogo intergenerazionale tra artisti e sperimentatori di inedite connessioni sentimentali, per un buon vivere associato e una incantata apertura al mondo a venire.

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