CONSUMO DI SUOLO, DISSESTOIDROGEOLOGICO: “UN SUICIDIO” da IL MANIFESTO
Il consumo di suolo non si arresta, e l’Italia non ha ancora una legge
AMBIENTE . Il fenomeno continua a crescere a ritmi forsennati, nel 2021 ha raggiunto il valore più alto dell’ultimo decennio, con 69,1 chilometri quadrati sacrificati per nuove coperture artificiali. E mentre la provincia di Messina conta i danni causati dal maltempo i geologi lanciano l’allarme: «Il 51% dei comuni siciliani non risulta dotato di un Piano di Protezione Civile»
Luca Martinelli 06/12/2022
Nella Giornata mondiale del suolo, il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, intervenendo a Bruxelles al Consiglio trasporti dell’Unione europea, ha tenuto a sottolineare «ai colleghi che l’attuale governo dopo 54 anni di mancati sforzi ha tutta l’intenzione di avere un collegamento stabile fra Sicilia e Calabria, fra Italia e Europa, per il completamento di quel corridoio scandinavo-mediterraneo».
Salvini ha rilanciato il progetto di Ponte sullo Stretto, proprio nei giorni in cui l’intera provincia di Messina sta facendo la conta dei danni legati agli eventi estremi che il giorno 3 dicembre hanno colpito le località di Milazzo, Barcellona Pozzo di Gotto e Terme Vigliatore, causando frane, l’interruzione di strade invase dal fango (anche l’A20 è stata interrotta tra gli svincoli di Falcone e Barcellona Pozzo di Gotto), l’allagamento di case e sottopassaggi. Nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto tra il 2006 e il 2021 le superficie impermeabilizzate sono passate da 928 a 970 ettari, pari al 16,5%. A Milazzo, dove il cemento copre ormai il 33,8% del territorio, da 782 a 831 ettari (la media della provincia di Messina è il 6%).
I DATI, UNA FOTOGRAFIA pubblicata ogni anno dall’Ispra, sono allarmanti, anche perché a dispetto di ogni proclama – ieri il ministro per la Protezione civile e le Politiche del mare, Nello Musumeci, ha detto che «Consumare suolo in maniera indiscriminata significa anche favorire le calamità idrogeologiche» definendolo «un suicidio» – l’Italia non ha ancora una legge contro il consumo di suolo.
«Serve dunque una svolta, serve una nuova condotta improntata al senso della responsabilità di tutti, dai cittadini alle istituzioni. Meno consumo di suolo e più rigenerazione urbana: da oggi dovranno essere questi gli obiettivi per i quali lavorare» ha detto ancora Musumeci, ma nella sua Sicilia, la Regione che ha amministrato fino all’ottobre del 2022, il 51% dei Comuni siciliani non risulta dotato di un Piano di Protezione Civile, come ha ricordato ieri il geologo siciliano Michele Orifici, vice presidente nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale (Sigea).
Quando, come in Italia, si costruisce in zone a rischio frana, esiste un legame tra consumo di suolo e dissesto idrogeologico, reso più forte dagli effetti del riscaldamento globale: «La frequenza con cui si verificano eventi climatici caratterizzati da piogge intense in tempi brevi è sempre maggiore e ciò pone sempre di più all’attenzione la necessità sia di procedere a una rapida programmazione di interventi “strutturali” volti alla realizzazione di opere per la mitigazione dei rischi, sia di attuare misure di prevenzione “non strutturale”, il cui obiettivo è quello di assicurare la corretta e tempestiva gestione di ogni emergenza» ha spiegato Orifici. Se nel messinese, e non solo, si è continuato a costruire è perché da ben dieci anni – come è tornata a denunciare ieri Legambiente – «si attende l’approvazione di una legge contro il consumo di suolo, fenomeno che nel frattempo continua a crescere a ritmi forsennati, tanto che nel 2021 ha raggiunto il valore più alto dell’ultimo decennio, con 69,1 km² sacrificati per nuove coperture artificiali».
La copertura – secondo i dati del Rapporto pubblicato da Snpa-Ispra nel luglio 2022, citato da Legambiente – è arrivata al 7,13%, rispetto a una media europea che si attesta al 4,2%. La proposta di legge sullo stop al consumo del suolo, il cui iter legislativo è iniziato nel 2012, è bloccata in Parlamento dal 2016: approvata dalla Camera dei deputati, prevedeva di arrivare a quota zero, cioè a non cementificare un metro quadro in più, entro il 2050. La carenza normativa fa il paio con la mancanza di un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, anch’esso in stallo dal 2018 (ma dovrebbe essere approvato entro la fine dell’anno, come preannunciato dal governo Meloni dopo la tragedia di Ischia).
A METÀ NOVEMBRE, intanto, l’Ispra ha denunciato che in assenza di nuovi finanziamenti, il completamento della Carta Geologica d’Italia – da cui dipende la conoscenza del suolo e del sottosuolo, indispensabile per contenere i disastri, mettere in sicurezza i territori e procedere a un’idonea pianificazione urbanistica – è a rischio. Il progetto prevede la realizzazione di 636 fogli geologici e geotematici che compongono l’intero territorio nazionale ed è stato finanziato con una certa regolarità fino al 2000 (arrivando al 45% della copertura totale) e quindi ripreso tra il 2020 e il 2022, con la realizzazione di altri 67 fogli geologici e 6 Fogli geotematici. «Con le risorse destinate all’annualità 2022 si esaurirà il finanziamento dedicato al Progetto Carg» spiega l’Ispra in un comunicato stampa.
I disastri della famelica rendita immobiliare
CITTÀ. Cancellati edilizia popolare e equo canone. Affitti più alti e fisco disuguale tra proprietà e locazione hanno spinto milioni di famiglie a investire nel mattone
Gaetano Lamanna 06/12/2022
La rendita non è una categoria economica astratta, ha molto a che fare con la vulnerabilità del territorio, bene comune per eccellenza e con la crescita delle disuguaglianze sociali.
Da decenni il territorio è lasciato in balia di un’espansione urbana incontrollata, che ha generato periferie degradate, abusi edilizi, infrastrutture e servizi inefficienti. Più che alla difesa dell’ambiente e al benessere dei cittadini, il governo del territorio – con il corollario di leggi, regolamenti, incentivi fiscali e condoni – ha guardato agli affari dei proprietari fondiari, delle imprese di costruzione e delle banche. Esiste, da molto tempo, un rapporto malato tra economia e territorio.
La causa prima dell’insicurezza e delle sciagure sta nel connubio di interessi politici ed economici, più che nel cambiamento climatico. A partire dagli anni Ottanta, con la deregulation urbanistica, si è costruito ad una media di 200 mila unità abitative all’anno. Un consumo di suolo senza freni: 77 km quadrati occupati ogni anno da case, capannoni, strade e quant’altro (fonte Ispra).
L’edilizia popolare e l’equo canone sono stati cancellati. L’aumento degli affitti e una ingiustificata asimmetria di trattamento fiscale tra proprietà e locazione hanno spinto milioni di famiglie a investire nel mattone, dando luogo, anche per questa via, a un gigantesco trasferimento di risorse dal lavoro alla rendita.
I programmi di riqualificazione o di «rigenerazione» urbana, inoltre, hanno assunto le sembianze di edifici, infrastrutture e servizi funzionali agli investimenti del mercato immobiliare e al gran bazar del consumismo di massa.
Nelle grandi città e nelle località turistiche e d’arte, i fondi di investimento fanno shopping di aree di pregio e di immobili da adibire ad alberghi di lusso o a sedi di grandi gruppi multinazionali e finanziari; interi quartieri un tempo popolari diventano zone residenziali per ricche famiglie (gentrification); le seconde e le terze case vengono monopolizzate da piattaforme per l’affitto breve (Airbnb); altre piattaforme puntano al controllo del commercio, dei trasporti e di tutto quanto sia fonte di guadagno. Lo sviluppo «locale» è un anello dell’economia «globale».
La politica del glocal, acronimo che indica appunto la competizione territoriale nell’attuale paradigma economico, ha messo in moto dinamiche distruttive del territorio, ha acuito il dissesto idrogeologico, ha alimentato fenomeni di abusivismo e di illegalità.
Le èlites che operano nel «villaggio globale» sono poco interessate alla bellezza urbana, alla città come spazio condiviso, luogo di senso della comunità. Nella loro ottica, la città è uno spazio avvolto nella «rete» di internet e della rendita, la piazza virtuale sostituisce la piazza reale, il business viene prima dei legami sociali.
Si è rimpicciolito lo spazio pubblico, si sono innescati processi di isolamento, di sradicamento e anomia. La globalizzazione, dunque, oltre a rompere il nesso tra sviluppo e progresso (l’assillo di Pasolini), ha indebolito anche la coesione sociale.
Siamo ancora certi che «l’aria della città rende liberi»? Nel recente convegno dell’Anci non c’è stata un’adeguata riflessione sui danni sociali, ambientali e civili derivanti dalle trasformazioni del territorio.
E’ difficile pensare che i sindaci non abbiano alcuna responsabilità sul consumo incontrollato del suolo, sull’abusivismo edilizio e sullo scarso senso civico che comportano.
Eppure molti di loro sorvolano sull’argomento, anzi rivendicano una sorta di scudo contro il reato di abuso d’ufficio. Il Pnrr, sostengono, richiede decisioni rapide in tema di bandi, di appalti, di assunzioni.
Vero, sacrosanta è, tuttavia, la preoccupazione dei cittadini per procedure truccate, scelte sbagliate, soprusi e violenze sull’ambiente e sui beni culturali. La lotta per il cambiamento non può che ripartire dai Comuni.
Restituire la «città ai cittadini» – come recitava un vecchio slogan della sinistra – significa riprendere il controllo democratico della città e del suo territorio, tornare cioè ad un’amministrazione non etero-diretta da logiche di calcolo economico, bensì rispettosa della volontà e dei bisogni concreti delle comunità locali.
La città dei cittadini è alternativa alla città competitiva. La prima incarna i valori d’uso legati alla memoria storica degli spazi urbani, tende a conservarne paesaggio, socialità e bellezza architettonica, fa della cura, della messa in sicurezza e della manutenzione il segno distintivo del governo del territorio. La seconda considera gli spazi urbani a supporto dei valori di scambio, vettori del traffico commerciale, aree edificabili, centri direzionali, in sintesi, mero ambiente per gli affari e per la crescita quantitativa.
La città dei cittadini e la città delle imprese esprimono, perciò, due significati diversi. In un caso si punta ad un equilibrio sostenibile dell’uomo con l’ambiente che lo circonda, nell’altro tutto è subordinato ad un modello di sviluppo che porta vantaggi per pochi e disastri umani e materiali per molti.
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