SOSTENIBILITÀ. IL PROGETTO TRUE PRICE da IL MANIFESTO
Le logiche distorte del mercato pesano nel carrello della spesa
Biologico. Quando la senatrice Cattaneo dice che «l’unica differenza tra i prodotti bio e quelli convenzionali è nel prezzo» fa un torto a migliaia di produttori e ai consumatori. Avere alimenti senza agrotossici è possibile solo con tecniche più costose
Il consumo di prodotti biologici è in costante aumento e si fa sempre più vivace il dibattito sull’agricoltura biologica, sul ruolo che essa svolge e in che misura può contrastare l’attuale modello di produzione e consumo.
QUANDO LA SENATRICE CATTANEO afferma che «l’unica differenza tra i prodotti biologici e quelli convenzionali è nel prezzo» fa un torto a migliaia di produttori e milioni di consumatori, facendo passare l’idea che il prezzo più elevato dei prodotti biologici non ha giustificazione. Ma quali ragioni spiegano questa differenza di prezzo?
La resa delle coltivazioni biologiche è inferiore perché non si fa uso di fertilizzanti sintetici e pesticidi. Il costo di produzione è più elevato perché c’è un maggior impiego di manodopera per un controllo delle piante infestanti. Avere sulla tavola pane, pasta, riso, frutta, verdura, latte, formaggi, biscotti privi di agrotossici è una aspirazione di molti consumatori, ma è possibile solo con tecniche che costano di più.
PER QUANTO POSSA CRESCERE il mercato del biologico non potrà avere gli stessi prezzi dei prodotti convenzionali. Una ricerca del Censis aveva messo in evidenza che 20 milioni di italiani sarebbero disposti ad acquistare prodotti bio se la differenza di prezzo fosse contenuta entro il 30%. Secondo il rapporto Ismea, che ha analizzato per cinque anni l’andamento dei prezzi di alcuni prodotti bio in confronto con quelli convenzionali, la differenza di prezzo può essere diversa in relazione al tipo di prodotto e del periodo dell’anno. Si va da un +5% per il kiwi e le patate al +100% per pomodori. Per la maggior parte dei prodotti la differenza di prezzo si attesta tra il 50% e il 70%.
SONO MOLTEPLICI I FATTORI che determinano questa variabilità, ma quello che incide maggiormente è la forte oscillazione di prezzo che subiscono i prodotti convenzionali che devono fare i conti con problemi di sovraproduzione e saturazione dei mercati. Le importazioni di prodotti esteri a basso costo da parte delle industrie e della grande distribuzione contribuiscono a determinare la volatilità dei prezzi. In alcuni periodi dell’anno i prezzi riconosciuti agli agricoltori per le diverse varietà non vanno oltre gli 1-2 centesimi al kg. Così si crea un mercato di prezzi bassi e con forme aggressive di concorrenza che fanno aumentare il differenziale con i prodotti bio.
LA GRANDE DISTRIBUZIONE si è lanciata nella commercializzazione dei prodotti bio, sia per far fronte alla crescente domanda che per i maggiori margini di guadagno. Ed è proprio la grande distribuzione a trainare le vendite bio, soprattutto nel Nord , dove i supermercati assorbono il 70% della spesa destinata al biologico, lasciando ai canali tradizionali (piccolo commercio e mercati) il 30% delle vendite. Al Sud, invece, il 77% della spesa bio passa per i canali tradizionali. I negozi specializzati nella vendita di prodotti biologici sono un migliaio e negli ultimi anni, pur in una situazione di crescita dei consumi, il loro numero è rimasto stabile per il ruolo crescente della Gdo. Ma quale è il prezzo all’origine dei prodotti bio rispetto al prezzo finale? Se si analizzano i dati di Ismea sui prezzi medi settimanali del mese di giugno per alcuni prodotti provenienti da agricoltura biologica e si confrontano con i prezzi fissati dalla grande distribuzione, si vede un aumento di 3-4 volte rispetto al prezzo originario.
IL LATTE BIOLOGICO, PAGATO 40 centesimi al litro agli agricoltori lombardi, quando raggiunge gli scaffali costa 2 euro. Le nettarine comprate a 1,34 euro al chilo vengono vendute a più di 4. Ed è così per fragole, ciliegie, pomodori, lattuga, melanzane, zucchine. Le promozioni vengono fatte sui prodotti convenzionali, lasciando fuori quelli bio. Tuttavia, la tendenza è quella di una diminuzione nel differenziale di prezzo che in futuro potrebbe essere contenuto entro quel 30% auspicato dai consumatori. Il rischio è che siano gli agricoltori, l’anello più debole della filiera, ad essere penalizzati.
NONOSTANTE TUTTO, LA REALTA’ biologica italiana si sta consolidando. Negli ultimi dieci anni il consumo di cibi biologici è più che triplicato. La spesa annua destinata al biologico è di circa quattro miliardi di euro, pari al 4% della spesa alimentare degli italiani. Secondo Ismea, nel 2020 il 90% dei consumatori italiani ha acquistato più di tre volte un prodotto dell’agroalimentare biologico. Dall’analisi dei singoli comparti risulta che la frutta ha assorbito il 27,2% della spesa totale, il latte e i suoi derivati il 20,5%, gli ortaggi il 19,4%, i derivati dei cereali il 12,3%.
LE COLTIVAZIONI BIOLOGICHE interessano 2 milioni di ettari che corrispondono al 15,8% della superficie agricola. Per ogni cento ettari di superficie coltivata sono bio 5,7 ettari nel Nord-Ovest, 10,1 nel Nord-Est, 21 nel Centro, 20,4 nel Sud e 18,7 nelle isole. Sicilia, Puglia, Calabria ed Emilia-Romagna sono le quattro regioni con le superfici bio più ampie. Nel campo dell’allevamento le produzioni biologiche fanno fatica a decollare, ad eccezione della produzione di uova e di latte vaccino.
FU L’AGRONOMO FRANCESE Louis Malassis a introdurre per primo il concetto di «filiera produttiva» per indicare quel complesso di attività, risorse, passaggi da un operatore all’altro, che consentono di arrivare al prodotto finito e alla vendita partendo dalla materia prima. La filiera agricola è fatta di agricoltori, intermediari, industrie trasformatrici, punti vendita, consumatori. Con i lavoratori agricoli che spesso sopportano condizioni estreme di sfruttamento per consentire alla filiera di funzionare. In agricoltura, e in particolare nel bio, l’obiettivo è quello di accorciare le filiere. Solo una filiera corta può ridurre le intermediazioni, e garantire ai produttori un prezzo adeguato.
IN QUESTI ANNI E’ CRESCIUTA la vendita diretta in azienda, sono cresciuti i mercati contadini, si sono ampliate le vendite attraverso i gruppi di acquisto solidale (Gas), tutelando la capacità di acquisto delle famiglie e garantendo la sicurezza alimentare. Il futuro del biologico dipende da quanto si accorcerà la filiera produttiva. Il 70% del cibo che arriva sulle nostre tavole non proviene da una agricoltura di larga scala, che è il modello che i gruppi agroindustriali perseguono e che hanno celebrato al pre-summit di Roma sui sistemi alimentari. L’agricoltura biologica non è un ritorno al passato e può consentire ad agricoltori, ma anche ai consumatori, di recuperare un ruolo attivo nel «sistema cibo».
Come calcolare il giusto prezzo del buon cibo
Sostenibilità. Il progetto True Price (Amsterdam) assegna agli alimenti anche i costi ambientali a carico della società (clima, distruzione di habitat, salute)
Le uova di gallina allevate all’aperto sono più care di quelle prodotte da animali che hanno passato tutta la vita praticamente senza potersi muovere, nel limitatissimo spazio delle batterie, riempite di antibiotici per poter continuare a sopravvivere nonostante le malattie. Un hamburger vegetale di media qualità costa di più di uno di carne, prodotto di allevamenti intensivi altamente inquinanti.
FRUTTA E VERDURA BIOLOGICHE, almeno in Italia, hanno un prezzo nettamente superiore rispetto ai vegetali ottenuti utilizzando pesticidi e diserbanti che danneggiano l’ambiente. Si potrebbe continuare all’infinito, il concetto è sempre lo stesso, i prodotti sostenibili, da un punto di vista ecologico ma anche sociale, hanno un prezzo superiore rispetto agli altri. Pertanto chi nel fare la spesa vuole tenere conto dell’ambiente, della propria salute e dei diritti dei lavoratori spenderà di più. E ovviamente non tutti ne hanno la possibilità: mangiare green, allo stato dei fatti, è una prerogativa solo di pochi. Per abbracciare questa scelta occorre trovarsi nell’intersezione tra l’insieme di chi ha una certa disponibilità economica e quello di chi è dotato di strumenti culturali e informazioni corrette sui temi della sostenibilità.
MA QUANTO COSTEREBBERO I PRODOTTI alimentari se si tenesse conto del loro impatto sociale e ambientale? Qualora i costi legati ad un prodotto, che non sono interni e pagati dal produttore, ma esterni e a carico della società (come quelli causati dal cambiamento climatico, dalla distruzione degli habitat o dai problemi di salute dei lavoratori), ovvero quelle che in economia vengono definite «esternalità», venissero inclusi nel suo prezzo, a risultare più cari sarebbero i cibi inquinanti e dannosi per la salute. Si avrebbe quindi un totale ribaltamento del mercato. Proprio da queste considerazioni parte il progetto di True Price, impresa sociale nata ad Amsterdam, che promuove un modello alternativo per calcolare il costo dei prodotti.
«PERCHE’ IL SISTEMA ALIMENTARE sia sostenibile è necessario ridurre drasticamente il suo impatto sulla salute e sull’ambiente e al contempo rendere i cibi sani e sostenibili alla portata di tutti», si legge in uno studio elaborato per il Food Systems Summit delle Nazioni Unite, da un gruppo scientifico a cui ha preso parte True Price. Uno dei problemi principali degli attuali sistemi alimentari è che molti dei costi dei cibi nocivi sono «esternalizzati», ovvero non si riflettono sui prezzi di mercato. Allo stesso tempo, a causa delle esternalità, il cibo sano e sostenibile è meno abbordabile per i consumatori. Di qui il primo passo dell’impresa olandese: svelare i costi nascosti.
«CI SONO MOLTI PROBLEMI SOCIALI e ambientali legati ai nostri sistemi di produzione e l’idea di base è che questi effetti negativi devono essere visibili in un modo intuitivo per tutti – dice Pietro Galgani, ricercatore nell’ambito della sostenibilità e R&D manager di True Price – Si tratta di tradurli in un prezzo che puoi mettere accanto al prodotto stesso». In questo modo, oltre a rivolgersi alle aziende, fornendo una metodologia per misurare la sostenibilità dei propri prodotti, il progetto porta questi concetti direttamente ai consumatori. Per questo nei negozi e nel primo store True Price, aperto lo scorso febbraio ad Amsterdam, chi fa acquisti, insieme al prezzo di mercato, paga anche i costi sociali e ambientali dei prodotti. La scelta di spendere di più è totalmente volontaria: chi vuole e ne ha le possibilità può decidere di far fronte anche al «vero prezzo» e in questo modo far sì che il costo addizionale, detto remediation cost, venga utilizzato per riparare i danni creati dai sistemi produttivi. Questo denaro viene quindi trasferito a una rete di organizzazioni impegnate nella tutela dell’ambiente e dei lavoratori.
«L’OBIETTIVO – METTE IN LUCE GALGANI – è riportare risorse nei Paesi di produzione, per ristorare gli habitat danneggiati, compensare le persone e anche trasformare le catene di produzione stesse, rendendole più sostenibili. Il vero prezzo viene calcolato tenendo conto dei costi che servono a compiere queste azioni».
SUL FATTO CHE PER MUTARE i meccanismi del nostro sistema di produzione alimentare sia necessario coinvolgere in primis il consumatore concorda il referente del gruppo di lavoro Asvis (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile) su Goal 2 di Agenda 2030, Gian Paolo Cesaretti, secondo il quale è necessario innanzitutto informare correttamente le persone affinché siano in grado di scegliere alimenti meno dannosi per la propria salute e per il Pianeta: «Se fin dalla scuola materna venisse impartita una buona educazione all’alimentazione, anche chi ha meno disponibilità economica non sarebbe più escluso in termini culturali, potendo puntare sulla qualità dei prodotti. Ad esempio, invece che mangiare carne cattiva ogni giorno, la mangerebbe, buona, una volta alla settimana. Il reddito, anche ove esiguo, verrebbe allocato in maniera più consapevole».
AD AGIRE DOVREBBE ESSERE ANCHE il mondo della comunicazione, connivente con quello delle imprese: «Quando si vedono pubblicità dei polli allevati a terra di alcuni noti marchi, presentati in un contesto totalmente irreale, viene da ridere – prosegue Cesaretti – non dovrebbe essere permesso veicolare questo tipo di messaggi falsi. Il potere dei media è enorme e se usato in modo lungimirante può avere effetti molto positivi e importanti. Questo si è visto ad esempio con la grossa campagna fatta contro l’olio di palma, che informando i cittadini sugli effetti devastanti di questa monocoltura ha fatto sì che, alla fine, molte industrie si adeguassero, sostituendo questo prodotto con altri».
I CONSUMATORI, E’ INNEGABILE, GIOCANO un ruolo non trascurabile nell’orientare i mercati. Ma è corretto scaricare tutta la responsabilità e il «sovrapprezzo» delle scelte sostenibili soltanto su di loro? Una società consapevole del fatto che alcune produzioni abbiano un impatto estremamente negativo sull’ambiente, sulla salute e sui lavoratori, non dovrebbe disincentivarle, invece di riversare i costi sui cittadini sotto forma di spese sanitarie e inquinamento? E, allo stesso tempo, gli alimenti più sani e prodotti nel rispetto dell’ambiente non dovrebbero essere accessibili a tutti? Perché l’economia del sistema agro alimentare diventi eco sostenibile, rispettosa della salute e dei diritti dei lavoratori, le scelte del consumatore non sono sufficienti fintantoché non vengono sostenute da precise scelte politiche che supportino le produzioni sostenibili anche, ad esempio, attraverso sgravi fiscali e incentivi utili a superare i passaggi burocratici per ottenere alcune certificazioni, come quella di agricoltura biologica.
«QUASI NESSUNA SOCIETA’ – dice Cesaretti – ragiona sul lungo-medio periodo. Calcolando i costi che alcuni prodotti hanno sulla spesa pubblica, dopo un’analisi costi-benefici, lo Stato si potrebbe fare carico delle esternalità positive perché ne avrebbe convenienza. Ma invece l’approccio è di breve-medio periodo: i costi dei prossimi cinque anni vengono scaricati sulle future generazioni e i prodotti inquinanti e tossici vengono mandati in Africa e in Asia. Il nostro modello di sviluppo è insostenibile proprio perché manca di equità intergenerazionale e intragenerazionale». Dopo i primi due passaggi – quello di rendere le esternalità negative visibili sotto forma di vero prezzo e quello del pagamento volontario di questo costo aggiuntivo – anche l’obiettivo finale del progetto True Price è agire a un livello più alto, facendo sì che le esternalità cessino di essere tali, venendo internalizzate.
«SE OGNI PRODOTTO VENISSE PAGATO con tutti i suoi costi negativi – sottolinea Galgani – l’economia ne sarebbe trasformata, perché ciò che inquina di più diventerebbe più costoso e la gente smetterebbe di comprarlo. Inoltre questo avvantaggerebbe anche chi produce in modo sostenibile. In generale, infatti, le aziende non sarebbero più costrette a tagliare i costi (risparmiando su misure ambientali e sociali) per essere più competitive: a quel punto di fatto abbasserebbero i loro prezzi riducendo i costi ambientali».
IL NOSTRO SISTEMA AGROALIMENTARE incentiva alcuni prodotti e non altri perché si è sviluppato con l’obiettivo di ottenere cibo disponibile per tutti a basso costo. Ma se alcuni decenni fa questo modello aveva senso, oggi è fonte di enormi danni alla salute e all’ambiente, oltre a generare una gigantesca quantità di alimenti che non vengono utilizzati finendo per diventare rifiuti. Il consumatore, per quanto responsabile e disposto a spendere di più, non può, da solo, invertire questo meccanismo: intervenire affinché ciò avvenga è una scelta puramente politica. Da cosa si potrebbe partire, ci si chiederà, per generare questo cambiamento?
MOLTE PROBLEMATICHE AMBIENTALI e sociali potrebbero essere risolte se gli Stati decidessero di agire sui mercati facendo sì che le esternalità negative cessino di essere considerate dei costi collaterali inevitabili, ma vengano internalizzate, diventando parte integrante delle dinamiche di mercato. «Un sistema economico sostenibile – continua Galgani – è quello in cui andiamo a tassare le cose che non vogliamo nella società, come i costi ambientali o sociali. Oggi invece i nostri governi impongono un gettito fiscale che si traduce interamente in tasse sul lavoro e sul reddito. Ma queste sono cose positive che vorremmo avere di più nella nostra società ed è perciò auspicabile quello che viene definito tax shift o environmental tax reform.
INVECE CHE SUL LAVORO, IL PESO delle tasse in questo modo ricadrebbe sulle attività più dannose a livello ambientale, così tutti i prodotti con un impatto più pesante sull’ambiente, compresi gli alimenti, risulterebbero più cari, ma al contempo i redditi e i profitti creati generando lavoro, venendo detassati, avrebbero un incremento. E ancora, grazie a una riduzione delle tasse sul lavoro, i prodotti senza grossi costi ambientali e sociali diventerebbero molto più convenienti.
«DECIDERE COSA TASSARE – PROSEGUE il ricercatore – è una scelta politica. In Svezia, nell’ambito delle misure volte a favorire l’economia circolare, è stata abbassata l’Iva su chi ripara. Spesso per noi comprare un oggetto nuovo risulta più economico che ripararne uno rotto (magari anche semi nuovo), perché rispetto a uno stipendio di un lavoratore, ad esempio, cinese, ne abbiamo uno europeo. Se si considerasse il costo ambientale della produzione dell’oggetto, tuttavia, ripararne uno vecchio sarebbe senz’altro la scelta più economica, di qui la decisione del governo svedese.
A LIVELLO ALIMENTARE VALE LO STESSO discorso: si dovrebbero detassare i prodotti con meno esternalità. In Italia, ad esempio, il latte vegetale ha una tassazione maggiore rispetto al latte di origine animale, perché quest’ultimo viene considerato una necessità, mentre il primo no. Invece si potrebbe aggiornare l’Iva per stare al passo con i tempi e contribuire alla necessaria riduzione delle emissioni dannose per il clima, o addirittura andare oltre e ridurre ancora di più l’Iva sul latte vegetale, in considerazione del fatto che ha un profilo ambientale migliore».
IN QUESTO MODO I PRODOTTI PIU’ SANI ed eco sostenibili diventerebbero finalmente alla portata di tutti, avvicinando le persone a una dieta green e meno nociva. Non solo: quelli con maggiore impatto sociale e ambientale risultando più cari verrebbero comprati meno, andando a creare meno danni ambientali e alleggerendo la spesa pubblica dai moltissimi costi sostenuti per curare le malattie provocate dal loro consumo. Se il sistema produttivo dovesse rimanere immutato, le conseguenze ricadrebbero sulle generazioni presenti e future, che si ritroverebbero a vivere in una realtà in cui l’incessante distruzione degli ambienti naturali andrebbe di pari passo con il diffondersi di patologie e con l’aumento delle diseguaglianze.
PER TUTELARE LA NOSTRA SALUTE, il pianeta e promuovere l’equità sociale è necessario che i governi intervengano affinché i prezzi siano quelli reali e i mercati assorbano tutti i costi esterni che generano. Smettendo di scaricarli sui cittadini.
Il perché della nostra assenza, ma il dialogo per noi resta aperto
L’appello. La lettera in cui il Csm, Meccanismo della società civile e dei popoli indigeni, spiega le ragioni della mancata partecipazione al pre-Vertice Onu sui sistemi alimentari. E le ragioni della contro-mobilitazione*** 29.07.2021
Il Csm (Meccanismo della società civile e dei popoli indigeni) che riunisce molte delle organizzazioni coinvolte nella Contro-mobilitazione parallela al pre-Vertice sui sistemi alimentari (tutto sul sito www.foodsystems4people) ha declinato per iscritto l’invito ricevuto da Agnes Kalibata (ruandese, inviata speciale del segretario dell’Onu per il Vertice ma anche dal 2014 presidente dell’Alleanza per una rivoluzione verde in Africa, finanziata principalmente dalla fondazione Gates).
Ecco ampi stralci della lettera di risposta a Kalibata, inviata pochi giorni fa e firmata da Martin Wolpold-Bosien, coordinatore della segreteria del Cms.
«Dr. Kalibata, La ringraziamo dell’invito. Dopo una consultazione interna, il comitato di coordinamento del Csm ha deciso di mantenere la posizione già espressa in precedenti comunicazioni sul Vertice. Abbiamo visto che le nostre preoccupazioni e critiche sono state confermate dal processo di preparazione nei mesi scorsi; ci hanno fatto eco scienziati, esperti e persone coinvolte nel processo del Vertice. Mesi fa, la nostra lettera vi chiedeva cambiamenti di sostanza nella direzione dell’intero processo del Vertice, dal momento che non intendevamo saltare su un treno in corsa verso la direzione sbagliata. (…)
Settimane dopo, il dialogo in risposta alla lettera del Csm ci dimostrava con chiarezza che la segreteria del vertice non aveva intenzione di considerare seriamente i nostri suggerimenti. E la conversazione con la vice-segretaria generale dell’Onu Amina Mohammed rendeva evidente, in un’atmosfera costruttiva, l’esistenza di due cammini e visioni totalmente diversi rispetto alla trasformazione dei sistemi alimentari e al multilateralismo nel processo del Vertice, da un lato, e dall’altro la società civile e i popoli indigeni autonomi.
Ecco perché organizziamo la contro-mobilitazione al pre-Vertice dal 25 al 28 luglio, come sforzo congiunto da parte di centinaia di organizzazioni internazionali, regionali, nazionali, locali: contadini e piccoli proprietari terrieri, donne, giovani, popoli indigeni, pastori, senzaterra, braccianti e lavoratori dell’agroindustria, pescatori, consumatori, urbani in stato di insicurezza alimentare e Ong di molti settori. Se la leadership del Vertice fosse stata davvero interessata a una partecipazione sensata delle nostre organizzazioni, le nostre voci e preoccupazioni sarebbero state ascoltate già molto tempo fa e le nostre richieste di riorientare il Vertice non sarebbero state ignorate.
Dobbiamo concludere che non c’è stata la volontà politica di ascoltare e cambiare, perché il processo era concepito per altri obiettivi, al servizio soprattutto dell’agenda del settore privato. Vista la situazione, il Comitato di coordinamento del Csm ha convenuto sulla opportunità di declinare rispettosamente il vostro invito al pre-Vertice: le nostre organizzazioni non possono fornire la propria legittimità a un processo estremamente problematico, al quale si oppongono con forza».
Le organizzazioni del Csm erano disponibili al dialogo sul Vertice sui sistemi alimentari. Avevano anche apprezzato la disponibilità all’ascolto delle loro ragioni, nell’ottobre 2019, all’inizio di tutto il processo. Ma, nell’ottobre scorso, durante la riunione presso la Fao del Comitato per la sicurezza alimentare (Cfs) – un organismo inclusivo del quale il Csm fa parte -, avevano rivolto un appello pubblico richiamando «l’influenza delle multinazionali nella preparazione del Vertice; la carenza sulla tematica dei diritti umani; la mancanza di enfasi sull’enormità della trasformazione che il settore del business agroalimentare dovrebbe intraprendere per riallinearsi agli imperativi delle persone, dei popoli, del pianeta; la minaccia alle istituzioni democratiche pubbliche e al multilateralismo inclusivo, minato all’approccio di troppi portatori di interessi (multistakeholderism)».
* Csm, Meccanismo della società civile e dei popoli indigeni
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